di Beppe Donazzan*
Il calore del sole sfumava i contorni del paesaggio.
La pista, davanti ai miei occhi, si perdeva in un fastidioso riverbero tremolante. Le colline degli altipiani del Kenya mi apparivano sfuocate quasi che, improvvisamente, la mia vista fosse stata intaccata da una forte miopia.
Sul “red ground” la Delta lasciava una scia di polvere rossa. Lunghissima. Una cometa.
Avevo il viso sudato, impastato dal quel maledetto pulviscolo che entrava dappertutto. Nelle cuffie la voce, forte e chiara di Tiziano.
Ero in testa al Safari Rally ma i presagi non promettevano niente di buono.
Troppe le negatività che si erano succedute nel corso della preparazione di quell’edizione 1988.
Anche per uno come me, per nulla superstizioso. A febbraio, nel corso delle prime ricognizioni nella savana, avevo avuto un grave incidente. In piena velocità, a 180 chilometri all’ora, la macchina era decollata su un avallamento ed era capottata. Ero uscito indenne, Tiziano invece lamentava la frattura di una costola e una forte botta alla schiena.
Situazione medica non grave ma, per il recupero completo del mio navigatore, il tempo non sarebbe stato breve. La conferma, infatti, era arrivata al rientro in Italia.
Dopo i controlli la sua partecipazione al rally del Portogallo, che si sarebbe corso all’inizio di marzo, era apparsa impossibile.
Come sostituto la Lancia aveva indicato Carlo Cassina.
Nella mia carriera ho sempre avuto al mio fianco Tiziano.
Tranne in tre occasioni, lo rammento perfettamente: il 100.000 Trabucchi, corso nel 1980 assieme al povero Loris Roggia con l’Opel; il rally della Lana, 1982, con “Rudy”, ancora con l’Ascona 400 e il Portogallo, appunto, con Cassina.
Dire che la cosa mi disturbava era dire poco.
La mia inquietudine, laggiù all’Equatore, era aumentata alcuni giorni prima del via.
Nel corso di una delle ultime ricognizioni il muletto era letteralmente affondato nel fango. Per cercare di uscire dalla trappola mi ero messo a spingere anch’io. Il ginocchio ne era uscito malconcio. Avevo avvertito un dolore lancinante tanto che Ben Bartoletti era stato costretto ad iniettarmi degli antidolorifici per alleviare la sofferenza.
E Tiziano non era ancora al massimo delle condizioni.
Non avevamo avuto un momento tranquillo. E non era finita.
In gara la sfortuna ci aveva perseguitato non poco: nella tappa verso nord si era spaccato il turbo e una zebra era finita sotto le ruote, per fortuna le protezioni anteriori aveva resistito bene al grande colpo. Episodi da Safari, ma ne avremmo fatto volentieri a meno dopo tutto quanto avevamo patito.
Con una grande sofferenza, ma eravamo ancora in gara.
Comunque i cattivi presagi continuavano ad aleggiare sopra la nostra Delta numero 6.
In cuor mio mi aggrappavo ad una frase di un masai. L’avevo incontrato durante le prove di febbraio.
“Tu piccolo italiano vincerai il Safari”, aveva profetizzato.
Continuavo ad essere in testa. Il timore di altre disavventure era salito durante la notte. In Africa, più nera della pece. Nonostante la batteria dei fari anteriori e i due posizionati sui parafanghi, vedevo solo qualche decina di metri più avanti. L’attenzione era massima. Le ultime ore erano state vissute con una trepidazione incredibile.
Kirkland, con la Nissan 200 SX, mi seguiva a nove minuti, un niente. Sarebbe bastata anche una foratura per compromettere tutto.
Per questo Cesare Fiorio e Ninni Russo, quest’ultimo a bordo di un piccolo aereo Cessa a tenere i collegamenti radio, avevano riorganizzato completamente le assistenze. Ai 25 meccanici del team era stato chiesto il massimo sforzo.
Troppo importante la posta in palio. Per tutti.
Le forze erano state divise: alcuni uomini dislocati ai controlli orari, tutti gli altri erano stati piazzati lungo la pista, pronti ad intervenire nel momento in cui avessimo avuto bisogno.
Una strategia perfetta, ognuno sapeva cosa fare.
I chilometri sembravano senza fine.
Nel corso di uno dei parchi assistenza pensavo mi venisse un infarto. Io e Tiziano eravamo andati nel camper a rifocillarci a al ritorno la nostra Delta non c’era più. Scomparsa, svanita.
Mi sentii morire.
“L’hanno rubata”, avevo pensato immediatamente. Incontrai Danilo Dalla Benetta, un amico meccanico di Vicenza, che stava seguendo il Safari per la Mazda. Un passato di navigatore al fianco di Antonillo Zordan, unico pilota privato nella storia dei rally ad aver battuto una Lancia Stratos ufficiale. Successe al Campagnolo 1976 e i due vicentini, con una Porsche preparata da loro stessi, riuscirono nell’impresa di superare Tony Carello in coppia con Arnaldo Bernacchini.
“Miki, guarda che la macchina è laggiù”, mi aveva detto indicandomi la direzione con la mano. L’avevo inquadrata tirando un sospiro di sollievo. Il piazzale era in leggera discesa e, a causa delle pastiglie che si erano raffreddate, il freno a mano aveva perduto d’efficacia. La macchina si era andata ad appoggiare contro il tronco di un albero. Nessun danno, le protezioni anti animali, avevano fatto il loro dovere.
Non era finita. Quando andai per aprire la portiera non trovai le chiavi.
“Dove sono finite?”. Cercai nelle tasche, niente. “Tiziano, le hai prese tu?”, fu l’inizio di un ping pong delle responsabilità.
Intanto passavano i minuti e dovevamo riprendere la marcia per non incappare in una penalizzazione.
“Ragazzi, faccio io…”, disse Danilo chiudendo ogni discorso. Tempo trenta secondi e mi potevo riinfilare nell’abitacolo.
I cattivi presagi continuavano.
La nostra Delta Integrale era irriconoscibile, stava insieme con il filo di ferro dopo oltre quattromila chilometri di pietraie, polvere e guadi. Percorsi ad oltre 125 chilometri all’ora di media.
Avevo perfino paura di parlare, sapevo che ormai era fatta, che mi stavo avviando verso un’impresa storica, ma sudavo freddo pensando che anche, negli ultimi metri, sarebbe potuto accadere qualcosa.
Anche all’ingresso di Nairobi, a velocità ridotta, controllavo le spie sul cruscotto. Avevo paura che qualcuna si accendesse.
Avevo perfino ripensato ai Safari perduti da Sandro Munari, una gara stregata per lui.
Bastava un niente, sembra incredibile ma è così.
Nell’abitacolo la tensione era ancora altissima nonostante ormai fosse questione di poco. Tiziano continuava a leggere il radar, scandiva le parole in maniera ancora più chiara per azzerare le possibili incomprensioni.
Lo sguardo davanti, contagiri e spie, avevo socchiuso gli occhi per avere maggiormente a fuoco tutti i particolari. Proprio come fossimo ancora in prova.
Nel centro della capitale del Kenya la gente si era accalcata numerosa lungo la strada.
A centinaia, a migliaia, sempre di più. A seguire l’evento dell’anno.
E io e Tiziano eravamo là, davanti a tutti.
Primi al Safari, i primi italiani. Con una macchina italiana.
All’Equatore avevamo conquistato il nostro Everest. Il tetto del mondo.
Sulla pedana d’arrivo del Kenyatta Conference Center chiusi gli occhi.
Stavo vivendo il momento più bello della mia vita.
Era il 4 aprile 1988, lunedì di Pasqua.
Gli amici irriducibili, al rientro a Bassano, mi avevano atteso nel solito locale vicino al ponte degli Alpini.
“Né la zebra né el leon possono fermar Miki Biasion”, era stato il canto goliardico di saluto.
Nei giorni successivi ero andato a Verona a verificare la situazione del ginocchio. Nello stesso tempo Ben Bartoletti mi preparò una tabella per recuperare, in breve tempo, gli oltre sei chili che avevo perduto durante la gara in Africa.
Una settimana dopo il rientro in Italia mi chiamò Danilo.
“Miki, mi inviti a cena?”, chiese.
Era il minimo che potessi fare dopo l’aiuto in Kenya.
Nel corso della rimpatriata mi consegnò un pacco. Lo scartai, all’interno c’era un quadro. Una bella cornice, la prima pagina del Nation, il quotidiano di Nairobi.
Un titolone, “MiKilimanjaro”, una foto gigante a colori di quella fantastica giornata e, sotto, incollata, la chiave della Delta che avevamo perduto.
Danilo l’aveva trovata in mezzo all’erba dopo che eravamo ripartiti.
Non lo dimenticherò mai.
* Tratto dal libro “Miki Biasion storia inedita di un grande campione” di Miki Biasion e Beppe Donazzan (Giorgio Nada Editore)
*Giornalista – Scrittore