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“Dammi i dimafoni!” La dettatura “impossibile” sotto l’ala di un aereo

 

 

 

di Beppe Donazzan*

(Atar Mauritania – dal nostro inviato) La postazione telefonica era sotto l’ala di un aereo con una grande scritta Olivetti. Tavolini bianchi ripiegabili, sedie blu da campeggio, quelle leggere. Tutto per essere montato e smontato in un attimo, operazioni che si ripetevano due volte al giorno. All’arrivo di tappa e alla partenza, all’alba.

Per dettare il pezzo al giornale prima consegnavi all’addetto la carta di credito, poi il numero di telefono. Nel 1987 o dettavi o mandavi un fax, i computer portatili a “Il Gazzettino” sarebbero comparsi di là ad un anno.

“Dammi i dimafoni…”, la richiesta al centralino. Al pomeriggio il dimafonista di turno era quasi sempre Lucio Rubinato, veneziano del centro storico, battuta sempre pronta, uno che non le mandava a dire neanche al direttore. Se volevi sapere qualcosa che stava succedendo al giornale ti rivolgevi a lui. Un “taja tabari”, come si dice a Venezia, a denominazione di origine controllata. Un professionista di grande esperienza, ormai vicino alla pensione.

Andava a giorni, se aveva la luna poteva succedere di tutto. O restava in silenzio per tutta la dettatura del pezzo, per cui ad un certo punto non capivi se avesse registrato per bene, oppure interrompeva la comunicazione ad ogni secondo.

“Detta pure…”, la frase di rito.

Iniziai. “Dal nostro inviato, Atar, trattino…”. Mi bloccò subito.

“Dove casso xelo ‘sto posto?”.

“In Mauritania”, risposi. Iniziò la lezione, passando dal dialetto all’italiano: “Fammi lo spelling: A come Ancona, T come Torino, Ancona, Roma. Poi aperta parentesi Mauritania chiusa parentesi…”.

Alle mie spalle erano arrivati alcuni colleghi che dovevano inviare i pezzi. Stavano scalpitando ed io dovevo ancora iniziare. Due articoli, uno di colore e uno sulla gara. Pensai che, dopo quel siparietto, mi lasciasse andare avanti spedito.

“Detta pure…”, ripetè.

“Quello che leggete è affidato al vento. Stupisce riuscire a parlare con la civiltà da un posto sperduto dell’Africa, dove i telefoni non esistono.”

Si riinserì nella comunicazione. “No, vecio, questo non xe afidà al vento, sta troiada gò da ciuciarmela mi…”, devo trascriverla io, la traduzione.

Faceva caldo e avevo ancora più caldo attaccato a quella cornetta del telefono diventata rovente. Ero ancora alla prima riga, a 56 battute, delle 60 previste per il primo pezzo più le 70 del secondo. Pensai che avrei concluso di là a due ore se avesse continuato così. Sapevo che se mi fossi incazzato sarebbe stata la fine. Per cui continuai. “Detto queste righe da Atar, 450 chilometri a nord di Nouakchott…”. Ancora prima che iniziassi lo spelling, Rubinato mi interruppe: “Cossa, cossa…pian pian, no capisso un casso, lettera per lettera, N come Napoli…”. Un tormento.

Continuai: “…capitale della Mauritania. Il prodigio avviene tramite un paraboloide piazzato sulla sabbia, puntato verso il cielo, a sud, in un punto ben preciso dove c’è il satellite che fa rimbalzare la mia voce fino a Venezia. Il prefisso per l’Italia, il numero del giornale e… in pochi secondi la magìa è compiuta”.

Non mi interruppe più, dettai veloce, dietro di me i colleghi aveva iniziato a borbottare.

Alla fine dissi: “Lucio, tutto bene?”. Rispose con la sua voce metallica: “Ti sa qualo che xe el prodigio? Che ti ga finìo…”.

Gli dissi di trascrivere i pezzi e di portarli subito alla redazione sportiva.

Mi folgorò: “Ti pensavi che ghe li portassi a la cultura?”.

“Grazie mille, Lucio, a domani…”.

“No, vecio, domàn sò a casa, par fortuna…”.

Buttò giù.

Come una commedia del Goldoni. Una metafora. La vita del mondo “civile”, fatta di tensioni e la vita alla Dakar, con altri banalissimi problemi che non potevano nemmeno essere immaginati. Accadeva anche questo.

Dai colleghi, seduti a terra in attesa, arrivò un ohhhhh. Di liberazione.

 Tratto dali libro “Dakar, L’inferno nel Sahara” di Beppe Donazzan (Giorgio Nada Editore – Giunti) 2015.

beppe donazzan* giornalista – scrittore


 

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