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Il racconto della domenica. C’è tempo.

di Saveria Chemotti*

 Il sempre è fatto d’attimi;

non è un tempo diverso

se non per l’infinito –

o per la latitudine di casa

EMILY DICKINSON

A ogni cambio di stagione, Francesca si procurava due o tre scatoloni al supermercato, giurando a sé stessa che quella sarebbe stata la volta giusta per rivoluzionare il suo guardaroba e liberare gli armadi dalle anticaglie che non riusciva mai a eliminare.

Questo maggio sarebbe stato il mese perfetto. Serviva un grembiule comodo, un’asta appendiabiti per spostare le grucce e un po’ di musica per farsi compagnia. Ivano Fossati era un amico di lunga data, la colonna sonora ideale per questa infausta operazione di disboscamento.

Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno che hai voglia ad aspettare
un tempo sognato che viene di notte
e un altro di giorno teso
come un lino a sventolare.

C’è un tempo negato e uno segreto
un tempo distante che è roba degli altri
un momento che era meglio partire.

 

Il cappotto grigio lo aveva acquistato in occasione del matrimonio di Tiziana: un matrimonio di novembre, frettoloso e poco emozionante, che la sua amica del cuore, era stata costretta ad accettare dopo il capitombolo con Filippo che l’aveva ingravidata. I suoi genitori erano tra i maggiorenti del quartiere, di buona famiglia, si diceva, e non volevano assolutamente che il disonore entrasse in casa loro, sia pure nelle vesti di un neonato, chiunque fosse, maschio o femmina non importava. Sarebbe nato settimino. Punto e basta. E così è stato. Tiziana era bellissima, quel giorno, vestita di bianco, capelli raccolti sotto un velo di pizzo spagnolo che faceva pensare a una mantiglia. Aveva un bouquet di roselline quasi in pendant col suo viso cereo e gli occhi lucidi che il casto filo di rossetto non riusciva a ravvivare. Incertezza o disagio? Francesca era la sua testimone e il cappotto nuovo snelliva la figura un po’ tracagnotta. Non l’aveva mai voluto buttare, quel cappotto, anche se lo aveva indossato raramente ed era rimasto quasi sempre dentro il sacco di plastica chiuso con la zip. Era un ingombro, ormai. Poteva disfarsene senza rimpianti. La piccola Elena aveva già sei anni e la chiamava zia. Una gioia degli occhi e del cuore quando restava a dormire da lei. Tiziana era sempre di corsa da un ufficio all’altro. Aveva fatto carriera nell’industria del suocero. Carriera, ma niente più marito né bambini. Filippo l’aveva lasciata dopo pochi anni e si era trasferito in America.

E quella volta che noi due era meglio parlarci.

C’è un tempo perfetto per fare silenzio
guardare il passaggio del sole d’estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando
è l’ora muta delle fate.

 

La gonna scozzese l’aveva realizzata da sola alla fine del corso di cucito. A quadri e losanghe rosse e blu, con la spilla da balia dorata, faceva un figurone. Indossata col maglioncino rosso a giustacuore e la camicetta col colletto rotondo era una vera meraviglia. «Cucita da sola. Francesca?» commentavano le sue amiche che la invidiavano perché non si era mai fermata dinanzi alla possibilità di imparare un nuovo mestiere, sia pure per hobby. Prima la pittura, ma in disegno era una frana. Poi la ceramica: le mani nella poltiglia costruivano piatti che si schiantavano nel forno. Infine il ricamo: era riuscita a confezionare un lenzuolo di lino con l’orlo a punto gigliuccio, ma aveva giurato che sarebbe rimasto unico e intonso. Giaceva in fondo al cassetto del comò e quello non lo avrebbe mai eliminato. Troppa fatica con gli occhi e con le gugliate da infilare in minuscoli aghi, per non conservarlo come un cimelio da destinare ai posteri. Aveva continuato a cucire di tanto in tanto. Qualche vestitino per Elena. Adesso quella prima gonna poteva riposare accanto al cappotto grigio nello scatolone che aveva contenuto il detersivo per lavatrice.

C’è un giorno che ci siamo perduti
come smarrire un anello in un prato
e c’era tutto un programma futuro
che non abbiamo avverato.

È tempo che sfugge, niente paura

che prima o poi ci riprende.

 

– Ci vediamo per una cenetta, stasera? – trillò Tiziana al cellulare. – Ho appena firmato un contratto importante e i miei suoceri si tengono Elena tutta la notte. Ho bisogno di vederti perché che ti devo informare sugli ultimi avvenimenti.  Avvenimenti, al maschile plurale, significava che aveva un nuovo corteggiatore, ma che era come sempre perplessa sul suo conto. Alto, magro, giovane o maturo, biondo o moro, ricco o andante, Tiziana aveva il potere di togliere ogni illusione a chiunque si avvicinasse a lei per motivi sentimentali, ma segretamente godeva quando la lusingavano con complimenti e omaggi estemporanei. «Una botta di sesso me la godo di gusto ma, fatta la doccia, me ne torno da mia figlia. Non mi regalo più a nessuno. Tra l’altro i miei suoceri drizzerebbero le orecchie se paventassero un’altra ipotetica macchia sul loro immacolato pedigree. Godono della stima di tutti per il comportamento tenuto durante il mio divorzio e per la generosità con cui mi hanno accolta nella loro villa veneziana. Per carità di Dio. Nessuna grana. Qualche fetta, ma mai un dolce tutto intero. Troppo indigesto. Allora usciamo? Mettiti in tiro.

– Voleva dire, vestiti elegante, briosa, non come una babbiona («Dicesi babbiona individuo di sesso femminile caratterizzato da notevole accumulo adiposo nella zona dei glutei», recitava il Dizionario). Insomma, evitare i soliti abiti da signora di mezza età quando fa le spese al supermercato.  – Con la nuova gonna longuette di pizzo nero col suo corpetto che mi sfina, la collana di pelle, tacco dieci che mi strazia i piedi, sarò alla sua altezza. Accidenti, proprio adesso che sono impegnata in questo lavoro rognoso … Lo so che se mi interrompo coglierò al volo il pretesto per chiudere gli armadi e accantonare tutto per un altro anno. Mi conosco…- brontolò Francesca. Tiziana per lei era più di un’amica. Era l’altra metà della mela. Frizzante, intensa. Acuta. Si completavano a vicenda e si giuravano che sarebbero invecchiate insieme senza maschi da accudire.

– Badanti mai. Verrai a vivere con me nella villona. I miei suoceri non saranno eterni e poi Elena ti considera la sua seconda madre, lo sai- , predicava Tiziana con un tono affettuoso che non ammetteva repliche. Una specie di garanzia per il futuro incerto.

Perché c’è tempo, c’è tempo c’è tempo, c’è tempo
per questo mare infinito di gente.

Dio, è proprio tanto che piove
e da un anno non torno
da mezz’ora sono qui arruffato
dentro una sala d’aspetto
di un tram che non viene.

– Se avessi avuto una femmina l’avrei chiamata Angiolina, come mia nonna, ma poi è arrivato Mattia e io sono stata lo stesso una madre felice, perfino pedante nella dedizione e negli stimoli. Ma adesso andiamo molto d’accordo. Se non fosse per la sua cosiddetta donna … Pazienza. Non tutte le ciambelle escono col buco. Oddio stavo per fare un pensiero osceno. Lo stress mi demolisce il buon gusto.  Su, giriamo pagina.

Davanti ai pantaloni cashmere, scoppiò la nostalgia. Non ci entrava più da anni, ma le ricordavano una giornata memorabile. Li aveva indossati alla laurea di Mattia. Con una giacca doppio petto marrone bruciato, una camicetta in seta, foulard, scarpe e borsetta di Gucci, (aveva speso tre dei suoi stipendi da insegnante): – sei un capolavoro -, le aveva detto suo figlio mettendole la ghirlanda di alloro sul capo, per la foto di rito, e presentandola agli amici come – la mia mamma super -. Poi si era fatta avanti Cecilia, con la gonna inguinale e gli stivali sopra il ginocchio, occhi da cerbiatta, ma bocca da … lavandaia. Non lo aveva mollato più.

– Anche questi alla Caritas. Basta vampate nello stomaco.

Non essere gelosa di me
della mia vita
non essere gelosa di me
non essere mai gelosa di me.

C’è un tempo d’aspetto come dicevo
qualcosa di buono che verrà

 

Era diventato un atleta, Mattia. Record regionale di salto in alto. Poi la lussazione all’anca per una caduta nella rincorsa ai campionati nazionali, e numerosi interventi che non erano riusciti a far sparire quella zoppia che lo avviliva. Per fortuna era uno studioso di meccatronica e le industrie se lo contendevano a suon di migliaia di euro. La lavandaia non lo aveva mai lasciato solo, anche se lui non si voleva decidere a sposarla. Troppi impegni, troppi primati da conquistare, e poi bastava un fallimento in famiglia. Quello di sua madre.

– Oddio, guarda qui, ho conservato ancora qualche sua camicia da ragazzo. Non mi sono mai arresa al fatto che possa vivere senza di me. Questa era per il suo primo smoking. – La rigirò più volte tra le mani, l’accarezzò, l’abbracciò, poi, con un gesto deciso, la depositò in un nuovo scatolone, assieme a due paia di calzini, tre canottiere e un pigiama sdrucito.

– Neanche se fosse morto. Non ho bisogno di conservare trofei. Lo posso vedere tutti i giorni via Skype per gongolarmi davanti alla sua faccia sorridente e alla sua raffinata eleganza. Fuori. Fuori i brutti pensieri. Sto facendo il funerale ai ricordi e finisce che piango come al solito.

 

Un attimo fotografato, dipinto, segnato
e quello dopo perduto via
senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata
la sua fotografia.

C’è un tempo bellissimo, tutto sudato
una stagione ribelle
l’istante in cui scocca l’unica freccia
che arriva alla volta celeste
e trafigge le stelle.

Anche il completo lilla era decisamente fuori moda ormai. Lo aveva acquistato a Roma per la cerimonia di conferimento del ruolo di ordinario ad Alberto, il suo ex marito, professore di geologia ed esperto in faglie, le masse rocciose che coi loro spostamenti e scorrimenti provocano disastrosi terremoti. Uno lo aveva provocato lei quando aveva perso la testa per il suo preside, un delitto di lesa maestà imperdonabile che aveva sfasciato la coppia e la casa. Per mesi un corpo a corpo senza esclusione di colpi, poi una pace guerreggiata e infine una separazione consensuale seguita da una civile consonanza soprattutto per amore di Mattia. Quando lui l’aveva invitata ad assistere al suo trionfo, Francesca non poteva dire di no. Troppi sensi di colpa.

Adesso era arrivato tempo di sacrificare anche quel vestito. Tra l’altro Alberto stava per risposarsi e i loro incontri sporadici si sarebbero giustamente azzerati.

 

È un giorno che tutta la gente
si tende la mano
è il medesimo istante per tutti

che sarà benedetto, io credo

da molto lontano

 

Sogni interrotti ne aveva. Una serie. Pochi rimpianti, però.

Le scelte le aveva pagate tutte a caro prezzo. Costose quasi come le camicie da notte e i pigiama palazzo che erano rimasti chiusi nelle scatole sui ripiani accanto alle lenzuola. All’inizio il preside si era avvinghiato a lei, orgoglioso del suo rinnovato vigore erotico, poi la coscienza, il rispetto dei ruoli, il dovere verso la famiglia, in verità il calo vertiginoso del desiderio e qualche cilecca di troppo, lo avevano fatto desistere. Lei era rimasta col cerino acceso e si era bruciata le dita. Peccato per quella biancheria di lusso che le fasciava i fianchi e i seni quando aveva una decina di chili in meno. Ultimamente si era rimpinzata di dolci e di ogni golosità calorica, senza ritegno.

Glielo svelava lo specchio ogni mattina, ma lei lo snobbava e sorrideva dandosi sonori schiaffi sulle cosce e sul sedere. La quinta di seno però era trionfale. Glielo magnificava sempre anche Tiziana che poteva sfoggiare solo una seconda.

 

È il tempo che è finalmente
o quando ci si capisce
un tempo in cui mi vedrai
accanto a te nuovamente
mano alla mano
che buffi saremo
se non ci avranno nemmeno
avvisato

 

Una scrollata di spalle e … via anche la biancheria del peccato.

– Allora scendi? – gridò Tiziana aggrappata al campanello. Ho la macchina in divieto di sosta.

– Tanto per cambiare. Sali tu. Mi devo ancora vestire. Ti preparo un aperitivo dei miei, prima di fare la doccia. Sono fradicia. Un mojito alla fragola e rum bianco, ghiacciato al punto giusto, ti attira?

Infilò di corsa una serie di altre cianfrusaglie negli scatoloni. Maglioni, scarpe, vecchie borsette, guanti di pelle ammuffita. Poi li chiuse con il nastro adesivo e li sistemò accanto alla porta della stanza da letto. L’indomani li avrebbe portati al centro della Caritas. Si sarebbe liberata così di tanti oggetti scomodi che potevano far sorridere qualche donna meno fortunata di lei. Erano tutti pezzi di pregio e poi, in fondo, aveva finalmente fatto spazio nell’armadio per nuovi acquisti.

 

Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno più lungo per aspettare.
Io dico che c’era un tempo sognato

che bisognava sognare.

 

Tiziana aveva fatto le scale di corsa e, nell’attesa, si era posizionata in bella mostra sul divano del salotto, sorseggiando il nuovo aperitivo dell’amica.

– Delizioso, uno nuovo, Cesca? Esaltante, davvero. Per favore però posso spegnere quella lagna di Fossati che mi guasta il palato? Ti devo proprio regalare qualche nuovo CD. –  Era in ghingheri, come sempre ben truccata e irrequieta.  Più del solito. Inoltre, la chiamava Cesca, il nomignolo da ragazze, solo quando doveva comunicarle una notizia piccante. Francesca uscì dal bagno in accappatoio con lo sguardo di chi ha un brutto presentimento.

– Che c’è di nuovo? Non dirmi che hai liquidato anche l’ultimo imprenditore. Mi sembrava a modo, disponibile e romantico. Un altro?  Non lasciarmi in agitazione!

– Criticatrrr. Non cominciamo con la solfa dei rimproveri. Vestiti che è tardi. Ci aspettano.

– Ci? Chi? Cosa hai combinato stavolta?

I gradini si erano moltiplicati nella discesa e il tragitto vero il ristorante un vero tormento.

Tiziana glissava a ogni richiesta di spiegazione, sgusciava da ogni trabocchetto.

– Non mettermi ansia. Non posso superare i cinquanta e sono già al limite. Ho già un pacco di multe da pagare. Li mantengo io i vigili urbani di questa città di rammolliti.

– Parcheggiò nel sotterraneo con l’abilità di un pilota di formula uno. L’ascensore le depositò nel salone con luci soffuse e candele accese.

Al tavolo, in un angolo riservato, le attendeva un signore di mezza età, molto affascinante e visibilmente commosso.

Tiziana lo baciò con passione, poi si rivolse a Francesca con un sorriso radioso: – Tieniti pronta. Mi sposo tra un mese. Finalmente ho deciso di voltare pagina. Luigi è l’uomo per me. Vuoi farmi da testimone? –

Francesca si schiantò sulla poltroncina di velluto. Tutto il locale roteava improvvisamente attorno a lei. Lo sapeva che sarebbe accaduto. Non doveva fidarsi della follia di Tiziana. Era sempre stata così impulsiva anche a scuola.

Altro che cohousing. Doveva procurarsi in fretta un nuovo vestito da cerimonia.

Per fortuna adesso in casa il posto c’era. Vuoto.

Dicono che c’è un tempo per seminare
e uno più lungo per aspettare.
Io dico che c’era un tempo sognato

che bisognava sognare

Il testo è compreso nella raccolta di racconti, A che punto è il giorno, Adria, Apogeo, 2019.


Chemotti* Scrittrice

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