di Corrado Poli*
Il film “Come un gatto in tangenziale”, con Albanese e Cortellesi, invia un messaggio nuovo. Potrebbe segnare il cambio di una stagione, come quando un certo giorno di agosto, alla sera, ti sembra che la brezza abbia cambiato direzione e pensi che un altro anno sia passato. L’ho guardato due volte: la prima per caso, la seconda con attenzione.
Non siamo di fronte a un capolavoro, ma certamente un film ben fatto, con attori discreti, con qualche scena o battuta intelligente e qualche caduta di tono.
Ho pensato al film come a una svolta nel modo di pensare comune. Gli autori, non sottolineano l’usuale arroganza delle classi colte e dirigenti; non colpevolizzano la piccola e media borghesia intellettuale per lo stato di precarietà in cui vivono i “poveri” come se la ricchezza – economica e culturale – fosse una colpa. Tanto meno glorificano il popolo, i poveracci di portafoglio, ma anche di spirito. Dell’idea che il popolo sia sempre innocente e vada coccolato fino all’esagerazione (come si fa con i bambini) è ormai piena la letteratura e la cinematografia. Le serie TV più gettonate oggi – soprattutto negli Stati Uniti, ma esportate e tradotte in tutto il mondo – riguardano l’arroganza delle istituzioni e la violenza verso i poveri e le minoranze della cui purezza non è dato discutere. Anzi, oggi si arriva a lodare la spontaneità delle manifestazioni più emotive e talora volgari, la semplicità e persino la mancanza di una cultura che permetta a una parte del popolo di articolare una seria critica alla società e alla politica. Una critica che io considero necessaria e non mi astengo dal portarla, ma che non esime dall’osservare le mancanze di tutti. Così che proliferano le inchieste sui reietti a cui sono permessi l’insulto, l’illegalità, l’immoralità. Soprattutto si accondiscende alla loro disperazione di potere riscattarsi con l’impegno. La disperazione si somma peraltro alla giustificazione dell’incapacità di sopportazione del disagio temporaneo in cambio di un futuro migliore. La qualcosa induce all’astenersi dall’impegno e a sognare invece un cambiamento palingenetico suggerito da qualche leader carismatico.
Questo film, è nuovo e originale perché non si schiera completamente a favore della
“borgatara” Cortellesi che viene descritta con simpatia, ma senza indulgenza. Né contro il borghese intellettuale Albanese il quale per mestiere “pensa”, cioè coordina un Think Tank per favorire il riscatto dei più poveri utilizzando fondi EU. Una professione che la Cortellesi e i suoi congiunti non riescono nemmeno a immaginare cosa sia, ma che alla fine si dimostrerà fondamentale per il loro riscatto. Il riferimento alla tanto disprezzata Europa non va sottovalutato. L’onestà e i buoni sentimenti sono descritti come trasversali alle classi sociali, vale a dire né frutto dell’educazione e dell’ambiente, né della ricchezza, ma dell’indole e della moralità intrinseca delle persone.
Non si tratta del discorso di Agrippa alla plebe ritiratasi sull’Aventino, in cui si accetta la necessità di una differenza di classe e di mansioni. Piuttosto il film mi ricorda una frase di Tucidide che cito a braccio: “ci serviamo della ricchezza più come occasione per agire che per vantarcene in pubblico; e ammettere la propria povertà non è una vergogna per nessuno, ma non tentare di porvi rimedio coi fatti lo è assai di più”. Alla fine del film, la borgatara emarginata Cortellesi, grazie al borghese Albanese, rompe il circolo vizioso di quella sfiducia (che è anche pigrizia) la quale fa pensare che nulla possa mai cambiare e giustifica alcuni a crogiolarsi nel disimpegno e nell’autoassolversi per le proprie grandi o piccole meschinità.
Nel film, non si risparmiano nemmeno le ironie sugli intellettuali e sui borghesi, ma si concede loro che si può essere tali – e anche benestanti – pur conservando sensibilità umana e sociale e svolgendo con dedizione il proprio compito senza sensi di superiorità e vanagloria.
*Docente – Scrittore