di Carlotta Fassina*
Un macchia di rosso che sembra piazzarsi dritta di fronte a noi, un corpicino ora tondo e ora magro a seconda dell’arruffamento delle sue penne, due occhietti grandi e tuttavia penetranti come spilli: è questo il pettirosso, l’uccellino forse più amato e conosciuto da tutti noi.
È già arrivato nelle nostre città e in queste calde giornate autunnali riempie l’aria della sua melodia canora.
Da dove è venuto, visto che prima non c’era? Anche lui ha compiuto molti chilometri per giungere fino a noi, secondo l’affascinante, ciclica e in parte ancora misteriosa impresa della migrazione, nella quale molti uccelli, ma anche farfalle, tartarughe marine, megattere e altri animali, si cimentano in tempi e modi diversi e indipendentemente dalla loro mole.
La migrazione degli uccelli è molto complessa perché regolata da fattori con differenti influenze nelle diverse specie. Tra questi ci sono basi genetiche che ne condizionano tempi, modificazioni fisiologiche e comportamentali, “sensori” fisici in grado di captare le variazioni della durata del giorno e quindi di stimolare la partenza, componenti legate all’istinto e quindi sempre a una matrice genetica e infine l’apprendimento delle rotte derivante dall’esperienza dei genitori, dello stormo o individuale.
Lo spostamento ciclico dalle zone riproduttive verso aree più favorevoli allo svernamento (non necessariamente poste molto più a sud) è determinato non tanto dal freddo, come si potrebbe pensare, quanto piuttosto dalla scarsità di risorse alimentari che esso produce per diverse specie.
Il pettirosso è in parte un uccello sedentario, in parte un migratore che abbandona le latitudini e altitudini maggiori per portarsi nelle nostre zone e ancora più a sud. È sedentario e residente sulle nostre colline, lungo le più miti pendici montane o a minori latitudini e in alcuni luoghi della pianura, purché si tratti di ambienti ricchi d’insetti nel periodo di nidificazione e di bacche e altri frutti durante altri periodi dell’anno.
Quando migra preferisce muoversi in solitaria e di notte, come molti altri piccoli volatori che così sfuggono meglio ai loro predatori abituali. Anche quando l’orientamento basato sulla variazione della posizione del sole non è possibile, il pettirosso può far affidamento al campo magnetico terrestre. Alcuni studi, condotti proprio su di lui, hanno individuato una proteina del gruppo dei criptocromi, la Cry4, presente nella retina, come probabile sensore del campo magnetico terrestre. I criptocromi, che troviamo anche negli insetti, nei mammiferi e persino nelle piante, erano già noti come proteine in grado di regolare il ritmo circadiano, ovvero il ciclo diurno delle funzionalità fisiologiche. Lo studio del loro funzionamento nell’uomo e dell’invio dei loro segnali alla parte del cervello chiamata nucleo soprachiasmatico ha valso ai ricercatori Jeffrey Hall, Micheal Rosbash e Micheal Young il premio Nobel per la Medicina del 2017.
Ebbene la Cry4 agirebbe in una parte molto illuminata della retina del pettirosso, dove per azione di meccanismi della fisica quantistica che riguardano la variazione della posizione degli elettroni atomici in seguito all’esposizione alle radiazioni blu, si comporterebbe come bussola interna. Anche se la migrazione del pettirosso è prevalentemente notturna, le sue soste di foraggiamento diurne calibrerebbero la bussola interna, in modo da consentirgli di tornare fedelmente al suo sito di svernamento, sia esso una foresta planiziale o il nostro giardino di casa.
Raro e localizzato come nidificante nella nostra pianura veneta, possiamo goderci la sua simpatica e a volte quasi impavida presenza durante la stagione avversa.
Il momento del suo arrivo, che avviene a partire dalla seconda metà di settembre, sfugge spesso alla nostra attenzione, nonostante nelle belle giornate di sole il pettirosso dispieghi il suo delicato e caratteristico canto territoriale. Fatto particolarmente insolito è che a cantare in autunno siano anche le femmine, già per nulla riconoscibili dai maschi nella loro livrea.
La confidenza nei confronti dell’uomo, e quindi la facilità di notarlo, pare aumentare con l’arrivo del vero freddo, quando accetterà di buon grado di essere foraggiato nelle nostre mangiatoie con pezzetti di frutta fresca o candita, briciole di dolci e pastoncini specifici per uccellini. Ci aspettano insomma alcuni mesi di felice convivenza e poi il pettirosso se ne andrà in punta d’ali, senza preavviso. Intanto bentornato pettirosso!
O pettirosso, canta,
che è nel canto il segreto dell’eternità!
Avrei voluto essere come sei tu,
libero da prigioni e catene..
Avrei voluto essere come sei tu…
anima che si libra sulle valli
libando la luce come vino da ineffabili coppe.
Avrei voluto essere come sei tu,
innocente, pago e felice,
ignaro del futuro e immemore del passato…
Avrei voluto essere come sei tu,
per la tua bellezza, la tua leggiadria
e la tua eleganza,
con le ali asperse della rugiada
che regala il vento
Avrei voluto essere come sei tu,
un pensiero che fluttua sopra la terra
ed effondere i miei canti
tra la foresta e il cielo…
O pettirosso, canta,
dissipa l’ansia ch’io sento!
Io odo la voce che è dentro la tua voce
e sussurra al mio orecchio segreto.
Khalil Gibran.
*Naturalista