di Nelli-Elena Vanzan Marchini*
Nell’Alto Medioevo i linguaggi della salute, oltre ad avvalersi dei tradizionali e specialistici saperi medico e chirurgico, appannaggio dei professionisti della cura, furono caratterizzati da una letteratura divulgativa indirizzata a sovrani e potenti per fornire loro indicazioni sui regimi di vita che ne tutelassero la salute. Queste raccolte di precetti, di ispirazione classica e araba, avevano trovato la loro più sistematica formulazione nella Scuola Medica Salernitana che, già rinomata nell’alto medioevo, assurse alla piena dignità scientifica nell’ XI e XII secolo.
Da Salerno, sede di transito delle culture mediterranee e porta verso l’Oriente, queste conoscenze si diffusero in Occidente e trovarono il loro più noto commentatore nel medico spagnolo Arnaldo da Villanova (1240-1312) che dedicò il suo “Regimen sanitatis” a Giacomo II d’Aragona.
Si trattava di sintetici e incisivi consigli, facili da memorizzare, alieni dalle pedanterie scolastiche e lontani dalle suggestioni magico-astrologiche, poiché si fondavano sul rispetto e sulla conoscenza empirica della natura. Inizialmente indirizzati ai potenti, si rivolsero, poi, ai medici, ripromettendosi di completarne la professionalità, l’esperienza e la conoscenza teorica con indicazioni pratiche di igiene e di medicina preventiva. Contenevano precetti di dietetica e suggerimenti per una vita quieta in armonia con gli uomini e in consonanza con l’ambiente, utilizzavano perciò anche la conoscenza delle stagioni e delle età della vita. Analoghe finalità divulgative del “Regimen sanitatis”aveva il “Flos medicinae” cioè il fior fiore delle conoscenze mediche sintetizzate per essere calate nella vita quotidiana. Questi consigli, articolati in numerosi aforismi di vivace immediatezza, divennero proverbi ed entrarono a far parte della saggezza popolare, cui, del resto, non erano estranei. Per questo motivo la loro attribuzione ad un solo autore è impossibile. La malattia era percepita come uno squilibrio e la cura era l’azione che ripristinava l’armonia degli umori con la dieta, il movimento, le risorse naturali, il salasso.
Le indicazioni fondamentali per preservare la salute consistevano nel vivere senza adirarsi, nel bere e mangiare con misura, fare movimento dopo il pasto, evitando il sonno. Si riteneva dannoso trattenere l’urina o le feci e si indicavano tre medici: la mente lieta, il riposo e la moderata dieta.
Su richiesta di Beatrice di Savoia, moglie del conte di Provenza, il suo medico Aldobrandino da Siena le dedicò, intorno al 1256, il “Régime du corps” o “Livre de physique”, in lingua d’oc, in cui le fornì indicazioni di igiene generale, consigli per la salute dei singoli organi, informazioni di dietetica e culinaria, rudimenti di fisiognomica.
Fra ‘300 e ‘400 ebbero particolare fortuna i “Tacuina Sanitatis”, di più chiara ispirazione araba, che fondarono la salute e la cura in gran parte sulla conoscenza botanica per utilizzarne le risorse terapeutiche. Ebbero grande fortuna e circolarono nelle corti europee copie manoscritte pregevolmente miniate, infatti sarebbe stato impossibile far riconoscere senza rappresentarli, ortaggi, frutta ed erbe.
(immagini: 1 porri, 2 zucche, 3 spinaci)
Questi pregevoli codici descrivevano anche pregi e danni di pratiche come il coito, la caccia, il cavalcare, il tipo di abbigliamento; esaminavano le proprietà dei cibi dalle verdure alle frutta, dai fiori alla pasta, indicavano i tipi di acqua… ma anche le qualità di medicinali come la Teriaca. Insomma, nei ritmi lenti e ripetitivi del quotidiano, individuavano i fondamenti della salute e le modalità per prevenire le malattie.
La medicina ippocratico-galenico, ereditata dal mondo classico e arricchita da quello arabo, definiva i suoi precetti per preservare la salute: il primo era la qualità dell’aria indispensabile alla vita perché raffreddava il cuore mediante la respirazione, il secondo consisteva nel corretto impiego del cibo e delle bevande, il terzo prescriveva l’equilibrio fra il moto e la quiete, il quarto l’armonico alternarsi del sonno alla veglia, il quinto riguardava la regolata eliminazione degli umori, il sesto il controllo dei sentimenti, della gioia e dell’ira, del timore e delle angustie. Il medico consigliava i cibi animali e vegetali da consumare e la loro corretta preparazione, ma anche la gestione della sessualità, la qualità delle vesti in lana o in lino da indossare, insomma il modo migliore di vivere le stagioni dell’anno e le età della vita.
(immagine 5 e 6) , le abluzioni e i bagni caldi o freddi da praticare
“Tacuina”, “Regimina” e “Consilia” ebbero grande fortuna e nel XV secolo furono tradotti in volgare. Questa letteratura medica si rivolgeva con linguaggi accessibili ad interlocutori che erano considerati soggetti colti e privilegiati da istruire nella scelta consapevole di un percorso individuale per tutelare la salute con pratiche quotidiane. La malattia si poteva evitare mantenendo in armonia gli umori (caldo, freddo, secco e umido) e la morte corrispondeva alla destrutturazione di tali equilibri e al passaggio ad una nuova vita attraverso rituali familiari e collettivi di distacco dalla terra e di elaborazione del lutto.
A partire dal 1348, con l’arrivo della peste in Occidente, i parametri interpretativi della malattia e della morte dovettero adeguarsi alla nuova realtà epidemica e anche i linguaggi della salute si modificarono cambiando modelli di comunicazione. Non bastavano più consigli medici o generiche indicazioni per vivere bene e a lungo. Contro la peste, in mancanza di specifici ed efficaci rimedi, la risposta all’aggressione epidemica avrebbe dovuto essere collettiva per impedirle di entrare nelle città e negli Stati estinguendone la popolazione. La adozione di nuovi parametri interpretativi della malattia e di nuovi modelli comportamentali richiese dunque, oltre a leggi sanitarie, anche nuovi linguaggi e nuovi modelli culturali.
*Docente – Scrittrice