di Stefano Chiaramonte*
L’aumento di peso fa salire la pressione arteriosa e questo si traduce in un conseguente aumento del rischio cardiovascolare e della mortalità generale.
Questa affermazione così perentoria è ampiamente suffragata dai risultati dello Studio di Framingham nel quale i partecipanti sono stati seguiti per ben 44 anni. L’aumento del peso è implicato in oltre il 25% dei casi di ipertensione e nel 23% dei casi di malattia coronarica nei maschi e nel 15% nelle femmine.
Per chiarezza, quando parliamo del peso dobbiamo fare riferimento ad un unico parametro il BMI, body mass index (Indice di massa corporea) che si calcola con una semplice formula, dividendo il peso (in Kg) per l’altezza elevata al quadrato (in metri). Un valore di BMI fra 25 e 29.9 identifica una condizione di sovrappeso, oltre 30 l’obesità di grado moderato e oltre 35 quella di grado severo. L’effetto sulla pressione si manifesta comunque, seppur in misura proporzionale al valore di BMI.
L’aumento del peso fa salire la pressione in vari modi.
Nelle fasi iniziali aumenta la gittata cardiaca, l’effetto pompa del cuore, cioè la quantità di sangue espulsa per ogni contrazione ventricolare (“Povero cuore…” cantava Claudio Villa) e, in un secondo tempo, aumentano anche le resistenze periferiche cioè la resistenza opposta al flusso del sangue da parte della contrazione delle piccole arterie.
La situazione è paragonabile al sistema di distribuzione dell’acqua in una casa. Se si fa un ampliamento strutturale (magari un abuso edilizio…) prima si deve aumentare la portata della pompa e poi aumentare anche la pressione all’interno dell’impianto.
Un’altra condizione predisponente è rappresentata dalla sindrome delle apnee notturne, patologia frequente nei soggetti obesi. Questa è una condizione caratterizzata da pause nella respirazione durante il sonno, dovute all’ostruzione parziale o totale delle prime vie aeree, causata in parte dalla riduzione dei muscoli faringei che mantengono pervie le vie aeree superiori durante il sonno ed in parte dall’eccesso di tessuto adiposo con precoce affaticamento dei muscoli della gabbia toracica e del diaframma. L’interruzione temporanea della respirazione provoca una riduzione della concentrazione di ossigeno nel sangue che attiva il sistema nervoso simpatico e genera uno stato infiammatorio cronico.
Un altro possibile meccanismo è costituito dalla secrezione, da parte del tessuto adiposo, di Leptina, una proteina che altera a livello cerebrale il senso della fame e di altri mediatori bioumorali dell’infiammazione che sostengono un’aumentata attività del sistema nervoso simpatico. In queste condizioni il tessuto adiposo si comporta come un vero e proprio organo endocrino che libera vari componenti chimici dotati di effetti ormonali, nella maggior parte dei casi, patologici.
Qualunque sia il meccanismo in gioco, come per una qualsiasi operazione di matematica, esiste la cosiddetta “controprova”: la perdita di peso può portare ad una significativa riduzione dei valori pressori. Si può quantificare approssimativamente una caduta della pressione di almeno 6 mmHg per ogni 4 Kg di perdita di peso corporeo.
Questo vale quando il dimagramento è rapido e secondario ad una patologia, ma anche quando è il risultato di una rigida dieta dimagrante. L’importante è perdere peso!
I cosiddetti “farmaci dimagranti” usati per il trattamento dell’obesità, fra cui Sobutramina (ritirata dal commercio in Italia) e Orlistat (prodotto da banco), possono ridurre la pressione. L’effetto è comunque modesto ed il loro uso non è raccomandato a causa degli importanti effetti collaterali.
Anche la chirurgia bariatrica, associata alle modificazioni dello stile di vita, può portare ad una riduzione della pressione. Purtroppo, molte persone dopo la fase acuta del dimagramento recuperano i kilogrammi persi in poco tempo sia per possibili problemi di ordine ormonale sia per mancata aderenza al cambiamento dello stile di vita.
Questo è il nocciolo della questione: il benedetto stile di vita!! Non basta perdere peso ma bisogna mantenerlo stabilmente basso nel tempo. Gli effetti a lungo termine sono assolutamente positivi: una significativa e persistente riduzione dei valori pressori al punto che il dosaggio dei farmaci antiipertensivi può essere nettamente ridotto, un minor rischio di sviluppare peggioramento dell’ipertensione ed un progressivo miglioramento della qualità della parete delle arterie comprovato dalla riduzione degli indici di rigidità vascolare.
Contemporaneamente, l’aumento dell’attività fisica e la riduzione dell’apporto di sale rappresentano le altre pressanti raccomandazioni per ottenere i migliori risultati.
La bilancia entra quindi a buon diritto fra gli strumenti della terapia dell’ipertensione. In tutte le Lineeguida il primo stadio nell’approccio al paziente iperteso è rappresentato dalla riduzione del peso. Il vero problema è convincere il paziente che non si tratta di un capriccio o di una moda ma della necessità di normalizzare la situazione per poter poi ottenere migliori risultati con la terapia medica.
Ne vale la pena!
* Nefrologo – Coordinatore del Programma di Prevenzione del Rischio Cardiovascolare – Casa di Cura Villa Berica – Vicenza