di Nelli Vanzan Marchini*
In ogni campo di Venezia, all’interno di ogni corte di palazzo, nei chiostri di ogni monastero, spiccano uno o più puteali,. Oggi vi bivaccano turisti ignari della vitale e antica funzione che assolvevano raccogliendo e conservando l’acqua potabile. (foto in alto).
Venezia infatti è “in acqua ma non ha acqua” come rilevava Marin Sanudo il giovane agli inizi del Cinquecento. I primi abitanti probabilmente scavarono pozzi naturali raggiungendo la falda d’acqua che molto spesso si trovava sotto i lidi sabbiosi. Ed era proprio per la presenza di acqua potabile a Malamocco che vi era sorto il primo grande insediamento lagunare. Ancora oggi una zona del Lido porta il nome di “quattro fontane” ricordando le polle di acqua dolce che furono utilizzate dalla città durante l’assedio del 1848 quando ogni approvvigionamento di acqua dalla terraferma era stato interrotto dal blocco austriaco.
La nascita di Venezia a Rialto coincise con l’invenzione di quelli che impropriamente continuano a essere chiamati pozzi e che erano invece cisterne per raccolta dell’acqua piovana. Indispensabile alla sopravvivenza, l’acqua veniva convogliata nei pozzi pubblici costruiti al centro di campi e campielli, mentre i più abbienti ne possedevano di privati all’interno dei loro palazzi. La costruzione delle cisterne inventate dai veneziani era piuttosto complessa perché comportava uno scavo nel campo di una cisterna quadrata di circa 13 metri di lato e di 4 o 5 metri di profondità. Si procedeva a isolarne le pareti impermeabilizzandole con argilla tenuta umida perché non crepasse. Si riempiva la cisterna con buona sabbia delle dune di Treporti e al centro veniva creata una lunga canna cilindrica che correva dal fondo fino alla superficie dove era collocato il “puteale”dotato di ferro e carrucola per calare il secchio. Il suolo del campo era inclinato per far affluire l’acqua attraverso quattro forine o pillele dentro dei cassoni da dove scendeva nella sabbia purificandosi per raggiungere il fondo della canna da dove poteva essere attinta con i secchi calati dal puteale.
Talvolta si adottò la soluzione un po’ meno laboriosa di sopraelevare la cisterna rispetto al livello del campo con il risultato di rendere più capiente la canna e più alte le forine rispetto ai livelli di marea e dunque meno aggredibili dalle acque alte.
Dal 1334 i proprietari di case che davano sui campi dovettero raccogliere l’acqua che cadeva sui loro tetti costruendo pluviali che la convogliavano fino ai cassoni dei pozzi. Il tratto fino al lastricato era a spese dei proprietari, quello sotto il suolo era a carico dello Stato; chi però possedeva un pozzo privato poteva sottrarsi a tale onere. L’acqua che cadeva sul campo prima di entrare nel pozzo scorreva per terra perciò era indispensabile che i campi fossero tenuti puliti per non inquinare le cisterne. Nel 1502 si proibì il pascolar porci nelle vicinanze dei pozzi, installare banchi fissi per attività commerciali e si impose a “beccari, gallinari, erbaroli, pescatori ed altri”, di “tener netti da qualunque immondizia” gli spazi nei campi in cui facevano mercato. Nel 1539 il Magistrato alla Sanità condannò una donna di nome Laura, colpevole di aver sporcato un pozzo, a farlo pulire entro otto giorni oppure a scontare un mese di carcere, dovendo poi farlo pulire ugualmente.
Oltre all’incuria degli uomini, anche qualche cedimento del terreno o una radice d’albero potevano far crepare l’argilla provocando infiltrazioni di acque salmastre ; le opere di restauro allora erano molto laboriose perché, in caso di mancata individuazione del punto danneggiato, si dovevano puntellare gli edifici circostanti e mettere interamente a nudo le banche d’argilla. Per questo motivo, nel corso dei secoli, spesso si preferì abbandonare i pozzi gravemente danneggiati piuttosto che restaurarli.
Con l’espansione della città e la crescita della popolazione, anche se il numero dei pozzi sia pubblici che privati crebbe, il rifornimento con acqua piovana cominciò a rivelarsi insufficiente. Nei periodi di siccità l’arte degli acquaroli inviava i propri burchi (capienti barche lagunari a fondo piatto) ad attingere l’acqua dolce alle foci dei fiumi per venderla a 8 secchi per un soldo (questo era il prezzo nel 1493). Tale vendita al minuto era fatta dalle “bigolanti” cioè da donne che portavano due secchi appesi ad un bastone ritorto (“bigolo”) posato sulle spalle. Esse andavano per le strade richiamando i clienti al grido “aqua mo”. Il Sanudo riflette su tale scena usuale a Venezia commentando “in verità è da rider esser in acqua et convenirla comprar”.
Agli inizi del Cinquecento la popolazione di Venezia, dopo la grave crisi demografica derivata dalla peste del 1348 e delle successive ondate epidemiche , si era attestata sui 100.000 abitanti che disponevano di un centinaio di cisterne pubbliche, ve ne erano poi circa 2700 private e altre 1300 contenevano acqua non potabile usata dalle arti. Queste infatti per le loro attività artigianali e industriali dovevano acquistarsela perché, se avessero utilizzato “per mestiere e per guadagno” l’acqua fornita gratuitamente al popolo, oltre a subire pene pecuniarie e detentive avrebbero dovuto rifornire a loro spese il pozzo con un burchio di acqua potabile.
Fin dal 1318 il Maggior Consiglio aveva individuato nel Brenta il fiume dall’acqua più pura e più sana per approvvigionare Venezia. Questa scelta fu confermata dal Senato nel 1425 e nel 1494 dal neonato Magistrato alla Sanità che contemplò una multa di lire 25, due mesi di carcere e la perdita della barca per chi portasse in città acque “salse et chative… de Bottenigo, Sioncello da Lio et de altri luoghi” ritenendole “molto contrarie a la sanità”.
Il trasporto dell’acqua potabile veniva eseguito solo a fronte di un particolare “mandato” in cui erano precisati il nome e il cognome del caricatore e la sagoma della barca affinché fossero controllati al loro arrivo in città dai capi contrada.
Oltre agli “acquaroli” vi erano anche altri barcaroli che svolgevano tale compito, per lo più con barche “scoazzere” destinate anche al trasporto dei rifiuti. Essi ufficialmente non potevano eseguire tali operazioni, ma di fatto lo facevano, pagando l’arte degli acquaroli e trasportando l’acqua in tini e non sciolta, e i loro prezzi di vendita erano convenienti. I capi contrada, che dal 1536 avevano anche la responsabilità di controllare che l’acqua dei pozzi pubblici non fosse usata dalle arti, tenevano le chiavi del coperchio dei puteali, che aprivano due volte al giorno al suono dell’apposita “campana dei pozzi”, quando tutti i poveri si mettevano in fila nei campi per rifornirsi di questo indispensabile bene. A soprintendere a tale operazione era anche il piovano che, conoscendo la popolazione, poteva evitare gli abusi.
Alla costruzione dei pozzi pubblici in tutta la città provvedevano gli Avogadori di Comun i cui stemmi compaiono spesso scolpiti sui puteali; a vegliare sulla potabilità dell’acqua erano invece i Provveditori alla Sanità che ordinavano la pulizia delle cisterne con le macchine messe a disposizione dal Reggimento dell’Arsenal.
Dati i costi che la Repubblica si sobbarcava per rifornire d’acqua i poveri, non stupisce che su ogni vera da pozzo troneggiasse l’immagine del leone di S. Marco per ricordare la magnanimità dello Stato. Contro tali simboli si scagliò l’ira rivoluzionaria che nel 1797 li smantellò, lasciandone soltanto due al Lazzaretto Novo e nel chiostro della Madonna del Pianto. Quando eccezionali alte maree raggiungevano le “pilele” e l’acqua salsa entrava nei cassoni, bisognava intervenire con prontezza e decisione per evitare l’inquinamento dell’intera struttura . La terribile peste del 1576 fu attribuita da alcuni erroneamente alla straordinaria acqua alta di due anni prima che, inquinando i pozzi, si ritenne avesse diffuso il contagio.
Nel marzo del 1626 i Provveditori alla Sanità, in seguito ad una eccezionale alta marea, che aveva reso i pozzi “affatto guasti”, nominò un nobile e un cittadino per ogni contrada affinché sopraintendessero alle operazione di svuotamento e pulizia. L’anno seguente individuò lo stazio responsabile della “preservazione” di ogni pozzo pubblico onde evitare confusioni e scarico di responsabilità. Se infatti all’“escrescenza delle salse” essi fossero intervenuti tempestivamente tappando con dell’argilla le forine, le cisterne sarebbero rimaste isolate e l’acqua salsa non le avrebbe inquinate. Se invece l’acqua marina fosse entrata, si sarebbe dovuti intervenire vuotandole e lavandole.
La sovraintendenza su tutte le operazioni di manutenzione e di rifornimento era dei capi contrada sotto il controllo del Magistrato alla Sanità che faceva periodicamente verificare la qualità dell’acqua. Nel 1795 il Magistrato ordinò che alla base di ogni puteale pubblico fosse scolpita una vaschetta contenente l’acqua per i cani, che doveva essere tenuta pulita dai facchini degli stazi. Si pensava così di contrastare o prevenire la rabbia, le cui cause e le cui cure erano del tutto sconosciute.
Per tutto l’Ottocento il pozzo rimase l’unica risorsa idrica e un centro di vita sociale, finché il 23 giugno 1884 la solenne inaugurazione dell’acquedotto, con lo zampillare delle acque dolci nella fontana provvisoria costruita in Piazza S. Marco, segnò l’inizio di una nuova era. Da quel momento in poi si costruirono condotte e impianti sublagunari che trasportarono l’acqua potabile dalla terraferma alle fontanelle di tutta la città e delle isole e poi raggiunsero i bagni e le cucine di ogni casa. I puteali, ormai perduta la loro funzione tecnica e sociale, sopravvissero soltanto come elementi decorativi di campi e campielli.
Per approfondimenti :
Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia Civiltà Anfibia, Sommacampagna, CIERRE Edizioni 2009
*Scrittrice -Docente