di Maurizio Cerruti*
Vai su un motore di ricerca, clicchi “Ermanno” e al volo le tre opzioni più cliccate sono: Ermanno Wolf Ferrari (compositore), Ermanno Lavorini (vittima di un antico fattaccio di nera) ed Ermanno Olmi, il regista morto ad Asiago all’età di 87 anni (li avrebbe compiuti il 24 luglio 2018). Ermanno il Triste, l’autore dell’ “Albero degli zoccoli” (il suo capolavoro) se n’è andato il 7 maggio. Proprio nel giorno dedicato – con altri santi – al Beato Alberto da Bergamo che sicuramente il pio regista ben conosceva essendo conterranei. Segno del destino? Forse, lassù, il buon Albèrt de Bèrghem ha diretto il comitato festeggiamenti per il nuovo arrivato.
Come potremmo definire Olmi? Il più famoso dei registi sconosciuti. Oppure il più sconosciuto dei famosi registi. Queste le doti che lo hanno reso celebre: la coerenza, la serietà, la fede (religiosa, ma anche in ciò che faceva), la tenacia, la capacità di osservare la realtà delle cose e degli uomini con un’ottica differente dagli altri suoi colleghi. Ovvero quella particolare “poetica” che incanta gli intellettuali e gli animi sensibili mentre fa dormire profondamente tutti gli altri, cioè la stragrande maggioranza. Ed ecco i suoi limiti, le zavorre che gli hanno impedito di volare nell’empireo del successo: poca o nessuna simpatia per il sistema-cinema con le sue astuzie e i suoi compromessi; di conseguenza poca attenzione alle ricadute commerciali; indifferenza alle mode e alle tendenze prevalenti; ritrosìa a far parte di cordate e conventicole che sono quelle che aiutano ad emergere e poi a rimanere a galla in un ambiente competitivo e spietato come quello che sta dietro (e davanti) la macchina da presa.
Eppure a guardare la sua lunga filmografia, Ermanno ne ha fatte di cose da quando cominciò la carriera alla fine degli anni Cinquanta lungo il viale del tramonto del neorealismo al quale in fondo lui è sempre rimasto legato. Anni in cui la televisione era ancora una mitica scatola magica in bianco e nero che già cominciava a fare le scarpe al cinema sottraendo alle sale di proiezione milioni di spettatori e rendendo gli italiani un popolo di pantofolai: nei primi anni Sessanta, dieci anni dopo l’avvio della tv, la Rai aveva già i 5 milioni di abbonati (oggi sono 17 milioni).
Olmi era partito da Bergamo, quartiere Malpensata, per calare con la mamma vedova a Milano a studiare recitazione all’Accademia di Arte drammatica. Orfano di guerra (di padre) lavoricchiava organizzando spettacoli aziendali all’Edisonvolta dove era impiegata la madre, la sua prima grande finanziatrice e fan. L’Ermanno è bravo, ci sa fare e presto porta a casa i primi veri guadagni realizzando dal 1953, in otto anni, 40 documentari sul lavoro in fabbrica commissionati da aziende, per lo più lombarde. E’ il trampolino di lancio verso il suo primo lungometraggio: “Il tempo si è fermato”. La storia del rapporto fra uno studente e il guardiano di una diga nella solitudine e nell’isolamento dell’alta montagna. Questo in fondo è rimasto il tema di tutta l’attività cinematografica di Olmi approfondito, sviluppato e rielaborato in gran parte dei film. Da allora quest’uomo della tradizione, istintivamente rivolto al passato, ha continuato a lavorare di preferenza con attori non professionisti, senza mai scordare le proprie origini rurali e povere, e sempre mettendo in luce i sentimenti delle persone semplici, il rapporto con la natura e con la sua magìa, rivolgendo lo sguardo alla solitudine e alle sue conseguenze; ispirato da una vena triste e malinconica che ricorda a volte Igmar Bergman senza mai però spingersi – da cattolico verace qual era Olmi – negli abissi di disperazione del maestro svedese.
Un importante riconoscimento gli arriva presto, a trent’anni, con “Il posto” (giovani alla ricerca di un lavoro: il retrogusto amarognolo del boom economico) autoprodotto con amici: il film gli vale il Premio della critica alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1961. Per inciso una protagonista del film, Loredana Detto, diventerà sua moglie nel 1963. Hanno avuto due figli: uno, Fabio, è pure lui nel cinema e fa il direttore della fotografia.
A Ermanno, giovane regista, nei primi anni Sessanta sembrano aprirsi le porte del successo. Fa diversi film, ma nell’Italia che si modernizza e si sente sempre più “laica”, che legalizza il divorzio e l’aborto, il regista più cattolico naviga controcorrente. A parte un film biografico sul Papa bergamasco (Giovanni XXIII) Olmi sembra non ne azzecchi una. Un fiasco dietro l’altro. Alcuni critici lo esaltano, i media lo ignorano e in sala il pubblico scarseggia e sbadiglia. Lui si ammala e cade in depressione, ma per fortuna per lui anche gli anni bui passano. Nel Settantotto esce uno “slow film” di Olmi che conquista le (pur scarse) platee d’Italia dopo aver vinto la Palma d’oro a Cannes. E’ il celebre “L’albero degli zoccoli”, struggente, poetica e tristissima storia recitata in dialetto stretto, di una famiglia di taciturni contadini bergamaschi schiavizzati dal padrone e afflitti da atavica miseria e rassegnazione, che alla fine sembra trovare la via d’uscita nell’emigrazione verso la città e verso l’ignoto: è un addio per sempre alle proprie ataviche radici.
Quando ormai ha in mano l’asso vincente – è giovane, famoso, ricco, celebrato – Olmi fa una scelta radicale di vita: si trasferisce da Milano nella sperduta Asiago, fuori – anzi ben lontano – dal “giro”. E va avanti per la sua strada combattendo nel frattempo con la malattia nervosa invalidante che accentua la sua tendenza alla depressione e che lo tiene lontano dai riflettori per una decina d’anni. Il grande ritorno arriva con “Lunga vita alla Signora!” premiato col Leone d’Argento a Venezia nel 1987. Da allora realizza altri film che entusiasmano soprattutto i critici. Gli addetti ai lavori lo premiano a più non posso: Leoni d’Oro e d’Argento a Venezia (uno per il suo secondo film più famoso: “La leggenda del santo bevitore” nell’89) ben nove David di Donatello, Grolle d’Oro, Premio Fellini, Premio Flaiano, Nastri d’Oro e d’Argento, César, Pardo d’Onore a Locarno…
Malgrado tutti questi riconoscimenti internazionali, come pochi altri registi hanno avuto; malgrado la ricca filmografia al suo attivo (23 lungometraggi e una sessantina di cortometraggi) e malgrado la varietà de suo lavoro di regista (documentari, racconti, allegorie, fiabe, storie di guerra) Ermanno Olmi non ha avuto il successo che probabilmente avrebbe meritato se non altro per il rigore, la coerenza e l’impegno. Dissolto il polverone mediatico sollevato per un giorno o due – come sempre – dall’annuncio della sua scomparsa, forse il tempo gli renderà merito come succede con il vino migliore. Con un’avvertenza importante: i suoi film non contengono solfiti ma sono sconsigliati a chi soffre di depressione.
*Giornalista