di Maurizio Cerruti
VENEZIA. Che triste la vita del primo astronauta sulla Luna. Il tanto atteso “First man” (primo uomo), presentato ieri alla Mostra del Cinema di Venezia nella giornata di apertura, ci dà un ritratto di Neil Armstrong molto intimo e per nulla epico. Un uomo introverso, poco incline al riso, quasi incapace di esprimere affetto alla moglie e persino restìo a parlare ai suoi due figli ancora ragazzini nel momento decisivo: la vigilia dell’impresa spaziale più di ogni altra destinata a entrare nella storia: “Questo è un piccolo passo di un uomo ma un grande balzo per l’umanità” (ricordate?). L’Armstrong del film sembra trovare sulla Luna, dopo lo sbarco col collega Buzz Aldrin il 20 luglio 1969, ciò che lascia a casa sulla Terra: un deserto immmobile grigio e silente dove i sentimenti sono inespressi, pietrificati da una sorta di incomunicabilità. Forse è proprio questo il bello – o quantomeno l’originale – del film del regista statunitense (di padre francese e madre canadese) David Chazelle, un geniaccio della macchina da presa che a 33 anni ha già accumulato una montagna di riconoscimenti tra cui un Oscar alla regia e due Golden Globe.
EROE TORMENTATO. Ryan Gosling, il protagonista, entra benissimo nei panni dell’astronauta freddo e taciturno; ma anche roso dall’angoscia repressa, ben consapevole di rischiare oltre che la propria pelle anche il futuro dei suoi familiari. Bravissima anche Claire Foy che interpreta la moglie dell’astronauta, Janet: è lei il vero collante della famiglia nella quale la perdita di una bimba in tenera età ha lasciato una ferita insanabile. Mentre l’Astronauta con la A maiuscola trascura il focolare e affronta rischi estremi con fredda determinazione, superando le prove più difficili – il film già dalle prime scene trasmette brividi ad alta tensione – Janet tiene in piedi la casa, cresce i figli e intanto soffre ogni istante delle missioni, incollata al trasmettitore radio della diretta dallo spazio, dove ogni istante può essere quello fatale. Così come sono fatali gli incidenti accaduti negli anni ad altri astronauti, amici e vicini di casa, con le loro famiglie. Né festa né allegria pure al ritorno dal viaggio spaziale più importante che si ricordi: dopo il rientro il vetro della stanza di isolamento impedisce a Neil (in quarantena precauzionale) e a Janet persino di sfiorarsi timidamente con le mani.
UN BEL FILM? Sì, “First man” merita di essere visto. Ammesso che non siate negazionisti, cioè che non pensiate che lo sbarco sulla Luna è stata una finzione della Nasa con la complicità di Hollywood. Malgrado il film sia di due ore e un quarto (senza i tagli di quando andrà nei cinema a fine ottobre) non stanca e non annoia. Non è una “pizza” insomma. Ma se qualcuno si aspetta una storia di eroi tutti d’un pezzo, di uomini duri senza paura, ha sbagliato indirizzo. E se decidete di portare i bambini a vederlo, credo che nessuno di loro vi dirà più “da grande voglio fare l’astronauta”.
CUCCHI E KHMER. Per il pubblico “impegnato” sempre ieri la Mostra del Lido ha presentato “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini: una ricostruzione del caso di Stefano Cucchi morto in detenzione in circostanze controverse dopo l’arresto per spaccio di droga. La vicenda giudiziaria per morte a seguito di sevizie e per conseguenti manovre di insabbiamento, dopo 9 anni è ancora aperta. L’interprete Stefano Borghi in conferenza stampa ha detto di aver fatto una cura dimagrante da cavallo per entrare nel personaggio. Altro film impegnato, proiettato ieri, è “Le tombe senza nome” di Rithy Pahn (in francese e lingua khmer): un ragazzo cambogiano indaga sul destino dei propri genitori scomparsi sotto il regime dei khmer rossi.
OMAGGIO ALLA DIVA. Vanessa Redgrave, che ieri ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera, è una signora inglese dolce ma per nulla tenera. In conferenza stampa ha raccontato di aver vissuto l’esperienza di esule durante la seconda guerra mondiale, quando con migliaia di altre bambine e bambini venne trasferita in campagna, lontano dai genitori, per sottrarsi ai bombardamenti tedeschi e al rischio di invasione nazista. Secondo lei la politica anti-immigrazione di molti governi (il riferimento anche all’Italia non sembra affatto casuale) dipende dal fatto che “i politici hanno perso il senso della realtà”.
E a chi le ricordava che lei rifiutò un’onorificenza della regina Elisabetta, ha precisato: “Non ho nulla contro i reali inglesi, che anzi fanno cose molto buone. Però quel riconoscimento non veniva dalla regina, ma dal primo ministro Tony Blair che aveva deciso di fare la guerra in Iraq. Per questo non lo volli”.
Nella foto in alto giovani a caccia di autografi davanti al Palazzo del Cinema
*Giornalista