di Carlotta Fassina*
Ormai non è più questione di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto perché i cambiamenti climatici sono un dato di fatto, nonostante le resistenze di coloro che o non vogliono accorgersene oppure ritengono che siano imputabili a periodiche cause naturali. Elisa Palazzi, ricercatrice dell’ISAC, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del CNR, lo ha spiegato in modo chiaro e curato alla serata del 30 maggio organizzata da Città della Speranza e CICAP a Palazzo Moroni a Padova.
Quindi sì, il riscaldamento climatico è inequivocabile, come confermano 4 diversi data set che hanno analizzato il periodo compreso tra il 1880 ed oggi, arrivando a stimare un aumento medio della temperatura sulla Terra di 1°C. La critica dei “clima-scettici” è quella che in tale lasso di tempo ci sono stati anche momenti di abbassamento termico, ma questo fa parte di una normale variabilità climatica dovuta a fattori diversi, come per esempio le eruzioni vulcaniche che a causa delle polveri emesse in atmosfera riescono ad abbassare per brevi periodi la temperatura media. Gli studiosi considerano il trend, l’andamento generale che è in continua crescita e che anzi, a partire dal 1950 circa, ha subito un’impennata con un tasso di 0,2°C ogni 10 anni. Così ci sono state, e ci sono tuttora, regioni meno soggette all’aumento delle temperature e altre dove il fenomeno è maggiore, come per esempio nell’Artico.
Qual è la causa dei cambiamenti climatici? Ci sono cause naturali ad andamento ciclico, ma sono soprattutto le attività antropiche che hanno preso piede con la rivoluzione industriale ad aver aumentato i gas clima-alteranti e ad aver incrementato fortemente l’effetto serra. Tra i gas serra l’anidride carbonica è aumentata dal 1750 del 40% e negli ultimi anni ha avuto un incremento senza precedenti. Di per sé l’atmosfera con i gas serra in essi contenuti è garanzia di vita in un pianeta che senza di essa sarebbe sottoposto a temperature sempre sotto lo zero termico; i gas infatti assorbono il calore solare che la superficie terrestre riflette e lo restituiscono nuovamente a quest’ultima. Con l’uso massiccio dei combustibili fossili però l’anidride carbonica emessa non è più assorbita a sufficienza dagli oceani e dalle foreste, che non riescono a fungere adeguatamente come centri di stoccaggio.
I cambiamenti climatici sono sempre avvenuti nel nostro Pianeta, solo che in tempi più lunghi e per cause naturali. Tra di esse vi sono: l’attività solare del sole, con una ciclicità di circa 11 anni, la variazione dei parametri orbitali e le già menzionate eruzioni vulcaniche.
A partire dal 1950 invece l’impatto dell’uomo è stato così determinante, che persino la maggior parte dei geologi ha accettato di chiamare quest’epoca Antropocene, per distinguerla dal precedente Olocene.
Come facciamo però a sapere com’è cambiato il clima nell’ultimo milione di anni, prima della capacità dell’uomo di registrarlo? Grazie alle carote di ghiaccio estratte dai ghiacci polari, che possono essere lunghe anche 3 chilometri e restituire quindi uno spaccato dei momenti climatici che si sono succeduti fino ad oggi. Gli scienziati studiano in dettaglio le bolle d’aria intrappolate nel ghiaccio, perché queste testimoniano la composizione dell’atmosfera al momento in cui si sono formate, e gli isotopi radioattivi presenti nell’acqua, in modo da datarla.
Nell’ultimo milione di anni si sono succedute otto glaciazioni con il loro massimo che si è verificato ogni 100.000 anni; il prossimo evento glaciale avrà così il suo culmine tra 80.000 anni. Lo sappiamo perché siamo riusciti a capire che la loro cadenza regolare dipende da una variazione periodica dell’eccentricità della Terra in rotazione attorno al Sole. Sappiamo anche che vi è stata sempre una correlazione lineare tra aumento della temperatura e aumento dell’anidride carbonica e che la CO2 odierna è maggiore di quella che si aveva a partire da 800.000 anni fa.
Venendo invece agli anni recenti e alle analisi satellitari, dal 1993 a oggi il livello del mare si sta innalzando a un tasso di 3,2 mm all’anno (tasso non omogeneo su tutto il Pianeta) e ha raggiunto gli 80 mm. Il fenomeno non è quasi dovuto allo scioglimento dei ghiacciai polari, perché il loro comportamento è un po’ come quello di un cubetto di ghiaccio immerso in un bicchiere, il quale non fa variare il livello dell’acqua sciogliendosi. E per fortuna, perché dal 2002 ad oggi la Groenlandia ha perso 3750 migliaia di tonnellate di ghiaccio, soprattutto dalla zona costiera. Lo scioglimento agisce a livello di albedo, ovvero di capacità di riflessione dei raggi solari, alta nei ghiacciai e nevai, via via minore se questi si riducono sensibilmente. Inoltre mano a mano che la coltre ghiacciata si assottiglia, diminuisce lo strato più profondo e intatto.
Sono invece i ghiacciai continentali ad aumentale il livello dell’acqua del mare. Il volume dei ghiacciai delle Alpi è diminuito di due terzi dal 1850 a oggi. Meno ghiaccio significa meno acqua in scioglimento per l’estate. Anche se poi la quantità di neve può essere alta in un dato inverno, l’aumento delle temperature anticipa di solito il suo scioglimento con il risultato che la possibilità di conservare la preziosa acqua montana per i momento di siccità diventerà sempre più difficile, a meno di non raccoglierla in appositi bacini e di non cambiare anche le modalità della sua ripartizione, cosa non facile da attuare in mote zone della Terra. Un ragionamento a parte che voglio fare è quello dell’utilizzo dei bacini montani anche come risorsa idroelettrica, sempre meno compatibile con l’uso irriguo e potabile durante la siccità estiva, quando, tra l’altro, per sfuggire al caldo, si accendono moltissimi condizionatori d’aria bisognosi di energia elettrica. Tutti effetti da non sottovalutare dei cambiamenti climatici, assieme all’aumento dei fenomeni meteorologici estremi capaci di produrre piene, allagamenti, smottamenti ecc. in un Paese, come il nostro, ad altro rischio idrogeologico. Anche a non voler guardare nient’altro, occorre cominciare a considerare il costo economico dei cambiamenti climatici.
Gli ecosistemi d’alta quota risentono moltissimo delle variazioni del clima e proprio per questo motivo funzionano da sentinelle. Una specie animale tenuta sott’occhio dai ricercatori è la pernice bianca, che vive nei pascoli d’alta quota e che deve fare i conti, tra le varie minacce, proprio con l’aumento delle temperature. Non solo queste la costringono a spostarsi a quote maggiori in zone meno idonee all’alimentazione e alla riproduzione, ma la rendono più facilmente identificabile, e quindi predabile, quando la neve si scioglie prima che il suo manto da bianco torni ad essere marrone.
Elisa Palazzi crede molto nei modelli climatici, specie se sono l’interpolazione di altri modelli accreditati sviluppati da vari scienziati sparsi nel pianeta e se considerano un numero di variabili sufficiente ad avvicinarli alle situazioni reali. Essi possono essere strumenti diagnostici, in grado di valutare il presente, oppure prognostici e quindi predittivi. Occorre sicuramente riconoscere loro un margine d’incertezza, ma ormai anche una buona attendibilità.
Le azioni per invertire la rotta sono molteplici e vanno dal rispetto degli accordi internazionali come l’Accordo di Parigi, ai buoni comportamenti di ognuno di noi; quello che finalmente appare certo è che non è più tempo per indugiare.
*Scienze Naturali