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Congresso delle famiglie: guardano al futuro volgendosi al passato

Corrado Poli*
Passate le sciocche sciatte manifestazioni e contro manifestazioni sulla famiglia di Verona, cominciamo a parlarne seriamente. Da ambo le parti forse non ci si è accorti le leggi che regolano la famiglia, l’interruzione volontaria di gravidanza, il concepimento e altri aspetti basilari della convivenza umana risalgono a mezzo secolo fa. Coloro che si autoproclamano progressisti, difendono leggi vecchie frutto di lotte iniziate nel dopoguerra e più timidamente ancor prima. I tradizionalisti invece vorrebbero di nuove leggi che però prospettano un ritorno a un passato ancor più lontano. Entrambe le fazioni concordano nell’immaginare il futuro guardando indietro: gli uni vorrebbero tornare indietro di mezzo secolo, gli altri di un secolo tondo. Sarebbe invece utile riflettere sui profondi cambiamenti intervenuti nella società e nella tecnologia nell’ultimo mezzo secolo. Il matrimonio, nato nella società rurale premoderna e pre-urbana, aveva, tra gli altri, lo scopo del riconoscimento legale dei figli e del
sostentamento degli anziani. Oggi i figli sono riconosciuti dal DNA e non c’è bisogno di una paternità legale che obbliga il padre a farsene carico se si prova facilmente che sono figli di un altro. Nella società urbana in cui oggi vive gran parte dell’umanità si hanno minime probabilità di rapporti tra parenti anche lontani. Quando si viveva in piccoli villaggi, il matrimonio e il controllo della consanguineità tutelava dal decadimento genetico delle piccole comunità in cui vivevano gran parte delle persone. I figli e la famiglia tradizionale, inoltre, costituivano un’alternativa alquanto efficace al welfare pubblico per quanto concerne l’assistenza agli anziani. Una situazione che oggi sarebbe impossibile ristabilire.
Inutile poi elencare tutte le possibilità tecnologiche nel frattempo intervenute che consentono numerosi tipi di inseminazione artificiale, di uteri in affitto e di nuove tecnologie mediche e farmaceutiche che hanno cambiato la politica del corpo. Non si può omettere di parlare di questi problemi che sono ben più seri che la difesa della famiglia tradizionale monogamica e stabile. Si crede che lo facciano in modo arrogante da una posizione di superiorità e con il sostegno della Chiesa cattolica. Invece, chi ha organizzato il Congresso di Verona rappresenta una minoranza come lo sono ormai le famiglie tradizionali rispetto alle convivenze; che buona parte dei figli nasce fuori del matrimonio e che alla dottrina della Chiesa non ci crede nemmeno la Chiesa stessa. Detto questo, sarebbe sciocco considerare i tentativi, purché seri, di difendere la famiglia tradizionale che servono a gestire una ritirata ordinata evitando di cadere improvvisamente in una situazione diversa a cui non tutti si sono adeguati e per la
quale mancano le istituzioni sociali e parametri condivisi di giudizio. La difesa della famiglia tradizionale è ormai una lotta per la difesa delle minoranze tanto quanto la tutela dei diritti dei LGBT. Con la differenza che i primi stanno diminuendo per numero e diritti esclusivi e i secondi aumentando.
E veniamo al tema che tuttora scalda gli animi più di ogni altro: l’interruzione volontaria di gravidanza. La legge che la regola viene difesa ciecamente nonostante anch’essa sia vecchia essendo stata varata quando le condizioni sociali e tecnologiche erano molto diverse dalle attuali. C’era un alto tasso di natalità e una coscienza poco diffusa sulla possibilità di controllare le nascite. Non esisteva la pillola del giorno dopo e il sesso, per quanto liberalizzato dalle rivoluzioni del ’68, era ancora un taboo per una gran parte delle persone allora in età fertile. La rivendicazione della libertà della donna di abortire era necessaria perché le donne subivano violenza e in gran parte, al pari degli uomini, erano ignoranti, avventate e piene di pregiudizi anche contro gli anticoncezionali. Pur conservando l’idea che alla donna spetti la scelta di interrompere la gravidanza  liberandosi del feto o dell’embrione, mi pare dignitoso riconoscere alle donne una maggiore responsabilità nella gestione del proprio corpo avendo tutte le conoscenze per evitare gravidanze non desiderate. Anche senza essere integralisticamente “pro vita”, si può senza paura di perdere i diritti acquisiti, ragionare con mentalità aperta sui diritti dell’embrione (anche riguardo alla ricerca  scientifica) e anche su quella dei maschi che hanno contribuito al concepimento. Un ulteriore progresso dovrebbe riprendere in considerazione sia i diritti del feto sia quelli dell’uomo che ha partecipato al processo riproduttivo a cui la donna si è prestata in modo consenziente. Questo aggiunge alla dignità della donna che viene trattata come persona responsabile delle
proprie scelte, senza toglierle in ogni caso l’ultima parola in fatto di decisione di procedere all’interruzione di gravidanza che rimane un’operazione da evitarsi il più possibile: senza colpevolizzare nessuna, ma tenendo presenti i diritti di soggetti deboli quali il feto e il potenziale padre.


yU_FaYi5_400x400* Docente – Scrittore

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