di Silvia Losego*
Le residenze per anziani sono al giorno d’oggi dei luoghi abbastanza misconosciuti, che le persone in genere tendono a conoscere in modo superficiale, attraverso leggende metropolitane e pregiudizi.
Con questa rubrica vorrei,farvi conoscere questa realtà: sarà solo una finestra all’interno di quello che c’è e quello che, sarebbe auspicabile, riuscissimo a crearci. Percorreremo insieme questa via, raccontando così questa storia.
L’ingresso in una casa di riposo è, per ogni individuo, una specie di trauma, un taglio netto con la vita di prima. Uno sradicamento dalle proprie abitudini e dalla propria normalità, per fare un salto nel buio, nell’ignoto, quasi un salto verso l’ultima parte della vita.
Gli anziani “fragili” e spaesati, catapultati in “questa terra di nessuno” , continuano ad essere, oltre che dei pazienti o dei malati, delle persone, con i loro deficit, ma, indubbiamente, ancora in grado di provare sentimenti ed emozioni.
Può sembrare strano parlare di comunicazione in istituto, come se fosse diversa da quella che utilizziamo nella vita di relazione di tutti i giorni. Ma se già ogni frase può sviluppare diverse interpretazioni e, parafrasando il titolo di uno dei libri del semiologo Alessandro Zjino, “sfortunatamente capita di fraintendersi”, in ambito socio-sanitario sembra che questo problema abbia un andamento parabolico, tendente all’iperbole.
Parlando di comunicazione nell’ambito delle residenze per anziani, l’approccio con le persone richiede alla base l’empatia. Infatti, sia che si tratti di comunicare direttamente con l’ospite (così viene definito il ‘paziente’ all’interno degli istituti residenziali), sia che si debba parlare con i suoi familiari, vi è la necessità di calarsi nel loro vissuto per cercare la modalità più efficace di contatto. E spesso non si tratta solo di esercitare empatia, ma anche, e ancor più “compatire”, nel suosignificato più profondo, quale cioè dato dall’etimologia (dal latino tardo compati composto da cum- e pati) quindi, letteralmente, “soffrire insieme”.
Il mondo delle case di riposo è fatto, oggi più che mai, da una popolazione poliedrica: gli ospiti che incontriamo provengono dalle più diverse situazioni sociali, hanno gradi di scolarità molto differenti, capacità cognitive che vanno dalla completa lucidità sino al disorientamento più grave; ma hanno soprattutto vissuti molto diversi. A questo spesso si aggiungono i problemi linguistici, dovuti in parte alla scarsa scolarizzazione dei “grandi anziani” (come vengono definiti gli ultranovantenni) per lo più dialettofoni, in parte alla globalizzazione che ha portato sin qui persone di lingua diversa dall’italiano. Il primo approccio il professionista lo ha il giorno stesso dell’ingresso dell’anziano in istituto.
L’incontro avviene con l’ospite e i familiari che lo accompagnano, e attraverso questi ultimi sono raccolte le informazioni sul suo vissuto: oltre alla storia anamnestica, si ottengono notizie sull’attività lavorativa, sulle abitudini di vita, sui passatempi e le passioni mantenute nel passato, oltre ad una serie di informazioni tecniche necessarie per il lavoro delle figure professionali.
Il secondo momento, molto più diretto e in qualche modo “intimo” tra professionista e ospite, avviene nell’ambiente di lavoro (studio, palestra, ecc.) quando possibile, o in camera dell’ospite se allettato, con la valutazione degli aspetti più direttamente utili, ma anche con una sorta di racconto della storia dell’ospite, delle sue aspettative e dei suoi desideri per l’immediato futuro: una modalità questa, utile anche per poter misurare le sue capacità cognitive, mnestiche, attentive e di collaborazione. Tutte queste informazioni servono per stimare la possibilità di attuare o meno un progetto. A volte può capitare di incontrare una sorta di resistenza da parte dell’anziano che, per problemi cognitivi o a causa dei suoi trascorsi, avverte in qualche modo l’invasione del proprio mondo, la violazione del privato: è qui che la sensibilità del professionista deve intervenire per trovare una sorta di comunicazione efficace a far sentire la persona rispettata nei suoi tempi e spazi, ma nello stesso tempo accolta e compresa. Molto spesso è più utile ASCOLTARE che parlare. Con il sopraggiungere dei problemi di salute e di non autosufficienza, l’anziano tende a sentirsi sempre meno persona e sempre più peso per coloro che gli stanno attorno, che spesso, nel nome del suo bene, tendono a sostituirsi a lui nella maggior parte delle attività della vita quotidiana. L’anziano sente così di perdere gran parte di sé, del suo ruolo sociale e individuale: permettergli di esprimere le proprie esigenze e, nel limite del possibile, di fare le proprie scelte, farlo sentire ascoltato, fa sì che si riesca spesso ad abbattere il muro di diffidenza e ottenere molta più collaborazione di quella che si potrebbe ottenere con l’imposizione o il ricatto.
Alcune persone non sono più in grado di comunicare verbalmente le loro necessità e i loro bisogni: ci sono malattie che ledono l’apparato fonatorio e lo rendono inutilizzabile (morbo di Parkinson, SLA, sclerosi multipla, tumori, ecc.) o altre che provocano lesioni centrali che determinano l’impossibilità di parlare o di esprimersi coerentemente (ictus, emorragie cerebrali, ecc.), ma non sempre impediscono alla persona di capire e di sentire la necessità di comunicare. Queste persone si esprimono perlopiù con il corpo, con la mimica, con gli occhi. Per alcuni è ancora possibile comunicare attraverso la scrittura, ma solo per chi possiede la scolarità sufficiente per l’utilizzo di questo mezzo. Con altri infine ci si affida alla propria sensibilità e si cerca di interpretare ogni piccolo gesto, ogni contrazione di un muscolo, ogni segnale dato dallo sguardo, per cercare di capire tutto ciò (e spesso è moltissimo!) che vorrebbero dirci.
Con le persone con problemi cognitivi gravi invece, spesso è necessario creare una sorta di alleanza, di familiarità, utilizzando modi e parole che, si percepisce, l’ospite sente suoi (a volte questa familiarità, se si ha la fortuna di essere visto come somigliante a qualcuno del passato, nasce spontanea da subito, ma solo in pochi casi fortuiti e fortunati). Mantenendo sempre un atteggiamento di rispetto, si può quindi utilizzate il “tu” invece del “lei”, o comunicare con espressioni dialettali, più vicine magari ai trascorsi dell’anziano. Trovare insomma un gergo comune che ci permetta di aprire un varco in quel muro di diffidenza, spesso dovuto solo alla paura di ciò che non si conosce o al ricordo di vissuti dolorosi all’interno di un percorso di malattia. Ed è così che comincia questa nuova avventura: la lotta contro le paure dell’ignoto e la diffidenza in ciò che non si conosce, per l’anziano; la ricerca di accogliere e di dare il meglio a chi richiede il suo aiuto, per il professionista. Per tutti la costruzione di una nuova casa per l’anziano, da riempire con il calore di una famiglia. In un mondo ideale, questo potrebbe apparire come uno dei lavori più belli e ricchi esistenti.
Nel mondo reale, fatto di numeri e statistiche, dominato dalle leggi dell’economia, si tratta spesso di una lotta impari, in cui a uno si chiede di essere molti, in cui si cerca di dare un po’ a tutti, con ilrisultato di non dare nulla a nessuno.
Ma questa è un’altra storia…
*Fisioterapista – Pubblicista