di Nelli Elena Vanzan Marchini*
Nel Quattrocento se un chirurgo doveva eseguire una amputazione e non aveva con sé i suoi attrezzi, si faceva prestare da un falegname seghe e scalpelli. La chirurgia era strettamente apparentata all’arte dei barbieri che per il proprio ordinamento (Capitolare del 1270) tagliavano barbe e capelli, praticavano i salassi, prescritti abitualmente dai medici per purificare il corpo dalle malattie, e curavano “bruschi e sgrafadure”. I barbieri-chirurghi curavano i feriti sui campi di battaglia e si imbarcavano per assistere gli equipaggi delle navi da guerra.
Per questa sua funzione pratica la chirurgia restò a lungo relegata ad esercizio di una bassa e cruenta manualità posta in ruolo subalterno rispetto alla più nobile e teorica professione dei medici-fisici che prescrivevano diete e salassi, purghe e clisteri indicando regimi sanitari ed esprimendosi per aforismi. In occasione della grande peste del 1348 e delle frequenti ondate epidemiche che colpirono l’Occidente, a differenza dei medici-fisici che rifuggivano ogni contatto con i contagiati coprendosi con lunghi abiti e maschere dal lungo becco in cui collocavano erbe aromatiche per contrastare i miasmi, i chirurghi intervenivano per incidere e cauterizzare i bubboni e molti vennero isolati nella case e nelle zone infette della città. Le loro cure erano inefficaci e dolorose ed essi stessi, dato il rapporto diretto che avevano con i malati, potevano divenire veicolo delle pulci pestigene e pestifere.
Un’altra malattia, forse portata dall’America dai marinai di Cristoforo Colombo o forse endemica e sopita per lungo tempo nel vecchio continente, si diffuse con virulenza in tutta Europa. A scatenarla fu la spedizione di Carlo VIII di Valois in Italia nel 1494 per rivendicare il Regno di Napoli occupato dagli spagnoli. Gli spostamenti di truppe con le loro meretrici al seguito, la promiscua convivenza di soldatesche e popolazioni affamate per i saccheggi, il dilagare di miseria e prostituzione diffusero il male venereo nel corpo a corpo sui campi di battaglia come pure nei rapporti mercenari. Al rientro in patria i soldati portarono alle loro spose la sifilide che dilagò in tutta Europa e venne chiamata morbo gallico, mal di Napoli, celtico, mal dei Portoghesi, mal dei Cristiani… Tutti lo attribuirono al paese vicino, per la sua origine “spurzissima” manifestata dal sifiloma primario cioè da un’ulcera vicino agli organi sessuali. La malattia ciclica e a lungo decorso scompariva per manifestarsi con varie affezioni cutanee e articolari e nell’ultima fase, dopo anni, con escrescenze tumorali dette “gomme” variamente localizzate. Anche queste manifestazioni ricadevano nella competenza dei chirurghi che le incidevano e le cauterizzavano, con grande sofferenza dei malati e con risultati infausti. La preparazione dei chirurghi era demandata al diploma in uno studio generale e alla licenza del loro Collegio che, in seguito alle pestilenze restava spesso vuoto consentendo ai medici-fisici di appropriarsi delle cariche vacanti. Ne derivavano lotte di potere con una costante rivalità tra le due professioni. Li univa l’obbligo di esercitare l’anatomia per l’aggiornamento professionale una volta l’anno nei mesi invernali. Così aveva stabilito il Maggior Consiglio (27 maggio 1368) sancendo la perdita dello stipendio dei salariati e la sospensione per 2 anni dei liberi professionisti per quanti non seguissero tali ostensioni, eseguite per lo più sui corpi di condannati. La lezione si svolgeva a due livelli : in quello alto, sulla cattedra, il medico-fisico leggeva i sacri testi della medicina classica, nella parte inferiore il barbierotto/ basso chirurgo operava come “sector”, cercando fra le viscere e il sangue conferma alle teorie.
Con Andrea Vesalio la medicina guadagnò, attraverso la pratica anatomica, il rapporto diretto con il cadavere per scoprire nella morte i segreti della vita, il corpo divenne allora protagonista dei testi scientifici con l’aiuto del naturalismo pittorico. Veri e propri teatri lignei venivano montati all’interno dell’Università di Padova per mettere in scena l’anatomia operata direttamente dal medico non per trovare conferme ma per svelare conoscenza. Anche i testi chirurgici cominciarono a ritrarre con crescente attenzione e con sempre maggiore realismo le scene operatorie negli ambiti domestici. Giovanni Andrea dalla Croce nella sua Chirurgia Universale (1574) dedicò un intero capitolo ai ferri del mestiere, dalle seghe ai trapani con meccanismi e funzioni da lui inventati.
Nei seicenteschi “armamentari” di Pierre Dionis e di Johannes Scultetus (foto3) i ferri chirurgici si compongono in set nobilitati dalla curiosità per l’esercizio della chirurgia. Nel Jardin Royale si pagava il biglietto per assistere alle anatomie e alle operazioni del chirurgo del re.
Con il secolo dei lumi le strategie operatorie divennero protagoniste di testi specialistici che ritrassero anche la strumentazione fin nei piccoli particolari a grandezza naturale perché potesse essere fedelmente riprodotta. Alcuni maestri coltellinai come Jean J. Perret a Parigi assistevano alle operazioni per soddisfare le esigenze tecniche della chirurgia in ascesa. La crisi della medicina teorica e l’entusiasmo illuministico per le tecnologie avevano creato l’humus adatto alla rivalutazione della chirurgia divenuta un’arte, ma le aspettative di vita rimanevano scarse.
Molti, come il filosofo D’Alembert sofferente di calcolosi, preferivano morire piuttosto che farsi operare. Le scene operatorie ritratte nelle “Istituzioni chirurgiche” da Lorenz Heister indicano le posizioni consigliate ai nerboruti assistenti per immobilizzare il paziente e consentire al chirurgo di operare rapidamente fra urla e fremiti, con le mani nude, le maniche rimboccate di abiti quotidiani.
Nel secolo seguente compaiono dei grembiuloni bianchi per riparare dagli schizzi di sangue un abbigliamento consueto, mentre la strumentazione con eleganti manici in tartaruga e osso, era collocata in eleganti valigette in legno foderate di velluto. Il tutto con scarsissima igiene.
Quando Giovan Battista Morgagni indusse a cercare nei cadaveri dei malati le lesioni d’organo provocate dai morbi, favorì la pratica sistematica dell’anatomia patologica negli ospedali. Il passaggio delle mani del chirurgo da un paziente morto ad uno vivo o ad una partoriente moltiplicarono i decessi per infezione e per febbre puerperale. Fra il 1847 e il 1849 l’ungherese Ignazio Semmelweis dimostrò tale nesso nella clinica ostetrica di Vienna dove le puerpere seguite dai medici avevano una mortalità molto più elevata rispetto al reparto seguito dalle levatrici. Egli introdusse l’asepsi con l’uso di cloruro di calce. I risultati furono straordinari. Abbatté in tre anni la mortalità dall’11% all’1 % ma venne fieramente ostacolato dalla classe medica. I suoi colleghi non accettavano di poter essere veicolo di infezione e morte. L’ospedale non intendeva cambiare le lenzuola e i medici non volevano soggiacere ai frequenti lavaggi delle mani. Cacciato da Vienna Semmelweis si trasferì all’ospedale di San Rocco a Pest dove fu ostacolato. Colto da depressione e ricoverato in manicomio vi morì per percosse a 47 anni, era il 1865. In quello stesso anno, oltre manica, a Glasgow Joseph Lister per abbattere l’elevata mortalità operatoria utilizzò l’acido fenico in soluzione per disinfettare le sue mani, la pelle del paziente, gli strumenti, ogni cosa del campo operatorio, aria compresa. Aveva inventato la pratica antisettica.
Intanto l’impiego dell’etere (1846) e del cloroformio (1849) stava rivoluzionando la regia operatoria: l’immobilizzazione forzata del paziente, il ritmo concitato dell’intervento, le urla di dolore, gli ordini gridati dal chirurgo che agiva contro il dolore e contro il tempo, furono sostituiti dalla calma e dal silenzio. Asepsi e antisepsi ridisegnarono l’arredamento della sala e l’abbigliamento dei protagonisti: furono indossati camici, maschere, guanti, cuffie, camicioni e calze, comparvero macchinari per la sterilizzazione, si moltiplicarono gli spazi e i tempi per la preparazione del malato, per l’intervento e per l’immediato postoperatorio. Tali trasformazioni resero possibile il controllo della mortalità e il rapido progresso scientifico della chirurgia.
Nell’ottocento i collegi medico-fisico e chirurgico vennero sciolti e anche la laurea divenne unica in medicina e chirurgia mentre si moltiplicavano le specializzazioni. La rimozione del dolore dalla scena operatoria e l’abbattimento dei rischi derivanti dalle infezioni delegavano alla abilità del chirurgo il successo dell’intervento sulla assente presenza del malato. L’esito delle operazioni venne agevolato dallo sviluppo tecnologico. Ai maestri coltellinai si sostituirono le industrie di tecnologie medico-chirurgiche e la tecnica operatoria intraprese la grande avventura dei trapianti in primis del trapianto del cuore.
Una mattina di dicembre del 1967, quando al “Groote Schuur” Hospital di Città del Capo Christian Barnard (1922-2001) sostituì il cuore di un uomo (affetto da una grave forma di cardiomiopatia), con quello di una giovane di 24 anni deceduta per un incidente stradale.
In poche ore, le condizioni cardiache e generali del paziente migliorarono, dopo 18 giorni dall’intervento morì per una polmonite. La strada era tracciata me restavano le obiezioni etiche e le incognite del rigetto. La scena operatoria si moltiplicò, si dovettero mettere in sistema più ospedali ed équipe per una chirurgia basata sulla sinergia e sul coordinamento di più esperti in più ospedali.
Il primo trapianto in Italia venne felicemente eseguito a Padova da Vincenzo Maria Gallucci (1935-1991) nella notte fra il 13 e il 14 novembre 1985. Il successo fu garantito dalla geometrica precisione con cui furono eseguite tutte le fasi dell’espianto a Treviso dove si trovava il donatore, un ragazzo morto in motorino, e Padova dove si trovava il ricevente, Ilario Lazzari che poté continuare a vivere. Da allora migliaia di pazienti sono stati trapiantati con eccellenti risultati e con una sopravvivenza fino a 10 anni per oltre il 70% di essi.
* Storica – Docente Universitaria