di Giò Alajmo*
La risposta è ancora nel vento. Sono passati cinquantacinque anni da quando Bob Dylan scrisse uno degli inni dell’America pacifista, della rivolta nera per i diritti civili, quel piccolo vangelo laico contenuto in 9 strofe e un ritornello. Quanti dovranno morire prima che si capisca che in troppi son morti, quante volte si può girare la testa fingendo di non vedere, quanti anni dovranno vivere i popoli prima che gli si consenta di essere liberi, di quante orecchie dovranno disporre gli uomini prima di udire la gente che urla?
La risposta è sempre sospesa nel vento. E nel Veneto, pronta ad aleggiare ancora una volta il 26 aprile a Jesolo, il 27 all’Arena di Verona
Bob Dylan non è più il ragazzo che seguiva Joan Baez che seguiva Martin Luther King che seguiva il suo sogno di bianchi e neri per mano nell’America razzista e segregazionista. L’anziano cantante di Duluth, Minnesota, cresciuto nella New York di Allen Ginsberg e dei poeti beat, ha ottenuto in vita tutti i maggiori riconoscimenti possibili, anche quelli che hanno sorpreso lui più di altri come il Nobel. Ci sono voluti vent’anni per convincere la paludata commissione svedese che nelle canzoni di Dylan c’era talmente tanta letteratura popolare che il suo nome poteva essere inserito nella lista dei giganti della parola scritta. E lui, incredulo, si prese tutto il suo tempo per decidere cosa fare, ringraziare, rifiutare, accettare. Alla fine accettò spiegando le sue esitazioni con un breve discorso scritto in cui annotava che alla fine lui era un uomo di musica come Shakespeare di teatro e che nessuno dei due aveva probabilmente avuto il tempo o la necessità di chiedersi se quello che stavano facendo, pensando anche ai necessari banali dettagli del mestiere fosse o no letteratura.
“Grazie per aver trovato il tempo di porvi questa domanda e rispondervi”, scrisse agli accademici di Stoccolma.
La stessa domanda se la pose mezzo secolo fa uno scrittore veneto, Gian Antonio Cibotto. Il critico teatrale e giornalista rodigino era fra i responsabili della Newton Compton, una piccola casa editrice a cui era stato chiesto di inserire nella collana Paperback Poets, con Prèvert e altri, anche le prime traduzioni in Italia dei testi delle canzoni di Bob Dylan. Era l’alba degli anni ’70. Decisero di sì, chiedendo la prefazione a Fernanda Pivano, la traduttrice di Hemingway e musa italiana della Beat Generation. Nanda raccontò l’America dietro a Dylan, il mondo degli scontri razziali e civili, le battaglie pacifiste e non violente, la repressione e il Vietnam, ma anche il tormento di un ragazzo ossessionato dai suoi fan al punto da veder setacciata la sua spazzatura alla ricerca di “prove della sua corruzione”. “Blues, ballate e canzoni”, con tutti i suoi piccoli difetti e ingenuità, aprì a molti un mondo sconosciuto, quello che si nascondeva dietro una lingua ignota ai più.
Nanda, che portai felice a 91 anni a uno dei concerti milanesi di Bob Dylan, era artisticamente invaghita di Fabrizio De André che aveva “tradotto” in canzoni l’Antologia di Spoon River che Cesare Pavese aveva convinto Einaudi a pubblicare nella traduzione della giovane studentessa Pivano durante la guerra. Fu l’inizio della carriera di traduttrice e una prima importante finestra aperta sulla letteratura americana. Quando Dylan fu candidato per la prima al Nobel, nel 1996, De André era ancora ben vivo. Gli telefonai per dargli la notizia e chiedere un commento. Lui ne fu felice: “E’ una cosa importantissima – disse – e sarebbe anche ora che la canzone venisse considerata fonte di letteratura, mezzo per esprimersi anche letterario, e d’altronde la poesia nasce cantata. Dylan lo merita più di tanti altri poeti che già sono stati premiati. E’ tra i pochi autori di canzoni la cui parte letteraria sia valida indipendentemente dalla musica. Il suo modo di scrivere ha cambiato il linguaggio, è diventato un punto di riferimento dal punto di vista letterario come da quello musicale”.
E’ curioso come l’uomo che negli anni Sessanta approfittò per sparire dalla circolazione perchè non voleva fare il “tranvai” come scrisse nel suo romanzo Tarantula, trascinato dalla gente dove la gente voleva, si sia poi ritrovato immerso in una polemica di chi voleva che lui replicasse alla notizia del premio come volevano loro, ringraziando e inchinandosi, seguendo il rituale. Come si permette di non farlo? Chi si crede di essere? Come può non andare alla cerimonia dicendio che ha altro da fare? E lui replicò con i suoi tempi, avendo già vinto tutto il possibile, dal Polar, al Grammy, dal Pulitzer alla medaglia del Congresso, con l’aplomb di chi riesce a far passare per un elegante atto di considerazione un discorso di accettazione che ad orecchio malizioso poteva anche suonare come: “Io ha già il plauso di miliardi di persone nel mondo e dei milioni che sono venuti ad ascoltarmi in mezzo secolo di carriera. Voi siete quattro gatti, ma vi voglio bene lo stesso”.
E con la stessa noncuranza Dylan ha passato gli ultimi anni a fare quel ch più gli aggradava e che la gente non avrebbe mai sospettato: riscoprire il repertorio americano del tempo di Frank Sinatra. Dopo il Dylan folk, il Dylan politico, il Dylan pacifista, il Dylan profeta, il Dylan, romantico, il Dylan beat, il Dylan religioso, il Dylan cantastorie, il Dylan rocker, il Dylan country, il Dylan gospel, il Dylan dalle mille facce, quella del crooner mancava. E quindi eccolo, Bob il crooner, uscito dalle sue trasmissioni radiofoniche sulla musica tradizionale americana per un’altra serie di concerti del suo “Tour Senza Una Fine”.
In realtà, dopo aver rigenerato ad ogni concerto le sue nuove canzoni cambiando ritmo, melodia, versi, stile, come a dire, è roba mia non vostra e ne faccio quel che mi pare, se no ascoltate i dischi, Dylan affida alle registrazioni le sue ricerche e offre in concerto un po’ di tutto del suo immenso repertorio. La chitarra no. Quella ormai è diventata troppo faticosa da suonare e le dita non hanno l’elasticità di un tempo. Meglio il pianoforte, a coda, elettrico, magari anche un organo, riscoprendosi a picchiare i tasti bianchi e neri come da bambino sul verticale di casa.
Inutile chiedersi cosa suonerà, se saluterà il pubblico, se avrà la voce e la voglia, se farà questa o quella canzone come un qualsiasi figurante da talent show. Sarà quel che sarà, come sempre, e potrà deludere o sorprendere a seconda delle congiunzioni astrali del momento. Ma sarà lì, testimone del suo e del nostro tempo, come la Gioconda di Leonardo al centro della Cappella Sistina, a cantare come cinquant’anni fa di quella risposta di pace nel vento, di quei maestri della guerra da seppellire sotto i piedi e di quei benpensanti che girano con le cuffiette nelle orecchie senza accorgersi di niente.
I tempi che allora stavano cambiando, forse non sono cambiati affatto.
