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La buona morte, andarsene in braccio alle Grazie: oggi si può?

di Silvia Losego*

Parlare di “fine vita” e di “buona morte” al giorno d’oggi non è affatto facile. Il paradosso di quest’epoca è da un lato aver affidato  agli ospedali la nostra nascita e la nostra morte e avere una cultura che ci spinge, nel privato delle famiglie, a tenere nascosto ai bambini quest’ultimo aspetto della vita, che riguarda allo stesso modo, democraticamente, ogni essere umano sin dall’inizio; dall’altro è la spettacolarizzazione della morte pubblica, sbattuta in ogni occasione in prima pagina ed esibita nel palcoscenico dei media e delle televisioni.

Si tratta di un argomento che può essere trattato da molteplici angolazioni e può far sorgere infinite riflessioni: dagli aspetti etici a quelli religiosi, dall’aspetto sanitario a quello psicologico e via dicendo.

Il 16 gennaio scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il testo della nuova legge approvata sul biotestamento: legge 22 dicembre 2017, n. 219 intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Una norma che prevede un nuovo patto tra medico e paziente per quello che riguarda le decisioni da attuare alla fine della vita, per  poter interrompere o continuare i trattamenti terapeutici e  poter ricorrere alle cosiddette  cure palliative.

Ma che cos’è la terapia del dolore e in cosa si differenzia dalle cure palliative?

La terapia del dolore è il presupposto per iniziare un percorso di cure palliative. Senza l’eliminazione del dolore non vi sono le cure palliative. E queste ultime sono i trattamenti che permettono di tenere sotto controllo i sintomi. In Italia la società per le cure palliative nasce nel 1986: origina dalla intuizione di alcuni medici che la buona medicina è quella che cura quando può curare, ma quando non può curare, accompagna la persona, controlla i sintomi, si prende cura degli aspetti psicologici, aiuta l’individuo a prendere le decisioni per l’ultimo periodo della sua vita. Palliativo non ha realmente il significato di “coprire” (dal latino pallium : mantello che copre) e quindi da considerare inutile. Il termine palliativo è utilizzato come nel mondo anglosassone, dove esiste la “Palliative care”, che non ha un significato squalificante, come in italiano, ma piuttosto ha il ruolo di restituire la dignità della persona anche a colui che raggiunge la fine del suo percorso di vita.

Ma qual è il contenuto della nuova legge sul biotestamento?

 Il testo prevede che, nel rispetto della Costituzione, nessun trattamento sanitario possa essere iniziato o proseguito senza il consenso libero e informato della persona interessata. Viene quindi messa in primo piano e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, un rapporto che poggia le sue fondamenta sul “consenso informato”. Solo in seguito e se il paziente lo desidera, nella relazione di cura vengono coinvolti anche i suoi familiari.

Inoltre parla di disposizioni anticipate di trattamento: ogni persona maggiorenne, capace di intendere e volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di esprimersi e decidere autonomamente, può comunicare le proprie convinzioni e preferenze nei trattamenti sanitari, e dare il consenso o meno rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, anche riguardo alle pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Le disposizioni, che possono essere revocate, sono vincolanti per il medico che quindi sarà, nel caso, esente da responsabilità civile o penale.

Sarà quindi possibile per tutti noi una “buona morte”?

 Qualche mese fa ho partecipato alla presentazione del libro “Morire in braccio alle Grazie” del prof. Sandro Spinsanti, teologo e psicologo, esperto di bioetica. Nell’incontro il professore ha dato in modo chiaro ed esaustivo alcune risposte a questo quesito, trattando della morte con profondità, ma leggerezza: parafrasando il titolo del suo libro, con grazia.

Superando le classiche definizioni di morte “degna”, “dignitosa”, “umana”, “naturale”, per cercare di allontanarsi dall’idea di una morte disumana, il prof. Spinsanti ha lanciato una provocazione, definendo una “morte graziosa” o “in braccio alle Grazie”.

La spiegazione viene dagli scritti del Foscolo, che definì il territorio delle Grazie, non quello di qualsiasi esperienza umana, ma piuttosto un luogo isolato o delimitato da due esperienze estreme, dove le Grazie non sono presenti: uno è il “profondo dolore” e l’altro è la “smodata gaiezza”. Due esperienze umane che non possono essere catalogate come esperienze graziose.

Per parlare di “profondo dolore” ci vengono facilmente in aiuto i dati relativi all’applicazione della terapia del dolore in Italia: nell’ultimo mese di vita il trattamento con gli oppiacei viene fatto solo al 47% dei pazienti. Quindi un paziente su 2 non riceve quel trattamento che secondo i criteri attuali della buona medicina, può essere fatto, nonostante nel 2010 sia stata approvata la legge 38 che dichiara che tutti i cittadini hanno il diritto alla terapia del dolore e alle cure palliative.

Ma come si può correlare la morte con la “smodata gaiezza”? Basti pensare a tutte le persone che si tuffano nella morte con ebbrezza, come ad esempio i giovani che si dedicano agli sport estremi, che sfidano quotidianamente la morte.

Cosa significa “morire in braccio alle Grazie”? E chi sono le Grazie?

 La risposta sta proprio nella natura dei tre personaggi della mitologia greca.

Eufrosine è la saggezza, il buon equilibrio. Il medico deve impegnarsi  a ricercare cos’è meglio per il paziente: l’equilibrio è tra quello che la medicina può fare dal punto di vista terapeutico e quello che invece può fare dal punto di vista palliativo. Il modello non deve essere quello di fare sempre di più, ma la grande sfida deve essere quella di sapere quando fermarsi. E fermarsi non significa non fare più niente, ma è cambiare passo, fare cose diverse. Inizialmente lo slogan delle cure palliative in Italia era “quando non c’è più niente da fare, c’è molto da fare”: ma fare cose diverse.

Ad aiutarci ancora alcuni dati: la chemioterapia nell’ultimo mese di vita viene fatta nel 18% dei malati. Questo è sinonimo di un buon morire? Fare di più non significa sempre fare meglio. Quindi questo equilibrio tra il fare di più e il fare cose diverse è la saggezza, il dono di Eufrosine.

Aglaia, la seconda Grazia, è la serenità. Uno delle cose che può darci serenità è sapere che c’è chi decide per noi se noi non possiamo. Se la nostra volontà viene rispettata e se possiamo dichiarare in anticipo quello che vogliamo e quello che non vogliamo, questo sarà un grande passo avanti. A volte le decisioni vengono lasciate in mano a persone che ci vogliono troppo bene e non vogliono lasciarci andare: ma ci sono condizioni della sopravvivenza che sono in contrasto con la nostra concezione di vita, condizioni che noi non vorremmo subire.

Talia infine è la maturazione, il compimento, il senso di una vita compiuta: morire sazi di giorni, la misura completa, senza l’avidità di aggiungere vita ai giorni.

Secondo il professor Spinsanti, la differenza tra morire bene e morire male è invidiare o no agli altri la vita: se puoi accettare che la vita continui anche dopo di te, e che gli altri ne possano beneficiare, sei maturo per andartene.

Sarà quindi importante sapere che saremo accompagnati durante questo ultimo percorso da professionisti rispettosi che si saranno preoccupati di sapere prima ciò che è meglio per noi e che sapranno tagliarci addosso la morte come un abito su misura e non uguale per tutti: le decisioni dovranno perciò rispettare la misura individuale, che non significa uguale per tutti, ma dovrà essere una misura di saggezza. Solo così potremo sperare in una morte “graziosa”.

È chiaro che la nostra sarà comunque una morte anche in braccio alla medicina: ma il come e il dove e il quanto delle cure dipenderanno dalle decisioni prese con noi o su di noi. E sarà questa una variabile fondamentale.

Ma allora che cos’è l’accanimento terapeutico? Dove ci si deve fermare? Dove la medicina esagera?

 Che i tempi stiano cambiando, lo si nota anche dal testo della legge n.219. Non si parla più di  “accanimento terapeutico”, ma si definisce “ostinazione irragionevole”. Il termine accanimento ha sempre avuto un’accezione negativa e si riferiva quasi esclusivamente al medico: era lui ad accanirsi. Generalmente se le cure andavano male si parlava di “accanimento”; se avevano esito positivo, si definiva “medicina eroica”.

Una vicenda conosciuta è quella che ha visto protagonista la famosa scrittrice Susan Sontag: a 80 anni, quando il cancro è ricomparso per la terza volta nella sua vita, per il suo gran desiderio di lottare contro la malattia, ha rifiutato le cure palliative proposte dai medici, pretendendo trattamenti sperimentali giudicati inutili e nocivi per lei. Sappiamo dal racconto del figlio che la sua vita non è terminata in modo sereno, ma che la malattia le ha provocato una morte molto dolorosa. Si è trattato di una “ostinazione irragionevole”.

Questa definizione ci da quindi meglio la misura di quanto non sia solo da parte dei curanti l’accanimento alla terapia, ma piuttosto molto spesso da parte dei pazienti stessi e, purtroppo troppo spesso, da parte dei parenti. Ostinazioni non sempre immuni da certe motivazioni sociali e poco nobili: spesso le ostinazioni hanno padri diversi.

Per questo è necessario parlarsi: la comunicazione da parte dei sanitari deve essere completa e comprensibile e soprattutto deve essere carica di ascolto.

Bugie, menzogne, il dire non dire: dire la verità è difficile? E poi quale verità? Chi la dice?

 Morire è faticoso. Perché devi affrontare i tuoi ricordi, il tuo passato, quello che rimane: “anche quando vai via dallo specchio e accetti che la vita continua a specchiarsi e va avanti, e il cielo è blu”. Per questo è molto importante la chiarezza e la serenità del rapporto medico/paziente. Tutte le interazioni hanno bisogno di regole. Anche la medicina.

Un tempo l’etica professionale del medico imponeva di mentire al paziente, ma di dire la verità ai familiari: delegava quindi al curante la decisione di dare o meno l’informazione al malato, specie quando l’informazione era una sentenza.

Resta famosa la battuta di Woody Allen che afferma che “La frase più bella del mondo non è “Ti amo”, ma è “è benigno”.

Su questo versante recentemente vi è stato un cambiamento delle regole clamoroso: nel 1995 si è stabilito che si deve sempre informare il paziente, se vuole essere informato.

Ma la grande sfida culturale di base resta: far capire che mentire per il bene del paziente è dannoso quanto l’ostinazione informativa. Quante sono le persone che entrano in hospice “sapendo di dover fare riabilitazione”? Quasi tutte. Ed è una menzogna colossale. E proprio per queste ragioni, quante volte le persone hanno il timore di essere ingannate? Non sono queste le condizioni che permettono la consapevolezza e la partecipazione. Laddove le cure palliative sono fatte bene, la cosa che più viene apprezzata è la trasparenza. È duro il problema della comunicazione. Comporta da parte dei familiari e dei medici il condividere notizie infauste, ma è peggio nascondere la realtà con le menzogne.

Nella nuova legge c’è una concetto molto importante e innovativo: l’esplicito diritto di avere una sedazione terminale. Non si tratta di far morire una persona: a volte addirittura si prolunga la vita,  perché il barbiturico che ti toglie l’angoscia, permette all’organismo di vivere con meno stress.

Si tratta di eutanasia? Se si analizza il significato della parola  che deriva dal greco thanatos che vuol dire morte con il suffisso eu che significa bene, allora sì, è la morte bella e tranquilla senza sofferenza e accettata con spirito sereno. Ma aldilà delle parole, la sedazione profonda è solo un’applicazione delle cure palliative.

Importante sarebbe che l’utilizzo della palliazione venisse applicato non solo negli hospice, attualmente luoghi di degenza quasi esclusivamente per i casi oncologici, ma anche nelle RSA, di fatto hospice per anziani, già da tempo esistenti, per le grandi malattie sistemiche dell’area geriatrica. Ma è un passaggio culturale che fa fatica ad avanzare. E poi non tutto dipende dalla cultura, ma anche  dall’inerzia burocratica e organizzativa.

Comunque, più che attraverso le leggi è necessario mettete in atto un dialogo vero, sia con il medico che con il malato, una comunicazione che porti alla trasparente conoscenza della volontà delle persone. Questo è un percorso ideale.

La buona medicina sarà un giorno quella che saprà usare due marce: quella della cura e quella dell’accompagnamento e della presa in carico trasparente.


thumbnail_IMG-0780* Fisioterapista

  • Ugo
    1 Settembre 2018 at 04:37

    Trovo la relazione ricca di conoscenza, di competenza, di profonda umanità. Un piccolo utile vademecum per chicchessia: operatori socio sanitari, familiari, …noi stessi. Brava la dottoressa relatrice.

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