di Nelli-Elena Vanzan Marchini*
Il Governo Gentiloni, oramai in chiusura, ha presentato tramite l’Avvocatura Generale dello Stato ricorso presso la Corte Costituzionale contro la Regione del Veneto che ha indetto con delibera del 13 marzo scorso il referendum consultivo per la divisione fra Mestre e Venezia fissato per il 30 settembre. Per chi non vive a Venezia e non sa che nella città cartolina amata da tutto il mondo si sta consumando una trasformazione che sta uccidendo la vita dei residenti, va data qualche informazione.
La specificità ambientale di Venezia nella sua laguna è una realtà inconfutabile. E’ innegabile pure l’unicità della civiltà anfibia che, con il suo assetto istituzionale e i suoi interventi tecnici sull’ambiente ha impedito nei secoli la trasformazione della laguna in pianura o in mare per il prevalere dell’Adriatico o dei detriti dei fiumi come è accaduto nelle altre parti del mondo. Questa è la storia e la memoria di un corpo urbano organizzatosi in un arcipelago la cui periferia è costituita dalle acque lagunari oltre alle quali inizia la civiltà di terraferma con tempi e spazi totalmente diversi. Da sempre i residenti hanno una connotazione antropologica determinata dall’habitat particolare che nei secoli hanno plasmato.
Solo nel 1926 Venezia Mestre e Marghera vennero unite in unico comune. Allora la volontà politica di realizzare la grande Venezia fu dettata dal progetto economico, industriale e portuale che necessitava di estendere Venezia oltre gli storici confini che la Repubblica aveva definito con i cippi della conterminazione lagunare. La vetusta città insulare bisognosa di restauri avrebbe tratto ricchezza dalla nuova economia marittima di Porto Marghera con la sua città operaia; Mestre avrebbe garantito l’espansione urbana per la popolazione del ceto medio-basso offrendo residenze sane a prezzi contenuti; il Lido sarebbe decollato come stazione climatica e polo turistico mondano dotato di Casinò, mostra del Cinema e attrezzature sportive.
Realtà così diverse per natura e cultura vennero composte in epoca fascista in una unica metropoli le cui contraddizioni dalla seconda fine del Novecento spinsero a quattro referendum per la separazione e per il ripristino dei diversi Comuni. Prevalse sempre la convinzione che la modernizzazione di Venezia derivasse dalla sua omologazione a modelli di terraferma mentre posizioni ideologiche nazionalistiche di destra e internazionalistiche di sinistra tacciarono di campanilismo l’esigenza di restituire alla città i suoi confini naturali dandole uno statuto speciale. Eppure fin dall’alluvione del 1966 Venezia aveva mostrato la sua fragilità e gli onerosi costi per la sua conservazione. L’impegno economico dei Comitati internazionali dei privati consentì il restauro di gran parte suo patrimonio artistico. Il governo italiano con la legge speciale stanziò fondi per il recupero della città con una ricaduta di finanziamenti sull’intero Comune. Ciò rafforzò gli interessi politici a tenere coesa la grande Venezia con un elettorato in terraferma sempre più numeroso a fronte di quello in continuo calo demografico della Venezia insulare.
La parziale chiusura di Porto Marghera e lo smisurato aumento del turismo hanno mutato radicalmente gli scenari. A fine Novecento la speculazione alberghiera ha sottratto spazi vitali ai veneziani e ha moltiplicato l’offerta di posti letto nell’entroterra. La sua richiesta nel mercato turistico si è infatti impennata rivelando la sua relativa capacità ricettiva. I flussi turistici giornalieri provenienti dalla terraferma sono diventati invasivi e insostenibili poiché non stati gestiti con una offerta qualificata di servizi che selezionassero la domanda. I 30 milioni di presenze l’anno a fronte di circa 50.000 residenti (81.000 in tutta la Venezia anfibia) sono la chiara dimostrazione di come non si sia riusciti o non si sia voluto pilotare questo turismo. Anzi, continuando a puntare sul numero e non sulla qualità con usura della città e ricaduta di guadagno al suo esterno, recentemente sono stati costruiti edifici alla Stazione di Mestre per 5000 posti letto a prezzi economici che vivono sull’offerta di Venezia nel mercato del turismo mordi e fuggi che la sta devastando. I trasporti acquei più costosi, ma molto affollati e redditizi, sono stati uniti a quelli di terraferma favorendo i collegamenti su gomma del bacino elettorale delle periferie. Le attività produttive si sono spostate a Mestre perché le varie giunte non hanno mai utilizzato gli incentivi europei per la specificità insulare veneziana il cui peso elettorale andava scemando.
La città monumentale è erosa dal cancro degli alberghi che acquistano e trasformano case e palazzi, in primis quelli degli enti pubblici. La qualità della vita è logorata dalle attività parassitarie del turismo che soppiantano i servizi vitali per i residenti e l’artigianato locale. Strade e calli sono intasate da flussi di visitatori privi di una programmazione che li renda sostenibili e che offra una ospitalità decorosa. La gente bivacca sui ponti, gira come fosse in spiaggia, si denuda, si rinfresca nei canali, consuma a terra colazioni al sacco che acquista nei molti negozi che le vendono senza pagare il plateatico che i loro clienti occupano per consumarla.
La città, un tempo celebre per le sue tipografie e per l’editoria non ha più librerie, in cambio ogni edicola, ogni negozio vende paccottiglie e souvenir. Il patrimonio umano costituito dai residenti, che per secoli hanno garantito sopravvivenza e manutenzione al patrimonio urbano, ha sempre minori servizi e dispone di spazi vitali sempre più angusti. Il veneziano non fruisce di parcheggi pubblici né per terra né per acqua. Per contrastare il preoccupante e inevitabile calo demografico dei residenti non una proposta politica. Oltre all’offerta per i giovani di luminose carriere di camerieri ai piani e di commessi negli store, nessun politico negli ultimi decenni ha cercato di invertire questa devastante tendenza economica e demografica divenuta drammatica in quest’ultimo periodo. Purtroppo è più redditizio in termini di consenso elettorale lasciare che l’ampio bacino di terraferma (180.000 voti) continui a sfruttare il turismo di massa su Venezia piuttosto che invertire il trend . Eppure le occasioni non erano mancate. Da Brexit all’agenzia europea dei farmaci , la candidatura veneziana come sede di qualche attività economica di valenza internazionale avrebbe potuto essere una buona idea. Non solo non vi è stato alcun tentativo di innestare attività remunerative che non vivessero di turismo, ma si è incrementato l’esodo di quelle esistenti dal Gazzettino alla Camera di Commercio ora persino la Regione vende la sede della Giunta a Palazzo Balbi che diventerà probabilmente l’ennesimo Hotel. Se fino a qualche tempo fa si poteva pensare di vivere di turismo oggi è certo che Venezia di questo turismo può solo morire e in tempi rapidi.
L’attuale Giunta del grande Comune ha solo consiglieri di terraferma e oramai ai residenti non resta che cercare di pilotare il processo referendario per avere una rappresentanza politica in un Comune autonomo. E probabilmente solo uno statuto speciale e il sostegno internazionale potranno aiutarli a realizzare il salvataggio in extremis della vita di Venezia e della sua laguna. E’ evidente, infatti, che nel mondo globalizzato, che appiattisce le differenze nell’indifferenziato mercato dei consumi, questa battaglia per la tutela della civiltà anfibia è una battaglia per la difesa di quella specificità antropologica, culturale e monumentale che proprio per la loro unicità e diversità sono patrimonio della intera umanità. E’ per questo che il referendum per la separazione del Comune di Venezia da Mestre costituisce l’ultima speranza di spezzare il circolo vizioso fra l’ offerta squalificata di Venezia e il suo degrado fisico e socio culturale e l’ultima occasione per sostenere il diritto all’autodeterminazione di una minoranza.
Per approfondimenti sulla storia della specificità Veneziana: Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia Civiltà Anfibia, Verona, CIERRE 2009
*Docente e scrittrice