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Resilienza e Terza Età: oggi vi racconto la storia di Marco

di Silvia Losego*

Le persone che operano nell’ambito delle professioni di cura si trovano spesso a contatto con individui che hanno la necessità di raccontarsi. A chi non è mai capitato di aprirsi con il proprio medico o con il fisioterapista, quasi fosse una seduta di psicoterapia, raccontando i propri problemi e cruci. Nell’ambito geriatrico questo, se possibile, è ancora più frequente: l’anziano istituzionalizzato ha spesso il desiderio di raccontarsi e, quando incontra una persona disponibile all’ascolto, all’interno di un mondo che scorre sempre più veloce, approfitta per aprirsi e disegnare le tappe della propria vita, a volte generoso di particolari anche insoliti.

Nella mia attività ho incontrato Marco: un “giovanotto” di 94 anni, due occhi azzurri con la vivacità di un ragazzino e una gran voglia di parlare della sua storia. Questo racconto ed il suo atteggiamento verso la vita mi ha subito fatto pensare alla RESILIENZA.

 

Ma cos’è la resilienza?

 È ancora un termine poco conosciuto: oltre che nelle scienze umane, in fisica e in ingegneria è utilizzato per indicare la capacità, di un corpo o di un materiale, di resistere a sollecitazioni improvvise, senza subire danni strutturali; introdotta anche in informatica, la parola fa riferimento ad un sistema in grado di funzionare nonostante anomalie di uno o più componenti; è utilizzato poi in biologia per indicare organismi in grado di autoripararsi dopo aver subito un danno.

I primi studi sulla resilienza applicata alle scienze umane, risalgono agli anni ’80, anche se già nel 1945 erano state studiate le capacità di reazione negli individui che avevano subito un forte stress bellico o nei superstiti dei lager.

Ma quando ci riferiamo agli esseri umani, qual è il suo significato?

Non esiste una sola definizione di questo concetto: gli studiosi delle diverse correnti di pensiero, tendono solo a mettere in risalto differenti componenti, ma alla base vi sono comunque caratteristiche comuni.

Il termine deriva dal verbo latino resilire: si forma aggiungendo il suffisso re- al verbo salire, che significa ‘ saltare, fare balzi’, dandogli il significato di ‘saltare indietro, rimbalzare’.

In psicologia, quindi, la resilienza è la capacità di resistere, fronteggiare e riorganizzare positivamente la propria vita dopo aver subito un evento negativo. Ma non si tratta solo di una resistenza passiva, di una reazione inconsapevole e automatica, bensì di una risposta cosciente, di una ricostruzione. L’individuo resiliente non è colui che ignora o nega le difficoltà, e neanche chi le minimizza. Al contrario, è colui che riesce ad andare avanti, con una forza rinnovata, con una più approfondita e consapevole conoscenza di sé, dopo aver sofferto per una situazione negativa.

In poche parole, resilienza è la capacità di trarre insegnamento da un evento traumatico, trasformandolo da negativo a fonte di cambiamento, inteso come esperienza utile per migliorare la propria qualità di vita e proseguire nel proprio percorso di crescita e di realizzazione.

Cosa ha a che fare la resilienza con l’anziano?

 Innanzitutto, come ebbe a dire il prof. Marcello Cesa-Bianchi, “nessuno vorrebbe invecchiare ma, considerata l’alternativa, tutti ci auguriamo di diventare anziani nel migliore dei modi possibili.” Insomma vorremmo tutti arrivare al termine della nostra vita mantenendo intatte le funzioni cognitive e le abilità che ci consentono di essere autonomi e sereni.

Queste aspirazioni, se da un lato sono ridimensionate dalla realtà, che presenta un rapido aumento di persone affette da demenza senile (nel 2010 erano 35,6 milioni, nel 2030 raggiungeranno i 65,7 milioni, per poi passare a 115,4 milioni nel 2050 – Fonte: World Alzheimer Report 2009, Alzheimer’s Disease International, London), dall’altro possono essere rinforzate dai sempre più numerosi esempi di persone in forma e attive anche in età avanzata. Alcuni studi infatti dimostrano che, a dispetto di coloro che vedono la vecchiaia solo come una stagione in perdita per l’individuo, anche durante questo periodo della vita è possibile apprendere, evolversi e migliorare.

Tra le pagine di romanzi e fiabe, così come nelle immagini di film o spettacoli teatrali, l’anziano, quando non è collegato al senso di solitudine o infelicità, viene presentato in rapporto alla saggezza, legata all’esperienza e al tempo passato. È quindi interessante considerare l’invecchiamento come un processo che consente, per il maggior tempo a disposizione e le numerose conoscenze acquisite,  di essere più autentici e creativi.

Se infatti il tipo di invecchiamento che subiamo è imputabile alle nostre caratteristiche genetiche per il 30%, il restante 70% è attribuibile all’ambiente e allo stile di vita che ciascuno di noi va costruendosi nel corso della propria esistenza.

Per rovesciare la visione puramente negativa della vecchiaia si deve perciò cominciare con il cambiare il concetto di creatività. Non è solo una qualità dell’artista o della persona eccezionale e fuori dagli schemi, ma piuttosto una caratteristica legata alla realtà della vita: un pensiero duttile e flessibile utilizzato in una prospettiva di adattamento all’ambiente.

Questa forma di intelligenza chiamata creatività consente di immaginare, scoprire e affrontare con successo circostanze insolite per le quali le conoscenze e le abilità esistenti e le strategie ordinarie si mostrano inadeguate. La persona anziana, che di esperienze ne ha vissute nel corso della propria esistenza, può avere una panoramica più estesa delle possibilità da sperimentare e quindi possiede un potenziale di creatività non indifferente.

L’anziano resiliente quindi, non va pensato come in una situazione di totale assenza di malattia o difficoltà, ma piuttosto come una persona che, pur in condizione di disagio connesso con il trascorrere del tempo, ha la possibilità e la capacità di adattarsi in maniera positiva alla propria condizione.

Qui si inserisce la storia di Marco: per me un classico esempio di persona resiliente per tutta la vita.

“Sono nato nel 1924 e ho una sorella più piccola. I miei genitori si sono separati quando io avevo tre anni e ci hanno abbandonato: le sole due nonne che avevamo (i nonni erano morti), non potevano tenerci entrambi perché erano povere. Così siamo stati separati e io sono andato a vivere con la nonna materna. Con lei ho vissuto la mia infanzia e ho studiato sino alla terza media: mia nonna non era istruita, ma aveva un cuore grande.

Un giorno mio padre mi ha invitato a Milano dov’era andato a vivere. Ma quando sono arrivato lui si era già trasferito in Germania per lavoro. Così ho vissuto con degli zii e ho trovato lavoro in una fabbrica di turaccioli. Facendo quelli piccoli per le bottigliette utilizzate nelle farmacie, ho conosciuto un farmacista che mi ha dato lavoro presso la sua: preparavo le bustine dei farmaci nel retrobottega. Ma dopo un po’ di tempo ho avuto voglia di andare da mia madre in Sicilia, a Catania. Perché mia madre, anche se mi ha abbandonato, non mi ha mai perso di vista e quando veniva a sapere che ero in difficoltà, mi ha sempre aiutato con un po’ di denaro. Con lei sono rimasto per qualche anno. Una cosa bella della mia vita è che ho sempre trovato qualcuno che aveva fiducia in me. Così anche a Catania sono andato a lavorare in uno studio di avvocati, ma un cancelliere mi ha notato e mi ha inserito negli uffici del tribunale, dove ho lavorato in un sezione per le pratiche di reinserimento nella società dei detenuti che avevano scontato la pena.

Ma la mia vita la vedevo a Padova. Quindi sono tornato. Ho ricevuto la chiamata per la leva, ma dopo l’8 settembre le caserme sono state chiuse e i tedeschi ci hanno caricato sulle tradotte: 40 ragazzi in ogni carro bestiame. Avevamo paura di morire: così, con varie peripezie, siamo saltati dal treno in corsa. Non ci siamo fatti molto male, per fortuna, poiché siamo caduti nelle zone delle risaie di Vercelli. Abbiamo camminato molto senza cibo per sfamarci. Ci siamo ritrovati in tre a chiedere aiuto in una fattoria. Dopo aver capito che non potevamo essere pericolosi, ci hanno fatto dormire nel fienile e poi, al mattino, ci hanno sfamato. Da lì abbiamo camminato sino a Colonia Veneta, dove un macchinista dei treni ci ha dato un passaggio sino a Padova. Qui ho passato i giorni più brutti della mia vita. Sbandato, senza soldi, senza lavoro e senza la tessera per comprare il cibo. Ricordo di essermi seduto sulla riva del fiume, con la testa tra le mani, con il cuore gonfio di tristezza…

Quindi sono ripartito per la Sicilia: mi vergognavo perché non avevo i soldi per il biglietto e dormivo nascosto sotto le panche della terza classe. Sono rimasto da mia madre per un po’, perché ero debole e denutrito, ma sono infine tornato a Padova. Qui ho legato con un gruppo di ambulanti toscani: i toscani mangiano bene e quindi sono stato contento di lavorare con loro. Appena ho avuto quattro soldi mi sono comprato un camioncino e della merce e ho iniziato a lavorare per conto mio. Anche qui devo ringraziare i grossisti che si sono fidati di me e che mi hanno fornito la merce nei primi tempi. Sono stato fortunato: sono stato il primo in Veneto a vendere a prezzi fissi, ma sono soddisfatto del lavoro che ho fatto. Nel frattempo mi sono sposato e ho avuto due figli. A 70 anni, dopo 40 anni di lavoro, sono andato in pensione. Sono contento della mia vita passata e di essermi mantenuto sempre onesto: l’onestà è stato il primo insegnamento che ho ricevuto da mia nonna.”

Questo il racconto di Marco, che ho cercato di condensare: lui, a tratti commosso, è stato molto generoso nel descrivere la sua storia e con lucidità, mi ha riportato episodi che richiederebbero pagine per raccontarli.

Al termine gli ho chiesto cosa ne pensasse della sua attuale vita in istituto. Ha sorriso e mi ha detto: “Sono contento, perché anche qui mi rispettano e mi vogliono bene. Mi hanno eletto il più buono del reparto. Però ci sono cose che non mi piacciono. Mi sembra che ci trattino un po’ troppo come se fossimo tutti uguali. In fondo siamo tutti diversi”.

Resiliente è colui che guarda alle avversità passate, per ricavarne lezioni utili per migliorare le proprie attuali strategie per far fronte alla quotidianità. Resiliente è colui il quale è disposto a uscire dalla propria zona di confort per sviluppare una maggiore tolleranza alle frustrazioni. Resiliente è chi pensa valga sempre la pena di vivere da protagonisti, piuttosto che da spettatori cauti e prudenti.

In definitiva la resilienza è la capacità di una persona di gestire le circostanze avverse della vita, superandole e imparando da esse.

Ma alcuni studiosi fra i componenti individuali che dispongono alla resilienza, riportano il temperamento mite e un’intelligenza al di sopra della media; altri hanno osservato che anche la spiritualità, le solide basi morali, l’ottimismo, la creatività e l’umorismo sono fattori in grado di attivare la resilienza. A questi possiamo aggiungere anche la capacità di imparare a invecchiare, accettarsi anche canuti, calvi, rugosi, malati e anche poco rispettati e isolati: tutto questo può offrire certamente all’individuo non solo la forza di procedere lungo i sentieri  dell’invecchiamento, ma può dargli l’opportunità di considerare questo periodo in modo sereno, come un momento legittimo della propria esistenza e  una tappa della vita di cui bisogna essere comunque contenti per esserci arrivati.


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