di Carlotta Fassina*
Erano quasi le 15 di giovedì 8 novembre, quando ho riconosciuto da lontano l’inconfondibile verso di uno stormo di gru, il primo, per me, in volo sopra Padova quest’autunno. Sapevo che stavano arrivando, ma temevo di perdermi il loro battito ritmico sopra strade, case, tralicci. E invece no, il mio primo stormo era composto da una cinquantina di esemplari in formazione a V, che si tenevano in contatto con il tipico verso metallico.
Il passaggio inaspettato di uno stormo di gru in città è, per me, una sensazione forte, di quelle che mi fanno balzare il cuore a mille. È una sensazione di gioia irrefrenabile e di timore nello stesso tempo, gioia per la riscoperta di una presenza amata e familiare, timore per le difficoltà di un viaggio che attraversa ambienti in cui l’uomo è la principale insidia. Vedere queste aggraziate sagome allo scoperto e non tra le braccia protettive della nebbia e della notte mi fa ogni volta temere per il loro destino.
Le stavo aspettando, a ottobre erano ammassate in Germania, in Ungheria, in Polonia, pronte al segnale del via, probabilmente ritardato dal perdurare del caldo.
Alcune di loro seguiranno la rotta della Spagna per svernare lì o proseguire fino all’Africa occidentale; altre invece si sposteranno lungo le coste del Mediterraneo orientale e arriveranno fino all’Africa di levante. Saranno il freddo e le condizioni meteorologiche a condizionare il loro spostamento. La rotta italiana le porta a sostare tra le valli allagate e i campi coltivati del Delta del Po, nelle paludi toscane e laziali, in Sicilia, in Sardegna e qua e là nelle ormai rare zone umide e nei prati dove le gru, oltre al cibo, cercano un po’ di tranquillità. Tranquillità, per modo di dire: quando non ci si mettono il disturbo venatorio, la frequentazione turistica e le attività agricole, a renderle inquiete sono pure certi sfacciati fotografi.
Il monselicense Ettore Arrigoni degli Oddi, nel suo Atlante ornitologico pubblicato nel 1902, dà l’idea che le gru non si sentissero tranquille nemmeno nella sua epoca, dal momento che volavano alte e fermandosi di rado, molto probabilmente perché venivano prese a fucilate senza tanti scrupoli, per farne oggetti da collezione. Racconta anche del fatto che le ultime nidificazioni della specie avvenivano nelle paludi di Caorle, fatto che perdurò fino al 1920 e che oggi non sarebbe più ripetibile a causa della totale trasformazione dell’ambiente paludoso idoneo alla specie. Scriveva appunto: “In Italia è uccello soprattutto di passo, anzi si può dire che di semplice transito, perché i branchi sorvolano a grandi altezze, abbassandosi raramente; qualcuna sverna specialmente nella Maremma Toscana, nelle province meridionali ed in Sardegna e nidifica ancora nel Veneto nelle grandi paludi di Caorle”.
Portogruaro, con le sue antiche paludi, fu, del resto, un altro vicino e importante sito di nidificazione, il porto delle gru infatti.
Curiosa è la leggenda della fine del poeta Ibico, vissuto nel VI secolo a.C. e originario di Reggio Calabria. Anche allora era tempo di migrazione di gru e proprio a uno stormo di questi uccelli il poeta si rivolse per chiedere vendetta di quei ladri che lo stavano uccidendo. Sarebbe stata proprio la paura suscitata dal “ritorno” delle gru di Ibico a svelare e a condannare a morte i suoi assassini.
Le rotte sopra la Grecia sono evidentemente antichissime, come testimonia lo stesso Esiodo. Nella sua Le opere e i giorni, scritta nell’VIII secolo a.C, collega il passaggio dei migratori al momento dell’aratura dei campi:
«Sta’ attento, quando senti la voce della gru
che dall’alto delle nubi fa echeggiare ogni anno il suo grido:
essa reca il segnale dell’aratura e annunzia il tempo
dell’inverno piovoso» .
Dioscoride, botanico e farmacista greco del I secolo d.C., chiamò geranio quel particolare fiore il cui frutto ricorda proprio la testa della gru, la ghéranosdei Greci antichi.
Sicuramente i contingenti di gru sono profondamente diminuiti rispetto a quelli che gli antichi Greci e gli italici abitanti potevano vedere. È ormai raro pertanto trovare persone in grado di riconoscere autonomamente questi non certo piccoli uccelli dal loro verso e dalla loro silhouette.
Se vogliamo preservare l’atavica memoria e la bellezza del volo e delle danze delle gru, fondamentale è oggi salvaguardare le loro irrinunciabili aree di nidificazione e svernamento.
E io intanto, continuo a restare in attesa del prossimo stormo.
Foto Giulio Piras
*Naturalista