di Corrado Poli*
Non si curava di quante primavere avesse visto allora. Contava piuttosto ciascuno degli innumerevoli autunni. Era vecchio, molto, e lo era sempre stato. Viveva da solo in un piccolo appartamento al primo piano con poca luce e ancor meno aria. Al numero 3 di via dei Costruttori edili 3, edificio 5, interno 12. Non importa in quale città: Mosca o San Pietroburgo, Ekaterinburg o Ivanovo, Vladivostok o Krasnodar.
Dovunque fosse stato, anche a Parigi, Tokyo o New York, non sarebbe cambiato nulla e una via dei Costruttori c’era in ogni città sovietica con la stessa gente, la stessa architettura, la stessa vita, bella e brutta a seconda di come la si sapeva prendere. Persino le serrature delle porte erano uguali (https://bit.ly/2S9DwNy).
Dall’unica finestra opaca e angusta, Bronislav Dimitrovich vedeva solo il cortile interno di palazzoni costruiti per ospitare i milioni di immigrati dalle campagne. Non c’era un filo d’erba né un fiore così che le stagioni a stento si riconoscevano. D’altronde, usciva poco e poco si curava del tempo. Il piccolo appartamento era modesto e funzionale senza alcuna indulgenza al piacere di un bel oggetto o di un colore invitante: non aveva nemmeno un soprammobile. Una domestica a ore lo teneva pulito. Bronislav Dimitrovich evitava con cura di incontrarla per sottrarsi alle sue chiacchiere e al fastidio dei lavori di casa. I vicini non li conosceva per niente, al più un saluto di cortesia. Loro non lo avevano mai notato e loro a lui sembravano sempre nuovi e diversi. Ogni mattina si alzava dal letto, si faceva un caffè e lo portava con sé, senza nemmeno accendere la luce del breve oscuro corridoio alla cui fine v’era una porta che dava su un minuscolo ripostiglio aerato da un solo vortice e privo di finestre. O forse una finestra piccolissima c’era, ma dava su un muro grigio che s’ergeva fino al cielo a un solo metro di distanza. Era assolutamente inutile guardare fuori e perciò quella finestra aveva perso il diritto di chiamarsi tale. Dal soffitto, a un filo intrecciato era appesa una vecchia lampadina giallognola con le resistenze in evidenza che accendeva solo in rare occasioni. Una parete era ricolma di inutili libri che non apriva da molto tempo; sull’altra campeggiavano vecchie fotografie che si confondevano con le macchie di umidità penetrata nei muri prefabbricati. La piccola stanza conteneva appena una grande e comoda, ancorché sdrucita, poltrona da studio molleggiata. V’era infine un minuscolo tavolino di legno così anonimo da non meritarsi alcuna descrizione. Sul tavolino di legno aveva sistemato il suo Mac Pro ultimo modello potentissimo da oltre $30.000 con un enorme schermo al plasma, altissima definizione e connessione superveloce (https://apple.co/2G6mmvA). Non c’era altro. Per acquistarlo aveva venduto l’auto che ormai non usava più ma con la quale in passato aveva amato vagabondare per campagne e città.
Sedeva sulla poltrona e, dopo avere acceso quello schermo magico entrava in contatto con il mondo, si recava in Perù, visitava le rovine di Machu Picchu, s’immergeva nelle terme di Kamchatka, parlava con amici aztechi, colleghi giapponesi, ballerine spagnole di flamenco, prostitute libiche, alpinisti alle cui spedizioni si aggregava. Intratteneva relazioni con intellettuali armeni e musicisti coreani, studiava l’uzbeko online, ascoltava esecuzioni celebri di concerti del passato (p.e. il Deutsche Requiem di Brahms condotto da Karajan: https://www.youtube.com/watch?v=l6zpVsGbvNo), prendeva parte a discussioni su svariati temi, sollevava domande e riceveva centinaia di risposte. Quello schermo profondo senza fine pullulava di persone, esperienze e felicità. Navigava sulle onde della rete, veleggiando nei mari dei social-network, evitando gli scogli delle persone sgradevoli, apprezzando pensieri profondi di sconosciuti, rincuorandosi con edificanti superficiali citazioni, ammirando paesaggi, ridendo per l’umorismo intelligente e commovendosi per i fatti della vita dovunque essi accadessero. Di tanto in tanto frequentava i siti porno per sentirsi normale. Sapeva evitare le tempeste ma se si fosse trovato suo malgrado nel mezzo del ciclone avrebbe dimostrato, solo a se stesso, perizia nel superarle. In quello schermo lo spazio era infinito e il tempo cancellato dalle registrazioni e dalle immagini cristallizzate. Nel pozzo senza fondo di quello schermo tornava agli anni Settanta ascoltando un giovane Pavarotti cantare “Una furtiva lacrima” e Linda Rondstadt commuovere con “Desperado”. E subito dopo ascoltare gli artisti del momento al di fuori di ogni spazio e ogni tempo.
La sera della vigilia di Capodanno rivide il film che da oltre quarant’anni la televisione sovietica e poi russa ritrasmette immancabilmente: “L’ironia del destino, in un leggero vapore” (https://bit.ly/2S9DwNy). Si commosse come sempre ma presto si distrasse e decise di partire per un’escursione sul Kilimangiaro con Reinhold Messner in cerca di una nuova esperienza. Rinchiuso nel suo sicuro bozzolo attendeva una nuova metamorfosi che non riusciva a compiere, ma in cui ancora sperava.
Percorre i sentieri mirando da lontano la montagna dal cappuccio bianco. Si avvicina lentamente alla cima arrampicandosi su creste sempre più ripide e innevate. Gradualmente lo pervade la stanchezza e la sensazione di non riuscire a procedere. Le forze gli vengono meno. Presto calerà la notte. Le nevi del Kilimangiaro le vedrà solo da lontano, ma si poseranno su di lui a formare un grande mantello bianco sotto il quale potrà finalmente dormire, dormire, dormire. Nel suo delirio ricorda la donna che aveva amato. Sente la sua mano nella sua e la vede ridere con lui. Ora comprende senza alcun dubbio che sta per morire. Le nevi del Kilimangiaro non sono mai state così bianche e lo coprono come un ampio caldo mantello. La canzone di Pascal Danel finisce (https://www.youtube.com/watch?v=9loWLosHQik).
Aveva passato quasi tutta la giornata nel ripostiglio, anzi nello schermo ad alta definizione del Mac-Pro. Spense lo schermo magico e si ritrovò nel suo buio spoglio appartamento. Assunti gli antidepressivi e i sonniferi, si coricò, come sempre, ma pensò che l’indomani sarebbe venuta la domestica e per alcuni giorni quell’appartamento sarebbe stato più pulito. Che altro desiderare dalla vita? Domani sarebbe restato sul Kilimangiaro e avrebbe cercato informazioni sul Kenya. Dalla musica pop di Danel sarebbe passato a Hemingway, al film con Ava Gardner e Gregory Peck (https://it.wikipedia.org/wiki/Le_nevi_del_Chilimangiaro_(film)) o a un altro più recente e confortante di Guédiguian (https://it.wikipedia.org/wiki/Le_nevi_del_Kilimangiaro_(film_2011)). Si sarebbe trattenuto per qualche tempo su quella montagna incantata. Forse un giorno, speriamo tardi, anche lui sentirà scendere la neve sul suo corpo privo di energia e sarà seppellito dal mantello bianco delle nevi del Kilimangiaro. Come nella canzone della sua gioventù. Come nelle immagini del suo computer. Per gli altri la realtà sarà un corpo irrigidito in un letto umido in un appartamento in via dei Costruttori 3 in un’anonima città di un mondo piccolo, enorme, uguale. Ma nemmeno allora saprà distinguere la realtà da immagini che immagina nel grande schermo dell’angusto ripostiglio. Un giorno indefinibilmente lontano e prossimo.
Ely Pat
5 Agosto 2019 at 10:27Un articolo che potrebbe essere visto come una provocazione o meglio che mi fa sorgere una domanda: è giusto provare delle emozioni o vivere situazioni nuove o già vissute attraverso uno strumento tecnologico? Infin dei conti potrebbe essere arricchente per la nostra vita… e quanto è giusto estraniarsi dalla vita reale e dalle relazioni di persone che ci stanno accanto pur essendo vicini o persone con un’attività sotto casa nostra o non abbiano messo mai piede fuori dalla propria città? Sarebbe così sterile il confronto in questo caso? Effettivamente internet, i social ci permettono d’interagire con culture diverse alla nostra e ci permettono un continuo confronto, tuttavia che sia così poco stimolante avere un confronto anche con la donna delle pulizie, con un vissuto e una vita sicuramente diversa dalla nostra? Penso che la risposta stia nel mezzo, l’uso della tecnologia sicuramente importante per un’apertura mentale, ma anche il confronto con persone a noi vicine per cultura e “ambientazione” lo potrebbe essere e precluderselo potrebbe essere comunque porsi dei limiti in virtù proprio di un confronto continuo che ci permetta di sentirci vivi all’interno di un contesto comunitario