di Carlotta Fassina*
Il mio viaggio è iniziato prima di essere tale e forse continua anche ora che sono tornata da un paio di giorni. Sono partita con in testa le riprese con drone del centro storico di Camerino, piegato dalla scossa di terremoto del 26 ottobre del 2016. La mia destinazione era la Summer school dell’Università di Camerino sulla comunicazione delle scienze, tema a me ormai consueto.
Le sensazioni che ho provato le sento così forti che devo raccontarle al presente; forse davvero sono ancora in viaggio.
Avvicinandomi alla meta, in auto, mi lascio estasiare dalla bellezza delle colline, dei campi di girasole e di erba medica. La luce e le nuvole in cielo sembrano le stesse di appena quattro anni fa, quando scoprii per la prima volta, sempre con un corso dell’Università, di amare questo luogo.
Al mio arrivo ho bisogno di entrare in centro storico, di ripercorrere le vie già battute. Stavolta non c’è nessuno. Sale in me l’apprensione per quello che avrei visto di lì a poco. Comincio la mia camminata dalla chiesa di San Venanzio e già subito è un susseguirsi di edifici, e loro parti, “ingessati” entro strutture di contenimento. Faccio alcune foto quasi di nascosto, sentendomi come l’intruso in una casa lasciata incustodita.
Nelle impalcature lignee messe a sostegno delle volte in muratura leggo i nomi dei Vigili del Fuoco di Vicenza e Verona. Penso alla forza della solidarietà e a mio padre che con il terremoto del Friuli del 1976 andò anche lui a portare due braccia ai terremotati. La solidarietà nelle forme di allora è oggi impossibile per tutta una serie di valide ragioni, constato tuttavia il fatto che il contatto umano ha per molti un’importanza ineguagliabile. Lo verifico in questo viaggio, sotto al tendone del City Park allestito per i commercianti sfrattati dai loro negozi.
Mi ero imposta di non domandare a nessuno del terremoto perché immaginavo che quella fosse una ferita profonda da rimarginare al più presto, da non sentir ancora bruciare per il sale delle parole altrui. Mi ricredo in parte, perché trovo persone che vogliono parlare soprattutto di quello che stavano ancora vivendo.
Sotto al tendone una signora anziana comincia a raccontarmi di quando aveva un bar in centro frequentato dagli studenti dell’Università. Con le mani mi descrive i tramezzini che erano la sua specialità, fatti la mattina presto con la maionese da lei stessa preparata. Finché parla ritorna alla mente la città viva che avevo conosciuto e immagino quella maionese e quel pane morbido in bocca. Ma poi segue il racconto del presente, che spezza come una faglia il ricordo. È la storia di una casa grande inagibile, di un figlio che oggi vende i prodotti del territorio sotto al tendone. Avverto nella voce l’ansia di una madre per il figlio, immagino la difficoltà di un anziano nel perdere le sue abitudini quotidiane e nel vivere in un perenne stato d’incertezza.
Girovagando in auto per le campagne in cerca di viveri incontro poi un altro negoziante che non vuole stare nel tendone, ha appena riaperto l’attività dove ha il laboratorio, sotto casa. Giustamente teme che quella posizione non sia abbastanza di passaggio. Mi dicono che i prodotti da forno sono un’eccellenza locale, ma che alcuni negozi hanno rinunciato a fare ciambelle e dolci perché oggi non ci sono abbastanza acquirenti.
Vivo la paura attraverso le parole di una studentessa di Camerino, residente in zona. La sua casa non è inagibile, ma lei dorme comunque in roulotte perché ha paura che il terremoto arrivi nel sonno come il peggiore degli incubi. Quando i suoi genitori sono fuori casa, anche i gesti quotidiani come il farsi la doccia sembrano pericoli potenziali. Il suo sfogo, un fiume di parole, avviene dopo che a lezione il personale del museo universitario mostra il modellino con cui simulano gli effetti del terremoto sulle case. Con quel tavolo vibrante vanno nelle scuole a spiegare il perché alcune case sono crollate e altre no. <<Io a vederlo sto male>> ci dice la brillante studentessa di giurisprudenza dagli occhi grandi e vividi.
Da quel 26 ottobre 2016 le morti a Camerino sono aumentate del 53%. Molti sono stati i suicidi di persone che si sono viste incapaci di pensare al futuro. Per alcune di loro la casa è stata dichiarata inagibile dopo mesi dal sisma e questo deve aver sconquassato le loro esistenze come un nuovo terribile cataclisma capace di provocare il gesto estremo.
Nella pausa tra una lezione e l’altra mi spiegano che era proprio come avevo notato: non ci sono cantieri per il restauro in centro storico, è tutto lasciato lì come qualcosa di cui non si sa più che fare.
I cantieri sono qua e là lungo i versanti collinari e nei dintorni perché il terremoto ha colpito anche altri borghi e frazioni e ci sono molte persone da sistemare. Si vede un po’ di tutto; un architetto locale mi spiega che in alcuni casi si sta costruendo male, su pendii ripidi e con fondamenta sproporzionate. C’è il timore che le nuove costruzioni, se brutte e scomode, possano ancor più crear danno alla città che ha una sua bellezza e una sua storia da conservare. La mia fantasia corre e ingenuamente mi domando perché non trasformare Camerino nel paese dei girasoli, così come ha fatto Norcia con le sue lenticchie, che quando fioriscono richiamano moltitudini di turisti a fotografare splendide distese di colori.
Camminando a passo svelto arrivo al Museo delle Scienze dell’Università, ospitato nel convento di San Domenico. Mi ricordo del museo, delle collezioni e del cortile del convento. Oggi la facciata sembra un monumento futuristico, con la sua impalcatura in metallo gialla. Riadattandola un po’potrebbe magari dare l’incipit a una nuova vita del museo: museo delle scienze, del terremoto, dell’edilizia sicura, dell’innovazione e, perché no, dell’architettura di tendenza. La mia mente corre al futuro, a possibili soluzioni che vedo realizzabili nelle mani di architetti del calibro di Renzo Piano e delle università italiane. Ci vogliono risorse e la volontà di ripartire e snellire le sfinenti lungaggini burocratiche che stanno piagando anche i privati. Forse vale la pena procedere anche attraverso il cambiamento e l’innovazione perché l’immobilismo non è un’alternativa valida.
Il museo delle scienze è intanto chiuso e non c’è alcuna previsione sulla sua riapertura. Alessandro Blasetti, responsabile scientifico, ci spiega come il lavoro di educazione scientifica non si sia mai interrotto, come sia continuato con le mostre itineranti fuori sede e la didattica nelle scuole e nelle strutture provvisorie d’accoglienza. A settembre l’Università avrà il suo pulmino scientifico itinerante, attrezzato per trasportare pannelli e accessori per la sperimentazione laboratoriale nelle classi. Si chiamerà USB, Unicam Science Bus. Un’idea geniale.
Il bellissimo orto botanico ottocentesco è rimasto intatto. I grandi alberi e l’alto muro in pietra del palazzo sovrastante hanno resistito alle scosse. Ai loro piedi crescono piante aromatiche e medicinali.
Il cuore del centro non è verde ma rosso, nel senso che è zona rossa in cui è vietato entrare. In una delle transenne di legno leggo la scritta: “solo un momento di crisi di passaggio che io e il mondo stiamo superando”.
Con peripezie e cambi di rotta riesco a raggiungere la rocca dei Borgia, simbolo della città, da cui osservavo il panorama e il via vai della gente prima del terremoto. Qualche bambino corre nel parco dai grandiosi lecci, le taccole camminano sui muri e sulle impalcature. Gli edifici sono inagibili. Mi sento osservata, capisco che i locali vorrebbero leggere le mie emozioni, ma io voglio che il mio dolore sia imperscrutabile, voglio infondere speranza, stare leggera. Un’altra scritta invece mi raggela, è la citazione della poesia San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti. Scrivendola ora e pensando alla rocca ho la pelle d’oca: “Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro. Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto. Ma nel cuore nessuna croce manca. È il mio cuore il paese più straziato”.
All’Università ci spiegano che quando tutto è accaduto, hanno pensato che occorreva ripartire subito da quello che non era crollato. Hanno così spostato aule e uffici nel polo nuovo. Che cosa non era crollato? Soprattutto il futuro e quindi #ilfuturononcrolla è diventato il logo del grande progetto che l’Università di Camerino sta mettendo in piedi per far crescere una struttura d’alto livello sorta nel 1336. Il polo universitario è già una struttura nuova, accogliente e in divenire; a giorni saranno pronti i nuovi alloggi per studenti. Oggi più che mai l’Università è fondamentale a ripopolare la città, a creare economie, a dare prospettive di lavoro ai ragazzi del luogo e a tutti quelli che vogliono investire in una formazione di qualità. La mia esperienza di studio è stata bellissima, spero di trovare il modo di tornare ancora.
Voglio però fermarmi anche in vacanza, mostrare ai miei figli la bellezza di questi luoghi, voglio credere nel futuro perché esso arriva appena dopo il presente.
*Scienze Naturali