di Nelli-Elena Vanzan Marchini*
Nessun farmaco come la Teriaca godette di fama e fortuna per un periodo tanto lungo, essendo stato impiegato contro molti mali dall’antichità fino al XX secolo. Usata in Egitto probabilmente già dal IV-III secolo a.C., la teriaca più che un vero e proprio farmaco inizialmente era un insieme di antidoti. Infatti il termine greco theriaké dall’indoeuropeo therion significa “animale velenoso” la cui carne si riteneva efficace per contrastare il veleno iniettato dal morso di animale o somministrato con gli alimenti.
Il numero di ingredienti oscillava da 4 a 40 sostanze.
Le prime notizie storicamente accertate narrano che Mitridate VI re del Ponto, vissuto fino al 63 a.C. in un’area geografica ricca di erbe medicinali, essendo un dotto esperto di arti magiche, con l’aiuto del medico Crateva fabbricò questo antidoto composto, secondo Plinio, da 54 ingredienti per evitare di morire avvelenato. A quei tempi infatti era assai frequente che ai sovrani fosse riservata quella sorte. Il termine mitridatismo ancor oggi indica l’assunzione di sostanze velenose a piccole dosi per abituare l’organismo a difendersi da somministrazioni più massicce e mortali.
Quando Pompeo conquistò il Ponto, pare abbia trovato in uno scrigno la ricetta scritta di proprio pugno da Mitridate che venne poi utilizzata dai medici romani. Un secolo dopo Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, la modificò sostituendo la carne di Scincus, rettile dell’Arabia e del Nord Africa di difficile reperimento, con quella di vipera e portò i componenti al numero di 64: nasceva così la teriaca come farmaco che avrebbe avuto la fama di panacea universale.
Tra i suoi numerosi elementi vi erano : la rosa, il giaggiolo, la cannella, la mirra, lo zenzero, lo zafferano, il dittamo, il pepe nero, la valeriana, la terra di Lemno, il vino vecchio, il miele, l’oppio…. e ovviamente la carne di vipera.
Per i suoi intensi rapporti commerciali con il Levante e con il Nord Europa la Serenissima divenne la sede privilegiata della produzione della miglior teriaca. Questa fetta di mercato divenne così importante per l’economia veneziana che il governo della Repubblica attraverso il Magistrato alla Sanità ne controllò la qualità limitandone la produzione alle sole spezierie approvate, perciò definite “teriacanti”.
La fortuna dell’alessifarmaco (da alexeo e pharmacon = scaccia veleno), ritenuto in grado di contrastare qualsiasi malattia, favorì lo sviluppo di un mercato parellelo che mise in circolazione sofistificazioni accessibili a tutte le borse. Il popolo delle campagne, costretto a spender poco, ricorreva ad una “teriaca dei poveri” fatta di solo aglio. Con il nome di “teriaca veneziana” in molti mercati francesi si vendeva del miele cotto con polvere di radici guaste, in Germania si usava il “diatesseron” un farmaco per cavalli.
Chi poteva permettersi la vera “droga divina” doveva spendere molto. La Teriaca fatta secondo tutti i crismi, comportava una lavorazione complessa e dispendiosa: oltre ai vari componenti, alcuni importati dal Levante, conteneva la carne di vipera catturata nei colli euganei fra luglio e agosto. Fin dal XVII secolo, per la crescita della domanda, si era dovuto ricorrere anche a vipere importate dai monti veronesi e vicentini, poi da Treviso e dal Friuli e infine anche dall’Istria e dalla Carnia. Nei momenti di maggior richiesta del mercato, il fabbisogno mensile di ciascuna spezieria si aggirava intorno alle 800 vipere che venivano decapitate, pulite dalle interiora, scuoiate e bollite finchè la carne si staccava dalla spina, in modo da poterla impastare con pane abbrustolito e tritato per fare dei trocisci (da trochos= rotella) cioè delle grosse pastiglie che si lasciavano asciugare e si spalmavano con opobalsamo o con olio di noce moscata.
Prima di comporre il farmaco, si esponevano per tre giorni nelle spezierie approvate tutti gli ingredienti perché fossero esaminati dai Collegi dei Medici e degli Spezieri e dal Magistrato alla Sanità, per quel periodo restavano anche a disposizione del pubblico di acquirenti che venivano dai paesi stranieri per acquistare il prodotto finito. Questa fase era molto importante dal punto di vista promozionale perché consentiva di valutare la qualità dei singoli componenti e la lavorazione che iniziava il quarto giorno, il 24 agosto di ogni anno, festa di S. Bartolomeo. Gli stranieri erano molto colpiti da questo rito popolare dai chiari risvolti ludici e commerciali. Charles De Brosses in una lettera del 29 agosto 1739 lo definì il “teatro della teriaca”. Di fatto si allestiva una vera e propria rappresentazione seguendo un rituale pubblico controllato dallo Stato attraverso i suoi tecnici, al tempo stesso si pubblicizzava la teriaca sul mercato internazionale legandola, come si direbbe in termini moderni, al “marchio di Venezia”.
Oltre al valore simbolico della carne della vipera, collegata al potere ambiguo del serpente nell’immaginario collettivo e nelle religioni antiche, si faceva leva sull’immagine del ponte di Rialto come fondaco cittadino in cui confluivano i migliori prodotti da tutte le parti del Mediterraneo. Per l’occasione si distribuivano gadget come ventole che raffiguravano il momento saliente della lavorazione della Teriaca. Due di esse tramandano la scena ai piedi del Ponte di Rialto davanti alla farmacia all’insegna delle Testa d’Oro che esponeva i vasi contenenti i vari ingredienti sotto le grandi scritte “teriaca” e “mitridatum”. Dai gradini si dipartono lungo la strada in bell’ordine due file di facchini che lavorano alacremente: da un lato pestano con forza in enormi mortai e dall’altro maneggiano grandi setacci.
I loro abiti variopinti e curati come in una solenne rappresentazione erano degni della miglior comunicazione di massa. I pestatori vestivano una giubba di color bianco, braghe rosse, sciarpa gialla e un berretto celeste bordato di giallo con una piuma, i setacciatori avevano una giubba azzurra. Il cadenzato e festoso rumore della lavorazione era accompagnato dal canto di alcune strofe :
“D’antidoto glorioso in ogni loco
meglio è tacerne assai che dirne pocho
per veleni, per flati e mille mali
la triaca g’ha el primo in sti canali”
La teatralità dell’operazione era ancora viva nel 1850 quando il suo ricordo (in epoca austriaca il rito pubblico era stato abbandonato) ispirò l’apertura dell’Opera buffa “Crispino e la comare” con il libretto di Francesco M. Piave e la musica di Luigi e Federico Ricci. La prima scena si apre davanti a una spezieria dove i facchini cantano:
“Batti, batti, pesta, pesta
la Teriaca qui si fa.
più d’un morbo che molesta
per tal farmaco sen va”
Nella realtà i bastazzi o facchini erano soliti infarcire il canto anche di motti osceni indirizzati alle donne che passavano. Nel 1788 salì all’onore delle cronache per il turpiloquio dei suoi bastazzi la spezieria “ai Due mori”in calle degli Stagneri.
Oltre ai battitori e setacciatori, altri lavoranti all’interno dell’officina medicinale cuocevano il miele in grandi caldiere, opportunamente ispezionate prima dell’uso. Il miele serviva come eccipiente e dolcificante per amalgamare ogni ingrediente.
Durante la lunga lavorazione venivano distribuite ai facchini laute merende con pane vino e soppressa e, alla fine, con il compenso, anche un vasetto di teriaca. Era stabilito anche un dono in zucchero e teriaca per i funzionari di sanità e i rappresentanti dei Collegi dei Medici e degli Spezieri che seguivano tutte le operazioni.
Il composto ben lavorato veniva collocato in grandi giare di terracotta dove doveva rimanere chiuso e sigillato con il timbro di Sanità per almeno sei mesi prima della vendita. Nel XVIII secolo il periodo fu ridotto a soli due mesi.
La teriaca veneziana godeva di una fama meritata perciò veniva esportata in nel Centro Europa (Francia Germania e Olanda), ma anche in Inghilterra. Acquirenti importanti ad Est furono la Grecia, la Turchia e l’Armenia. Per promuoverla le spezierie veneziane facevano stampare dei manifesti in molte lingue fra cui l’arabo.
Anche dopo la caduta della Repubblica, si continuò a produrla ma senza quella spettacolarità che l’aveva resa celebre . Nel 1773 si contavano a Venezia 90 spezierie con altrettanti professori, 60 giovani e 30 garzoni, all’inizio dell’800 erano scese a 81.
La concorrenza commerciale che gli Asburgo fin dall’inizio del 700 avevano fatto a Venezia, utilizzando il rivale porto di Trieste a loro fedele, divenne ingombrante quando la dominazione austriaca unì le due città sotto il suo giogo. Agevolazioni e incentivi potenziarono le attività della classe mercantile e imprenditoriale triestina a danno di quella veneziana, mentre erano sorte a Trieste spezierie con nomi uguali o analoghi a quelle veneziane: alla Testa d’Oro, al Redentore, all’Ercole Trionfante che ricorda quella all’Ercole d’Oro della famosa famiglia Zannichelli. Il mercato venne così ivaso da farmaci con marchi simili a quelli che avevano resa famosa Venezia in questo settore.
All’inizio del Novecento, in seguito alla legge che proibiva l’uso e la vendita di stupefacenti senza prescrizione medica, si dovette togliere dalla teriaca l’oppio che era l’ingrediente che più garantiva i suoi effetti analgesici. La famiglia Gottardi, che gestì la farmacia alla Testa d’Oro a Rialto dal 1904 al 1968, continuò a produrla per la ditta Branca che la utilizzava per la fabbricazione del Fernet. Il preparato, infatti, nonostante fosse lavorato con il miele, aveva un sapore molto amaro che caratterizzò l’inconfondibile gusto di quel liquore digestivo.
Nel 1957 la Branca annullò ogni richiesta di fornitura. Negli anni Novanta l’esercizio venne trasformato in tabaccheria e poi in negozio di vetri per turisti. Le numerose spezierie veneziane seguirono un analogo destino e il loro numero subì una drastica riduzione in una città in continuo calo demografico.
*Docente – Scrittrice