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26 aprile 1986: “Il silenzio assordante di Chernobyl”

di Carlotta Fassina*

Era l’una e 23 minuti del 26 aprile 1986 quando il reattore scoppiò. Per noi era il sabato del ponte della Liberazione e quel giorno ci fu un sole propizio alle gite all’aperto. Nessuno si sarebbe aspettato una catastrofe simile a quella che accadde a Chernobyl.

Entrare nella dismessa caserma Borghesi, di via Borgo Casale a Vicenza, è davvero toccare con mano il dopo esplosione, l’incredulità e la costernazione di chi proprio non se l’aspettava. La mostra itinerante dal titolo “Il silenzio assordante di Chernobyl” è visitabile già dal 17 febbraio e lo sarà fino al 26 agosto, ma la ricorrenza del 26 aprile, tra quelle mura, è qualcosa che fa venire i brividi.

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I volontari dell’associazione culturale “I luoghi dell’abbandono” spiegano all’ingresso l’importanza dei filmati realizzati nelle zone radioattive evacuate. Confermano, per averle viste con i loro occhi e riprese, situazioni molto varie di paesi ancora abbandonati e desertici (a distanza di 32 anni) e di zone dove la gente è tornata a vivere, per non perdere tutto e nonostante tutto. È un po’ come se essa non esistesse, ufficialmente per lo meno. A testimoniare l’orrore sono allora gli edifici evacuati e gli oggetti rimasti al loro posto.

Varcare la porta a vetro della caserma significa trovarsi direttamente in una di quelle città abbandonate dove la gente un attimo prima viveva, tra case, scuole, cinema. A terra oggetti d’uso quotidiano sparsi, rotti, finte macerie; alle pareti foto reali degli ambienti ricostruiti; nell’aria il suono dei tg dell’epoca che escono dalle televisioni piazzate nelle stanze, musiche e rumori. E tanti manichini con le divise dell’epoca e le maschere antigas, che ci s’immagina siano gli spettri di quei vigili del fuoco e soldati che morirono cercando di domare quella belva che non voleva soccombere e che anzi avanzava con i suoi umori radioattivi ben oltre l’Ucraina e la Bielorussia, persino verso di noi. Un volontario racconta di come donne originarie dell’Ucraina in visita alla mostra ne siano uscite profondamente turbate, perché nessuno aveva spiegato loro che cosa fosse stato veramente Chernobyl.

Eppure tutti ricordiamo lo scoppio del reattore numero 4, la rottura della copertura che ne imprigionava il nocciolo, l’incendio conseguente, la nube radioattiva, il flash dell’elicottero deformato e schiantato a terra da una mano invisibile. Ne parlarono i giornali e la tv, l’opinione pubblica si scosse al punto che proliferarono le associazioni e i comitati contro il nucleare e in Italia, un anno dopo, il referendum decretò la fine degli impianti in uso. Fu il primo incidente nucleare classificato come livello 7, il massimo, della scala INES (International Nuclear and radiological Event Scale). Non fu più grave di quello di Fukushima dell’11 marzo del 2011, i cui effetti perdurano oggi a livello di acque radioattive, suolo contaminato e aumento di tumori alla tiroide, soprattutto tra i bambini. Due incidenti della stessa intensità, accomunati da quel silenzio assordante che circonda gli eventi troppo scomodi, di cui non è bene parlare. “Solo” 65 furono i decessi direttamente collegabili alla catastrofe sovietica, ma ancora oggi si disputa la battaglia delle cifre dei morti indiretti, che non cesserà forse mai.

Un’umanità sempre più avida di energia e in inesauribile crescita si domanda oggi se arriverà il momento del nucleare davvero pulito e sicuro e se potrà finalmente credere a quello che le verrà promesso. La mostra però non guarda in avanti, preferendo concentrarsi sul senso di insicurezza e disillusione vissuto delle persone comuni: Chernobyl, Fukushima e le domande senza risposta.

Sul muro sgretolato della caserma le parole di Svetlana Aleksievic sono stigmate: “Non si vedeva, la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole, per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi. Perché niente di simile era mai accaduto, prima”.


carlotta fassina*Scienze Naturali

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