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Gelatine luminescenti: gli ctenofori, vecchi e nuovi abitanti dell’Adriatico

di Carlotta Fassina*

Passeggiando in questi giorni lungo qualche spiaggia di Chioggia, prestando attenzione alle concentrazioni di gabbiani reali sulla battigia, potreste incappare anche voi in alcune “gocce” misteriose, trasparenti e gelatinose, della grandezza di poco più di 1 centimetro. I gabbiani sono lì perché le mangiano. Si tratta di piccoli animali marini morti e spiaggiati, appartenenti al Phylum degli ctenofori (Phylum è un raggruppamento zoologico di livello inferiore al regno). L’identificazione precisa della specie che ho trovato è opera da specialisti, difficile comunque su esemplari spiaggiati e rovinati dal moto ondoso e dal tempo.

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Gli ctenofori sono confusi con le meduse per via del corpo gelatinoso, ma sono tutt’altra cosa e, rispetto a queste, non hanno cellule urticanti, quindi sono innocui per l’uomo.

Il loro nome significa letteralmente “portatori di pettini” perché hanno fila di ciglia disposte come in un pettine, lungo otto meridiane che congiungono la parte sommitale con quella inferiore, dove è posta la bocca. Questi piccoli peli servono per la locomozione attiva nell’acqua. Gli ctenofori hanno un aspetto per lo più tondeggiante, ma alcune specie, come “il cinto di Venere”, Cestus veneris, sono nastriformi. Vivono solitamente nelle acque prossime alle coste, generalmente superficiali, ma alcune specie anche in acque profonde.

Sono degli affascinanti organismi marini, oggi più noti d’un tempo nell’alto Adriatico a causa della proliferazione vistosa di una specie “aliena” di cui parleremo in seguito. Non c’è però solo quella, in Mediterraneo ce ne sono altre, forse in passato un po’ trascurate persino dai biologi, perché difficili da identificare e con individui poco diffusi.

Non è per nulla semplice osservare uno ctenoforo vivo, il cui corpo gelatinoso si perde tra le increspature e i riflessi delle onde del mare. Da molto vicino, o meglio in acquario, si possono notare dei bagliori di colore che ne percorrono le ciglia e che sono originati o dalla rifrazione della luce sulle ciglia stesse o da vera e propria bioluminescenza. Vederlo al buio, quando c’è bioluminescenza, lascia mozzafiato: sembra una creatura spaziale.

Alcune specie catturano le loro prede, costituite da plancton, piccoli pesci o altri ctenofori, con le ciglia o inglobandole in una sorta di sacco entro il quale c’è l’apertura orale, altre invece con dei tentacoli appiccicosi che vengono ritratti verso la bocca quando cosparsi di prede.

La specie che in questi due o tre anni ha intensificato in modo esplosivo la sua presenza lungo le coste dell’Adriatico è la Mnemiopsis leidyi, detta noce di mare, per la quale è in corso un progetto di monitoraggio europeo dal nome di MEMO. Raggiunge i 7-10 cm di lunghezza. È giunta addirittura fino al Mar Baltico e non sembra volersi arrestare.

Da noi è arrivata probabilmente con le acque di zavorra delle petroliere: dall’Oceano Atlantico, vicino al Nord America, fino al Mar Nero e da lì al Mar Caspio e infine al Mediterraneo, dove per un po’ di tempo non ha fatto molto parlare di sé. In Mar Nero ha saputo presto imporsi grazie alla sua grande adattabilità a variazioni di temperatura e salinità delle acque. In quel mare, già afflitto dalla sovrapesca, per diversi anni dopo il suo arrivo, la specie si è riprodotta senza precedenti e ha messo in crisi lo sviluppo di uova e avannotti dei pesci che ha incontrato, di cui si è cibata in grandi quantità, assieme allo zooplancton, a sua volta ridotto fino all’80%. Poi però ha dovuto fare i conti con un nuovo conquistatore, uno ctenoforo predatore di altri ctenofori della specie Beroe ovata. L’iniziale esplosione demografica della “noce di mare” in Mar Nero e Mar Caspio si è allora molto ridimensionata, ma da 2-3 anni sembra avere un comportamento simile nell’Alto Adriatico, tanto che alcuni scienziati hanno proposto di introdurre anche qui il suo predatore Beroe ovata, comunque già arrivato nel Golfo di Trieste. Non sappiamo se questa sia una strada valida o se alla lunga essa potrebbe creare ulteriori squilibri ai già fragili ecosistemi del Mediterraneo. Intanto Mnemiopsis leidyi sta creando qualche guaio alle reti da pesca e si fa ritrovare spesso spiaggiata nell’area del Delta del Po.

La noce di mare, l’ ennesimo “invasore”, è un po’ l’emblema di come ci accorgiamo delle cose naturali solo nel momento in cui diventano fenomeno non quando sono ordinarie. Siamo poi soprattutto noi a favorire la diffusione di ormai moltissime specie al di fuori dei loro areali, con una velocità impensabile per i normali ritmi naturali e con effetti difficili da prevedere.

Passeggiare sulla spiaggia con la voglia di osservare e il desiderio di apprendere, può comunque far scoprire infiniti e affascinanti mondi, decisamente oltre l’ordinario e l’immaginazione.

Per bellissimi video:

http://planktonchronicles.org/fr/episode/ctenophores-orgie-de-couleurs/


carlotta-fassina*Naturalista

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