di Annalisa Boschini*
Celestina era nata il giorno dopo la marcia su Roma, cosa che seppe
molti anni dopo, gliela raccontò un professore dell’istituto di arti e
mestieri di Massa Superiore, dopo aver fatto l’amore nel pioppeto
della cava, dove c’era anche una capanna per grigliare il pesce, i
grossi lucci del Po, gli storioni sapidi e snelli, il barbo gatto, e i
gamberetti grigi d’acqua dolce.
“ E si capisce perché ti hanno chiamata così: ha gli occhi celesti
come il mare dell’isola d’Elba” il professore era bello e maledetto,
delinquente come tutti i morosi di Celestina, che era nata con la gran
sfortuna di essere troppa. E infatti non lo vide più, e seppe che era
tornato nella sua Livorno.
Gli occhi erano troppo blu, il seno troppo tondo, la vita troppo
stretta, le gambe troppo tornite, i capelli troppo lunghi e troppo
rossastri: Celestina era appariscenti come un melograno
scoppiato nella nebbia.
Ma era proprio così: quando prese la quinta elementare, sua madre
la ritirò e la mise in campagna da un fattore, che subito la rovesciò
sulla paglia della stalla.
Ma Celestina scappò , e nessuno disse più nulla: ma due anni dopo,
fu la ragazza ad implorare il fattore di prenderla e tenerla, che sua
madre era morta, e a lei quel lavoro serviva.
Così per Celestina, nel piccolo mondo di Carbonara di Po – una
piazza, una strada, la chiesa, l’albergo Dogana con trattoria e la
fabbrica delle cipolle- iniziò la guerra per la sopravvivenza, per
portare pane e formaggio ai suoi fratelli, finchè non fu il podestà del
paese a decidere di portarli a Correggio, in una casa per orfani.
Celestina li vedeva una domenica ogni due mesi, andava in bicicletta,
e tornava talmente stanca che presto perse il lavoro dal fattore.
Tra un uomo e l’altro che le veniva appresso, Celestina capì che ci si
poteva campare: ma si innamorava sempre, e pure una volta rimase
incinta.
Quanto le portarono via il bambino, destinato a una famiglia per
bene, rimase con lei l’infermiera del dispensario, che aveva una figlia
già sposata, proprio dell’età di Celestina. E niente, che comunque
Celestina fosse bella come un quadro, tanto che quando si
benedicevano le bestie per Sant’Antonio Abate, a vederla con un
ninin in braccio, non si sapeva se paragonarla a una statuetta del
presepe, a un quadro vivente, o a una di quelle illustrazioni vietate,
custodite dal barbiere del paese in un mobiletto segreto del salone.
“ non puoi continuare così – le disse – lavandola e dipanando con un
pettinino la massa imponente dei suoi capelli crespi, rossi, sudati, e
pieni di nodi dopo quel travaglio senza neppure un neonato da
cullare- Ti devi sposare con qualcuno, anche l’ultimo degli zoppi”.
Celestina non disse alla donna che nessuno la voleva, perché troppo
di tutto.
Gli occhi erano troppo blu, il seno troppo tondo, la vita troppo
stretta, le gambe troppo tornite, i capelli troppo lunghi e troppo
rossastri: era appariscente come un melograno scoppiato nella
nebbia.
Secondo chi sedeva davanti al bar Dogana il cervello di Celestina era
pure troppo vuoto: ma Celestina sapeva che invece dentro la sua
testa c’erano sogni, storie, fantasie, e tutti quelli che erano i suoi
segreti.
Poi la cosa che le cambiò la vita successe tre giorni dopo il parto del
bimbo che non avrebbe mai visto: il seno le si colmò di latte, le
venne la febbre, l’infermiera tornò e la munse come una mucca.
Celestina! Vai a fare la balia in città! Sono pagate benissimo e la tua
vita cambierà! Consigliò la donna.
Così a Mantova si sistemò nella cella che i frati cappuccini
destinavano al baliatico, visto che Celestina aveva una produzione
miracolosa: venne visitata persino da un dottore di Parma, produceva
come fosse la migliore mucca da latte della bassa.
La notte, era costretta a tirarsi il latte con un sistema doloroso di
alambicchi in vetro, e a venderlo in piazzetta delle Erbe, alla
farmacia dei Marchesi Fiaschi.
Una mattina, portando il latte , il proprietario la fermò. Dopo averla
guardata bene, e mai negli occhi, le disse: “ senti Celestina, mio padre
ha quasi cento anni, è cieco e non mangia più da una settimana.
Prima di morire dovrà farlo questo testamento, quindi vorrei tu
andassi ad allattarlo, per tirarlo un po’ su, e noi figli lo aiuteremo a
scriverlo”.
Quando l’uomo finì di parlare, Celestina pensò si sbagliasse, perché
lei era troppo di tutto per un impegno così.
Gli occhi erano troppo blu, il seno troppo tondo, la vita troppo
stretta, le gambe troppo tornite, i capelli troppo lunghi e troppo
rossastri: era appariscente come un melograno scoppiato nella
nebbia.
Invece, quando il farmacista le disse la cifra, celestina annuì, e il
pomeriggio seguente era gia’ a Gaiba, un paesello prima di Ferrara a
Villa Crespi – Stampanoni. Un luogo talmente grande e bello che alla
ragazza sembrò il castello delle fate.
C’era la chiesetta privata dedicata a Sant’Anna bambina e due
enormi scale di marmo rosato che portavano al portico. Attorno
ettari di bosco e prati, fienili, barchesse, una torre per i piccioni che
guardava la strada verso il fiume.
L’attesero due vecchie, corte e bianche, che guardarono Celestina
con gli occhi sbarrati: come se vedessero un melograno scoppiato
sulla pianta, in mezzo alla nebbia.
Perché gli occhi erano troppo blu, il seno troppo tondo, la vita
troppo stretta, le gambe troppo tornite, i capelli troppo lunghi e
troppo rossastri: era appariscente come un melograno
scoppiato nella nebbia.
“siamo le sorelle del signor Marchese – le dissero – nostro fratello
non mangia, non parla , ed è cieco , inoltre la sua malattia lo ha
accorciato, venga a vedere”.
Era vero. Ma Celestina non ebbe nessuna paura. Nella stanza da letto
affrescata e buia per la tende di seta e velluto, pesanti e polverose,
camminando su un pavimento di legno che sgranocchiava sotto i
piedi come il torrone alla fiera di San Martino, la balia scorse un
ranocchio dalla pelle traslucida e trasparente lungo come un bimbo
di sette otto anni, pelato, e del tutto sdentato.
Il vecchio marchese indossava una camiciola di lino, e non voleva
stare sotto le coperte.
Celestina si tolse il vecchio paltò e la camicia, tolse le pezze che
permettevano ai suoi seni di non soffrire la clausura.
Alla vista di quelle grosse mele bianche di pelle, perfettamente
turgide e distanziate, alte come indomiti capretti, le due vecchie
sparirono.
Così iniziò l’allattamento di Celestina al vecchio bambino, il cui
mento aguzzo le colpiva lo sterno, e la bocca gommosa le titillava i
rossi capezzoli due rubini al sapore di lampone.
Il figlio del marchese aveva indovinato: niente è brutto come la
fame, e di fame si muore veramente, anche se sopra la tua testa ha il
blasone di famiglia.
La giovane allattava , allattava, anche sei volte al giorno.
Giù, nelle cucine di Villa Fiaschi- Stampanoni, la cuoca le preparava
ogni ben di Dio: malafanti e costolette in umido, pinza alla munara,
salama da sugo e purè, per tenere su la ragazza, che faceva il miglior
latte della bassa.
Un mattino nebbioso, mentre gli occhi di Celestina vagavano verso
la vallata della dei Runzi, che si scorgeva dalla finestra, il vecchio
parlò staccandosi dal capezzolo
“Come ti chiami” le chiese il Marchese. E così Celestina seppe che il
l’anziano parlava, sentiva, e forse ancora vedeva, dietro gli scialbi
occhi acquosi da salamandra che le fissavano i capelli e l’ovale del
volto.
Dopo qualche mese il marchese morì, nonostante le abbondanti
libagioni di latte umano, grasso e dolce: ma morì tra la contentezza
del figlio e delle sorelle, perché aveva fatto testamento.
La torre di Celestina
Burro la prese lunga pedalando velocissimo. Era da ore in sella e
non ne poteva più, doveva raccontare al bar Dogana quello che
aveva visto e saputo a Ferrara.
Arrivò di sghimbescio rotolando per terra davanti alla tenda a righe
bianche e rosse che proteggeva le sedie del bar dall’afa estiva e
rimase steso a terra mentre la bicicletta proseguiva la sua corsa. Lo
aiutarono, ma soprattutto lo aiutò a sciogliere la lingua il litro di
sguazzone -acqua, vino, limone- che gli servì l’oste.
“ ho visto la Celestina a Ferrara robe da non credersi!”
“Racconta”! urlò la folla al bar.
L’aveva incontrata veramente Burro, un tipo secco come una
cavalletta , da cui l’azzeccato sovranome. Prima non l’aveva
riconosciuta, perché Celestina, nella frenesia di vita del dopo guerra,
aveva compiuto la sua trasformazione.
Celestina indossava un abito nero, che voluttuosamente le aderiva al
corpo, e un cappello di seta a fiori: una stella fulgente, incoronata dai
crespi ricci rosso fuoco.
Il vecchio marchese , prima di morire, era stato generoso, perché
Celestina e il suo latte grasso,dolce e tiepido avevano reso più
sopportabile l’arrivo della signora morte. Ma soprattutto era stata la
tenerezza di quella ragazza che troppo aveva avuto in bellezza, e
troppo aveva sopportato per quella bellezza assurda, accecante,
indescrivibile e peccaminosa ad incantarlo. E il marchese, acuto e
saggio, aveva scoperto che la testa di Celestina era colma di pensieri,
di sogni, di vita, di poesia. Una poesia povera, rude, contadina,
erotica.
Il notaio che aveva raccolto il testamento del Marchese Crespi
l’aveva fatta chiamare un mese dopo la sua morte: e le aveva
consegnato una lettera e una chiave.
“ Cara Celestina, il notaio ti darà una chiave insieme a questa lettera. La
chiave apre la torre dei piccioni alla Villa: nell’atto notarile è ben specificato:
quella torre è tua, solo tua. Usa la chiave per entrare con qualcuno di fiducia:
ogni cosa dietro la porta, dalla soglia alla sommità dei coppi è di tua proprietà.
Devi sapere che, nella mia lunga vita, ho sempre amato collezionare le
riproduzioni più fantasiose della bellezza femminile: la torre è piena di statue,
quadri, ceramiche, terracotte, anfore, monili, bauli di gioielli, di sete, di ritratti
di donne , di sante, di puttane. Quando ti ho visto arrivare, bianca e tonda come
statua, ho capito che regalo avevo davanti. Prima di morire, quel Dio da me
sempre bestemmiato, mi aveva mandato una delle forme di bellezza più alta e
abbacinante. Vendi al mio amico Alfredo Melloni, della galleria d’arte in San
Romano, a Ferrara, il primo quadro che trovi: con i proventi affitta una bella
casa, apri una tua galleria, e cerca quel bambino che ti hanno portato via”.
E così Celestina , nonostante gli occhi troppo blu, il seno
troppo tondo, la vita troppo stretta, le gambe troppo tornite, i
capelli troppo lunghi e troppo rossastri, appariscente come un
melograno scoppiato nella nebbia, aveva fatto.
Prefazione di Carlo Cavriani, editing e postfazione di Daniela Rossi
Apogeo editore