di Nelli-Elena Vanzan Marchini*
Il 16 settembre 1943, nel Ghetto di Venezia, il rabbino Adolfo Ottolenghi sta celebrando le nozze di Fausta Brandes e Angelo Calimani quando giunge la notizia che il presidente della comunità ebraica, Giuseppe Jona, si è suicidato. La lieta cerimonia si trasforma in una triste commemorazione del professor Jona, ma soprattutto i presenti si rendono conto con angoscia della rapidità con la quale si sta aggravando la situazione per gli ebrei. I due sposi, allarmati, non rientrano a casa e passano la notte all’Hotel Rialto come turisti, il giorno dopo prendono la strada per la Svizzera. Come loro molti ebrei scappano.
Ma chi era Giuseppe Jona e perché il suo gesto ebbe tanta risonanza? Classe 1866 , quarto di cinque fratelli, era nato a Venezia da famiglia ebraica, studiò al Liceo Marco Foscarini, si laureò all’Università di Padova in medicina. Fece pratica all’Ospedale Civile di Venezia, conseguì la libera docenza in anatomia a Padova e divenne primario di Anatomia patologica dal 1905 al 1912 e poi di Medicina Seconda dal 1912 al 1936. Laico e positivista non si sposò, ma visse per i suoi fratelli e nipoti, per i suoi allievi e colleghi, per l’impegno sociale e la ricerca scientifica. Dedicò un grande impegno alla formazione dei giovani nella “Scuola Pratica di Medicina e Chirurgia” fondata nel 1863 all’Ospedale Civile perché i primari preparassero i neolaureati alla cura nelle corsie, al letto dei malati. Egli introdusse la pratica metodica dell’autopsia su tutti i pazienti deceduti e il dibattito interdisciplinare dei casi più interessanti. Durante la prima guerra mondiale Jona prestò la sua attività come maggiore-medico ausiliario guadagnandosi la menzione di “patriota entusiasta di fede incrollabile”. Ma la sua battaglia la conduceva anche in pace, credeva infatti che la filantropia fosse un doveroso impegno per cercare di riequilibrare le disuguaglianze sociali al di là delle differenze di credo. La esercitava soprattutto individuando i bisognosi negli ospedali che aiutava con la sorella Paolina. A differenza dei primari dell’epoca, egli cercava il contatto con la gente in particolare con i più sfortunati per i quali aveva attivato un ambulatorio gratuito, perciò era chiamato “il medico dei poveri” da una Venezia che lo stimava e gli era riconoscente.
Aveva tratto dagli insegnamenti paterni e dalla cultura del suocero, il dotto Moisè Giuseppe Levi, l’amore per la città e per la sua storia. Entrò a far parte dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti e dell’Ateneo Veneto di cui fu presidente dal 1921 al 1924. In quegli anni promosse la biblioteca circolante avviata da Davide Giordano per diffondere la lettura fra il popolo e affrontò le questioni della sanità cittadina, auspicando all’Ospedale Civile un Istituto Anatomo-Patologico di rilievo internazionale e il potenziamento del museo anatomico che lui stesso aveva fondato. In quegli anni al Lido stava sorgendo sulla spiaggia il rinnovato Ospizio Marino Veneto per la cura degli “scrofolosi” con il mare e il sole. L’Ateneo Veneto ne era stato nel 1868 il primo promotore e continuava ad essere fra i patroni del nuovo grande complesso in zona La Favorita. Jona, che vedeva i possibili sviluppi scientifici dell’istituto, propose la creazione di una stazione idrobiologica accanto a quella talassoterapica già esistente per dare impulso alle cure marine. Non a caso due dei suoi migliori allievi, Mario Battain e Giacomo Dalla Torre ricoprirono due primariati in quell’Ospizio Marino Veneto trasformato nel 1933 in Ospedale al Mare.
(Nella foto in alto Giuseppe Jona seduto al centro fra i suoi allievi, alla sua sinistra Mario Battain e alla sua destra Giacomo Dalla Torre – Sopra Giuseppe Jona)
Il vecchio professore andò in pensione nel ’36 così gli fu risparmiata l’umiliazione di essere licenziato dal suo Ospedale in ottemperanza alle leggi razziali del 1938 che comportarono la sua espulsione dalle istituzioni culturali veneziane. Nel 1940 fu radiato dall’albo come tutti gli altri medici ebrei cui furono proibite anche le visite ai pazienti ricoverati. In quell’anno, nonostante non avesse mai frequentato la sinagoga e non fosse credente, il rabbino Adolfo Ottolenghi e il consiglio della Comunità Israelitica, gli chiesero di assumere la presidenza, ritenendolo un rappresentante autorevole stimato da tutti. Per quell’impegno etico che lo aveva sempre spinto ad aiutare i più deboli e per deferenza alle religione dei suoi genitori, Jona accettò. Nel discorso del suo insediamento previde che la situazione sarebbe peggiorata e che il compito era arduo, ma non si tirò indietro. Organizzò la scuola per i bambini, cercò di difendere la comunità dalle violente aggressioni della stampa e delle squadracce fasciste utilizzando il suo carisma e le sue relazioni.
Dopo l’armistizio (8 settembre 1943) la situazione cominciò a peggiorare e Giuseppe Jona il 14 settembre iniziò a scrivere il suo testamento, ma non pensava al suicidio, come rivela la clausola che ipotizzava che la sorella Amalia potesse morire prima di lui. Con accenti affettuosi l’anziano professore lasciò eredi i suoi cari dei suoi beni mobili e immobili non dimenticando le due fedeli donne di casa che avevano accudito la sorella Paolina mancata nel 1941 dopo una lunga malattia.
Con la sua scrittura piccola, fitta e precisa annotò le sue volontà esprimendo la gerarchia dei suoi valori e i dei suoi affetti: destinò alla biblioteca dell’Ospedale Civile la sua biblioteca di 1.684 volumi, fra cui preziose cinquecentine e testi rari ereditati dal nonno Moisè Giuseppe Levi e dal padre Moisè Jona, entrambi medici. Lasciò 240.000 lire in buoni del tesoro affinché la loro rendita (al 5%) venisse impiegata per elargire ogni anno 4 premi di 1000 lire agli infermieri più meritevoli del reparto di medicina e chirurgia, 4 premi di 1000 lire per i malati poveri con famiglia onesta e bisognosa, altre 4000 lire per consentire a due medici, scelti dal consiglio dei primari con regolare concorso, di specializzarsi in istituti italiani o stranieri.
(Il volume in cui è pubblicato il testamento di Giuseppe Jona (Treviso, Canova 2014)
foto 4 Padiglione che dopo la liberazione fu intitolato a Giuseppe Jona all’Ospedale Civile di Venezia)
Con una precisione quasi scientifica stabilì donazioni da erogarsi ai più indigenti e più indifesi al di sopra delle distinzioni confessionali: destinò 60.000 lire in buoni del tesoro alla casa di ricovero israelitica, altre 3000 a 6 famiglie bisognose della parrocchia di San Felice scelte dal parroco e infine 1500 lire a tre famiglie povere scelte dalla commissione di beneficienza della comunità israelitica.
Il 15 settembre il professore aggiunse l’ultima postilla. Era il sobrio e quasi sommesso commiato al cognato e alla moglie del nipote, Adriana Gay Jona. Non li aveva citati nelle sue ultime volontà perché non erano eredi diretti, ma sentiva l’esigenza di precisare che anch’essi rientravano fra i suoi affetti più cari, come gli amati pronipoti: i piccoli Alberta e Gianfranco. Chiudeva così il suo testamento perché aveva deciso di chiudere anche la sua vita. Era la sera, forse la notte del 15 settembre, il professore non vide il mattino del giorno seguente.
Una discrepanza di date ha tinto di giallo il suo suicidio. Giuseppe Jona si uccise dopo aver scritto l’ultima lettera al suo allievo prediletto Mario Battain . Proprio il dott. Battain, chiamato dalle domestiche, corse a casa Jona con il medico legale il 16 mattina. La salma del professore fu portata alla morgue del Civile. La notizia del suicidio trapelò immediatamente e raggiunse la comunità ebraica. Il decesso fu registrato solo alle tre e cinquanta della notte seguente cioè del 17 settembre.
Perché questo ritardo? Il professore aveva scombinato i piani dei nazisti che contavano di utilizzare l’anziano capo carismatico della comunità ebraica per avviare gli ebrei veneziani alla “soluzione finale”. Jona era amato e stimato da tutta la società civile per la sua statura scientifica e morale. Il suo gesto laico da eroe pagano fu un insulto per i nazisti che avevano catturato tre ebrei il 15 settembre, ma li rilasciarono il 16 senza aver formalizzato il loro riconoscimento al fine di “consentire la pacificazione degli animi”. Da cosa erano stati turbati gli animi quel 16 settembre oltre che dal suicidio del “medico dei poveri”?
Forse i nazisti avevano convocato il professore per identificarli perché il rabbino Ottolenghi era quasi cieco. Jona come presidente della comunità conosceva gli ebrei e possedeva le liste aggiornate dei residenti. Come medico conosceva anche i cristiani che li nascondevano. Andava a visitare di nascosto i malati nelle case, coperto da un ampio tabarro e da un capello floscio a larghe tese. In quel tragico 15 settembre si rese conto che non avrebbe avuto la forza necessaria per opporsi ai confronti, agli interrogatori e alle torture. Alle sue domestiche che volevano ospitarlo presso le loro famiglie in campagna rispose che non voleva nascondersi come un colpevole perché non aveva nulla di cui vergognarsi perciò, proprio lui che aveva sempre combattuto la morte, la scelse per non tradire gli altri e per dare un segnale di indignazione e di allarme.
I nazisti furono spiazzati dal suo suicidio. Vollero sminuire il gesto, presero tempo, cancellarono ogni possibile motivazione politica per trasformare il suo segno di denuncia e ribellione in una prova di debolezza. Si proibì il corteo al suo funerale consentendo soltanto a 10 persone di accompagnarlo al cimitero ebraico al Lido. Per motivi di ordine pubblico, si disse. I colleghi lo salutarono in raccoglimento nel cortile dell’Ospedale. I gondolieri, riconoscenti per le sue cure disinteressate, sfilarono in silenzio sull’acqua. In città si era convinti che gli era stata chiesta la lista degli ebrei e che per non consegnarla si era tolto la vita.
Forse qualche correligionario non gli perdonò di aver chiesto e ottenuto la “discriminazione” ovvero il favore di sottrarsi all’applicazione di alcune leggi razziali. Dai documenti d’archivio risulta che egli in effetti chiese la discriminazione, non per differenziarsi dagli ebrei ma solo per ottenere che le sue due domestiche “di razza ariana”, che assistevano la sorella Paolina affetta da una malattia invalidante, potessero continuare ad accudirla nonostante il divieto di servire famiglie ebree. Le indagini della questura sul suo conto accertarono la sua integrità morale e il suo comportamento irreprensibile di cittadino e patriota che godeva di pubblica stima. Dopo la morte della sorella, egli ottenne ancora la discriminazione che gli permise di tenere in casa le due anziane domestiche, una delle quali malata, per offrire loro sostentamento e cure. Alle due donne in segno di riconoscenza il maestro lasciò delle congrue cifre perché le considerava parte della sua famiglia e perché sapeva che nessuno più avrebbe dato loro un lavoro. Dopo la liberazione, passati il pericolo e la paura, Mario Battain celebrò la granitica figura del suo maestro con una prolusione nell’Aula Magna dell’Ateneo Veneto da cui era stato espulso. Sul padiglione dell’Ospedale Civile che fu dedicato a Giuseppe Jona fu apposta la lapide che ricorda come “COL SUPREMO SACRIFICIO DI SÉ ” abbia affermato “I DIRITTI INSOPPRIMIBILI DELL’UMANA COSCIENZA” in quei “TEMPI TRISTI DI VIOLENZE E DI ARBITRIO”.
(Alberta Jona (a sinistra) pronipote di Giuseppe Jona in visita a Venezia con Nelli Vanzan Marchini davanti all’ingresso del ricostruito padiglione Jona . La lapide dedicata a Giuseppe Jona dai colleghi nel 1945)
Una seconda lapide dedicatagli in Ghetto il 7 dicembre 1947 lo ricorda per la sua levatura etica e scientifica, ma alla fine precisa che “AL NUOVO MARTIRIO DI ISRAELE NON SEPPE SOPRAVVIVERE”. Quella lapide rivela una grande incongruenza perché nella prima parte sottolinea la statura professionale del medico, la rettitudine, la bontà , la dedizione e la dignità profuse dal professor Jona come capo della Comunità ebraica, poi, alla fine, segnala la sua incapacità di sopravvivere a quel tragico momento storico. Il giudizio positivo è modificato dalla istanza di esprimere la condanna etica del suicidio. La cosa poteva essere giustificabile in epoca postbellica, oggi non più. Non si tratta oggi di operare delle revisioni storiche, ma di prendere atto che un uomo retto che si professa laico può decidere di togliersi la vita senza essere tacciato di viltà, di debolezza o di depressione. Nessuno può arrogarsi il diritto di giudicare e di sminuire la grave scelta di Giuseppe Jona diagnosticando una presunta incapacità che offende la memoria di una persona che visse sempre per gli altri e anche per la Comunità Ebraica della quale volle condividere il destino accettandone la presidenza. Quelle parole “NON SEPPE SOPRAVVIVERE” esprimono incapacità e debolezza inficiando lo spessore morale di un uomo che costituì un punto di riferimento etico e una salda presenza per i suoi cari, per i suoi allievi e per le istituzioni che rappresentò. Quelle parole furono dettate dall’etica dominante e dalla religione che condannavano il suicidio come un atto di debolezza morale, perciò non si voleva riconoscerlo come libera scelta. Ma il professor Jona non era un credente e sapeva bene che la sua rinuncia alla vita, agli affetti cui teneva tanto, era un passo definitivo e anziché fuggire, cosa che riteneva indecorosa, preferì denunciare con la morte i tribunali nazisti che lo avrebbero torturato fino forse a rendere complice della barbarie proprio lui che le vite le curava e le salvava. Se questa fu paura o debolezza, lasciamolo decidere ai posteri. Il suo suicidio fu un atto di ribellione che scombinò i piani dei nazisti, mettendo in allarme i molti ebrei che continuavano a confidare che le cose sarebbero cambiate e che finalmente capirono che dovevano mettersi in salvo.
La pronipote Alberta Jona ha perciò ufficialmente chiesto alla Soprintendenza ai Beni Architettonici di Venezia e al presidente della Comunità Ebraica di correggere nella lapide “non seppe sopravvivere” con le parole “NON VOLLE SOPRAVVIVERE” affinché il ricordo della statura morale di “zio Beppi” non venga più scalfito da alcun pregiudizio.
(
(Campo del Ghetto Novo, lapide dedicata a Giuseppe Jona – Campo del Ghetto Novo, Casa Israelitica di riposo dove si trova la lapide)
Tutti i diritti di testo e foto sono dell’autrice
*Docente, scrittrice e Storica