di Silvia Losego*
I motivi che portano l’anziano alla sedentarietà sono di vario tipo. Possono essere le modificazioni fisiologiche correlate all’età, che portano ad una minore tolleranza allo sforzo e ad una ridotta efficienza fisica a causa della minor massa muscolare e al calo della funzione respiratoria; oppure essere condizioni patologiche, come malattie cardiovascolari, respiratorie, neurologiche, muscolo scheletriche e deficit cognitivi; ma possono essere anche fattori psicologici e ambientali, come l’assenza di interessi, la mancanza di compagnia, il timore di farsi male, l’impoverimento di legami affettivi, le condizioni economiche e le barriere architettoniche.
Alcuni di questi fattori tendono ad autoalimentarsi: creano una sorta di circolo vizioso, da cui l’anziano tende ad essere imprigionato e portano spesso all’inevitabile istituzionalizzazione, quale estrema soluzione.
Istituzionalizzazione: si tratta proprio di estrema soluzione?
Non è infrequente che la valutazione dell’autonomia e delle caratteristiche psico-fisiche dell’anziano riportate dai familiari che lo accompagnano, si dimostrino abbastanza incongruenti rispetto alla realtà rilevata, dopo qualche giorno, dal personale dell’istituto in cui viene accolto.
In effetti, a dispetto dell’opinione comune che l’istituzionalizzazione costituisca “l’ultima spiaggia”, sia per l’anziano che per la famiglia, in alcuni istituti che, per vocazione strutturale o per dedizione del personale, danno spazio alle caratteristiche e anche ai difetti dei singoli ospiti, senza sanzionarli, si assiste alla imprevedibile ripresa di alcune persone, che mostrano di essere in grado di costruire nuove relazioni, di recuperare e utilizzare alcune autonomie e, in definitiva essere ancora motivati a vivere.
Ma proprio per questo è importante leggere il fenomeno dell’istituzionalizzazione sia dal punto di vista della famiglia che da quella dell’istituto: ne emerge una realtà complessa, fatta sia di dati indiscutibili, ma anche di elementi fluidi, in rapido mutamento.
Cosa rende così diversa la valutazione dei familiari dall’osservazione del personale dell’istituto?
In questo entrano in gioco molteplici fattori. Innanzitutto il personale, per formazione, è portato a stimolare l’ospite mentre lo assiste nella quotidianità; al contrario a casa spesso i familiari tendono a fornire un surplus di aiuto all’anziano, arrivando anche a sostituirsi completamente a lui in alcune delle azioni della vita quotidiana, vuoi per velocizzare la gestione, ma molto più spesso nel nome del suo “bene”, per sottrarlo a fatica e difficoltà.
Un altro fattore è costituito dall’emotività e dal tipo di relazione: in struttura l’anziano, in assenza dei familiari, spesso si sente abbandonato, ma altre volte si sente libero di essere diverso da come era a casa, e mostra lati di sé quasi sconosciuti ai parenti, che spesso tendono a negare che ciò sia possibile. Va inoltre considerato che a volte l’istituzionalizzazione arriva quando la stanchezza e lo stress accumulati dai familiari, dopo anni di assistenza a domicilio, raggiungono il culmine, e cogliere le potenzialità ancora esistenti nell’anziano e valorizzarle, richiederebbe un ulteriore sforzo: impotenza e rabbia possono quindi prendere il sopravvento e distorcere , anche se parzialmente la realtà.
Non è semplice gestire questi vissuti, insieme ai sensi di colpa e di inadeguatezza che inevitabilmente ne derivano. Descrivere il proprio familiare come maggiormente dipendente e compromesso, può alleviare la sensazione di fallimento e rappresentare una sorta di giustificazione dinanzi ai propri occhi e a quelli degli operatori che ricevono l’anziano in struttura.
Evidentemente è molto difficile, a tratti doloroso, per un familiare scoprire che il proprio caro vive meglio in struttura che a casa, magari dopo mesi o anni di cure amorevoli e di rinunce dedicate a lui: non è insolito che le incomprensioni che sorgono tra familiari e personale di reparto siano impregnate proprio di una sorta di gelosia verso le relazioni, per altro mai completamente prive di conflitti e ambivalenza, che sorgono tra gli operatori e alcuni ospiti.
Ma sono comunque dinamiche in continua evoluzione: inizialmente la famiglia si aspetta di veder curato il proprio caro come a casa, sia nei modi che nei tempi; molto spesso sperano di poter mantenere la maggior parte delle abitudini di vita e di relazione presenti in casa, dall’abbigliamento all’alimentazione, dagli orari di visita alle attività assistenziali. Queste aspettative tendono a scontrarsi con la serie di regole che la casa di riposo si dà per uniformare l’attività assistenziale e la presenza dei familiari in istituto.
Ma cosa ha a che fare tutto questo con l’attività motoria?
Come per tutti gli altri aspetti della vita quotidiana, anche per quello che concerne il movimento dell’anziano la famiglia ha delle aspettative. Sia che si tratti di una persona integra sul piano motorio, che entrata in istituto per motivi strettamente organizzativi, magari a causa di patologie del quadro cognitivo, sia che si tratti di un anziano altamente deteriorato sia sul piano fisico, che negli aspetti intellettivi, molti familiari ritengono che l’attività motoria sia, per l’anziano, alla base della vita in istituto.
Come precedentemente illustrato, le evidenze scientifiche danno molta importanza all’attività motoria anche in età avanzata. Ma ci sono alcuni concetti che vanno subito chiariti. Innanzitutto vi è una fondamentale differenza tra attività motoria ed esercizio motorio: mentre la prima è definita “come qualsiasi movimento corporeo indotto da muscoli scheletrici, che comporti un dispendio energetico”, l’esercizio è “un’attività particolare caratterizzata da movimenti corporei strutturati e ripetitivi, finalizzati a mantenere e/o migliorare l’efficienza fisica”. Ed è a questo secondo tipo di attività che il fisioterapista si dedica.
È chiaro che all’interno delle residenze per anziani la presenza di un servizio di riabilitazione garantisce la presa in carico di tutti gli ospiti dell’istituto, ma l’intervento che su ognuno viene fatto è conseguente ad un’attenta valutazione funzionale che il professionista esegue all’ingresso e anche più volte in seguito, del quadro motorio (e non solo) dell’anziano.
Un attività che non riguarda solo il movimento.
La valutazione del fisioterapista non riguarda solo il quadro motorio, ma deve estendersi anche agli aspetti cognitivi e psicologici dell’ospite.
Non è credibile infatti, intervenire con velleità riabilitative in un soggetto con problemi motori, quando la persona interessata non voglia fermamente collaborare nell’attività o sia, per motivi cognitivi, impossibilitata a farlo.
Capita così di dover mettere in atto un progetto riabilitativo per persone cognitivamente deteriorate e non in grado di collaborare, magari provenienti da mesi di allettamento, i cui familiari si aspettano che il fisioterapista compia il miracolo. Purtroppo non funziona così.
La valutazione all’ingresso serve proprio per comprendere il quadro globale dell’ospite e capire se è utile un programma riabilitativo o se invece sia più mirato un intervento di altro tipo. Quello infatti che non è compreso dai più è che il fisioterapista non è solo colui che “fa camminare” le persone. La sua preparazione è anche volta a dare consigli e trovare soluzioni riguardanti gli ausili da utilizzare per mobilizzare l’anziano, per permettergli di avere una vita socialmente soddisfacente anche in caso di scarsa o assente capacità di movimento, per poter riposare in una posizione confortevole a letto, per mantenere le residue capacità di autonomia e collaborare con il personale di assistenza nella gestione delle attività della vita quotidiana.
La comprensione di questi concetti e la fiducia negli interventi dei professionisti sta alla base di un lavoro utile per la popolazione di anziani di un istituto e di soddisfazione per il fisioterapista. Diversamente accade che il professionista, nel tentativo di rispondere alle esigenze dei familiari, si ritrovi a dare poco a tutti e, in pratica, niente a nessuno.
Purtroppo l’attività dei professionisti nelle strutture pubbliche e convenzionate attualmente è legata anche a standard numerici, imposti dalle leggi, forse un po’ anacronistiche e non rispondenti alle attuali esigenze. Ma sono pur sempre le regole che attualmente ci governano.
Oltre a questo, vi è l’idea che la riabilitazione possa essere anche un diversivo per indurre l’anziano ad entrare in istituto. Ecco il perché della mia lunga premessa. Purtroppo questo genera spesso, aldilà della necessità del fisioterapista di prendersi carico di soggetti che diversamente non avrebbero dovuto essere inseriti in un programma riabilitativo, anche un problema di aspettative da parte dell’anziano. Il gioco in fondo prima o poi viene scoperto e spesso ne va di mezzo anche la fiducia nel professionista, che così assume il ruolo di complice in una situazione il cui esito non sarà piacevole. Ultima e non ultima la credenza che la riabilitazione sia un passatempo e un riempitivo della giornata dell’anziano. In un mondo ideale, dove ognuno di noi ha il proprio fisioterapista, forse la cosa potrebbe funzionare. Attualmente, in questa società dominata dai numeri, ritengo piuttosto dispendioso in termini di tempo e denaro, l’utilizzo di fisioterapisti a scopo ludico.
Queste mie ultime annotazioni possono far capire il senso del titolo di questo articolo: non si tratta di sfatare il ruolo dell’attività fisica nel campo geriatrico, ma di precisare il significato dell’esercizio fisico a scopo riabilitativo.
Concluderei dicendo che né la famiglia né l’istituto sono onnipotenti e capaci di rispondere a tutti i bisogni dei nostri anziani: insieme però è possibile costruire percorsi di assistenza, che nel tempo possono modificarsi. Inoltre insieme va riconosciuta l’impossibilità di soddisfare completamente la persona anziana: c’è comunque la necessità di ascoltarla di più e molto spesso di accettare la volontà di chi, a vario titolo, si sente sempre meno persona.
(fine)
*Fisioterapista*