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Scrivere in Veneto. Una cartografia provvisoria tra ieri e oggi

di Saveria Chemotti*

 

Padova, 26 settembre, sera

In quattro ore sono qui giunto oggi da Vicenza, su una carrozzella a un sol posto chiamata sediola, caricata di tutto il mio equipaggio. […] Si attraversa una fertilissima pianura, sempre in direzione sud-est, in mezzo a siepi e alberi che escludono ogni altra vista, finché si scorge a destra una bella catena montuosa che scende da nord verso sud. […] Quanto sia bella la posizione della città ho potuto constatarlo ottimamente dall’alto dell’Osservatorio. A nord, seminascoste tra le nuvole, le montagne tirolesi coperte di neve, a cui si congiungono verso nord-ovest i monti vicentini; a ovest, infine, i vicini colli di Este, dei quali si possono vedere chiaramente le linee ondulate. Verso sud-est un verde mare di piante senza traccia d’elevazione: alberi su alberi, boschetti accanto a boschetti, piantagioni una dopo l’altra, innumerevoli case, ville e chiese occhieggianti bianche tra il verde. All’orizzonte vidi distintamente il campanile di S. Marco di Venezia e altre torri più basse.

  1. W. GOETHE, Viaggio in Italia (1786-1788)

 

  1. Per abbozzare una «cartografia letteraria e culturale» della letteratura veneta tra XIX e XX secolo è indispensabile, prima di tutto, procedere lungo linee prospettiche, compiere indagini, riscontri, riletture, per verificare se esista, topograficamente e anagraficamente, un rapporto tra ieri e oggi, per capire se la letteratura di “oggi” abbia perduto o cancellato radicalmente tutti i caratteri di quella di “ieri”, se la frattura tra le generazioni sia una voragine insormontabile o se invece si possano rintracciare intersezioni e interrelazioni, segnali di una continuità che permane e agisce, sia pure nella forma più sotterranea, «carsica».

Non si tratta ovviamente di assemblare dentro un’unità meramente “cronologica”, una galleria policroma e polifonica di esperienze individuali, esposte a modificazioni e ripensamenti, realizzando una silloge grottesca, financo accademica, ma ipotizzare una campionatura essenziale delle strategie narrative e stilistiche più originali che non sia riduttiva rispetto ai percorsi dei singoli interpreti.

La realtà veneta infatti prima ancora di definirsi come territorio si qualifica come cultura; la terra d’origine vale come patrimonio sedimentato di valori che estrinseca una sua peculiare verità che, come scriveva Guido Piovene in una pagina famosa del suo Viaggio in Italia (1957), «nulla ha a che fare con il sentimento nazionale né per associazione né per contrasto» essendo «una verità in più, di natura diversa», una sorta di «persuasione fantastica che la […] terra sia un mondo, un sentimento ammirativo, e quasi un sogno di se stessi, che non ha l’eguale nelle altre regioni d’Italia […]».

Se, infatti, osserviamo da vicino l’intero panorama della letteratura veneta del Novecento senza cadere nel bieco campanilismo o settarismo ideologico, ci troviamo dinanzi ad alcuni elementi di incontrovertibile originalità, nel numero degli autori, delle opere e nelle tipologie formali, tecniche, tematiche, rispetto ad altre letterature regionali.

Nessuna regione, infatti, può vantare un numero così ricco ed eterogeneo di narratori che in modo assortito, ma non equivoco, considerano il Veneto come terra d’origine, punto di partenza, di fuga o di ritorno: «in nessuna realtà come nel Veneto gli scrittori hanno registrato i rapidi e inquieti mutamenti che hanno contraddistinto, la storia della […] regione. C’è stata non solo l’apparizione di nuove tematiche, ma anche un ripensamento degli stessi strumenti espressivi. Un primo sintomo di questo fenomeno è la grande diversità che si nota tra gli scrittori della generazione precedente […] e gli scrittori che si formano successivamente.»

Lo spartiacque degli anni sessanta è, a tale riguardo, un passaggio importante perché segna l’affermazione di una nuova sensibilità e di nuove tematiche che si plasmano a ridosso dei mutamenti culturali e sociali e che riflettono, in modo variegato, le modificazioni strutturali dell’ambiente in cui lo scrittore attinge le sue storie, che non è quello delle grandi città con le sue élites tradizionali.

Del resto «una delle contraddizioni che permane nella regione è proprio l’assenza della metropoli vera e propria, intesa come fornitrice di servizi e insieme di bisogni, capace di esercitare una funzione direttrice sul territorio e di dare senso e unità ai fenomeni che vi si verificano. Al contrario di quanto avviene in altre regioni, nel Veneto prende fisionomia l’espandersi di una città «diffusa» che s’incunea nella campagna, […] manca […] una città che per ruolo primario, per presenza di case editrici, riviste, giornali ecc. raduni gli intellettuali e gli scrittori» come  a Milano, a Roma, a Firenze o a Torino. Dopo «l’oscuramento» di Venezia, del mito della Serenissima, «nessun altro centro veneto consegue un’egemonia culturale capace da consentirgli definizioni di ampio respiro o di elaborare orientamenti comuni.»

Dal punto di vista del loro insediamento gli scrittori veneti costituiscono, così, una singolare «galassia dispersa» tra Vicenza, Treviso, Padova, Rovigo, Asiago, Belluno, ma anche Venezia ritrova una sua collocazione fuori dalle ombre lunghe in cui era stata sacrificata. Una pluralità di scenari dentro un orizzonte frastagliato, ma a suo modo unitario, che non ostacola l’invenzione di atmosfere e di forme che, pur nella tipicità delle singole opere, diventano elemento costitutivo e fondante di quello «sperimentalismo veneto» che è la cifra più originale di una produzione letteraria che pone la questione del “come” raccontare sullo stesso piano di quella del “che cosa” raccontare, attingendo ai registri polifonici della scrittura «per dar voce insieme al gioco e al dramma, all’intersecarsi delle classi, alla storia e alla cronaca».

In quest’ottica il dialetto non appartiene a un limbo congelato della memoria, ma è un organismo vivo, mosso, è deposito reattivo perché ha una sua originalità espressiva; è allo stesso tempo luogo di competenza linguistica e di conoscenza storico-culturale. Le storie che si raccontano sono dentro le parole perché le parole hanno una propria valenza testimoniale, documentaria e comunicativa e quindi  evocativa e creativa: «morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose.» (L. Meneghello)

Il linguaggio infatti serve a scavare nelle cose, non a mistificarle: non si procede quindi nella direzione di facili effetti bozzettistici e caricaturali o nell’aneddotica privata, di maniera, con l’intento di raffigurare un mondo bloccato al tempo dell’infanzia e dei filò. Ci si riappropria di una lingua che è espressione irripetibile di una interiorità collettiva dimenticata, strumento di verifica sociale e storica per trasportare all’interno degli avvenimenti narrati la «sgrammaticata grammatica» dell’oralità.

Così nelle opere di Neri Pozza, di Scapin, di Meneghello, di Pascutto o di Chinol, la memoria diviene il luogo inventivo primario, il serbatorio referenziale e fantastico e il dialetto diviene «forma del pensiero», storia di una città o di un paese «in contrappunto con la cronaca familiare, i suoi volti, i suoi gesti». Certo il rapporto, controverso e discusso, tra lingua e dialetto interessa, in forma differente, molti altri scrittori. Comisso «aveva il terrore dei dialettalismi nella scrittura, pur parlando un bellissimo dialetto borghese trevigiano» (Naldini); Buzzati scrive in un italiano senza inflessioni dialettali, e si diverte piuttosto a giocare su un registro di «compresenza di linguaggi», di mimesi sapiente di gerghi specializzati; Parise afferma testualmente: «non ci tengo molto. Non saprei scrivere in dialetto né una riga né una poesia». Eppure il registro basso della sua scrittura, una certa voluta apparente sciatteria, danno ragione a Pozza quando osserva che è proprio nelle sue costruzioni sintattiche, nelle «forme del suo “parlato” più stringato e immediato» che si ravvisa quasi una trascrizione dal dialetto; ed è in questo dialogato colloquiale così tipicamente veneto, nella frantumazione della sintassi comissiana, nel tono giornalisticamente «neutro» di Buzzati, che si possono trovare gli antecedenti di quella veneticità sotterranea che trasforma la lingua nazionale a livello di strutture e di sintassi piuttosto che di lessico, producendo una lingua che non è dialetto ma neppure italiano standard, e che è poi quella usata in genere dagli scrittori che non tentano l’impasto esplicito col dialetto.

«La letteratura veneta […] ha qualcosa di periferico rispetto alla letteratura italiana e alle sue centrali ideologiche» sottolineava ancora Piovene nel 1973: «una eccentricità che prolunga l’antico convincimento di una differenza che si esprime anche come difficoltà di ammettere il primato di altre capitali della cultura. È letteratura di provincia, certo, ma «non provinciale, almeno nei suoi esiti migliori.»

«Il Veneto è anche un sogno letterario, un’accumulazione narrativa opera dei suoi scrittori. E di poche aree regionali italiane si potrebbe dire, quanto di questa, che possiedono una “linea” letteraria.» commentava qualche anno dopo M. Isnenghi.

 

  1. Partendo da queste premesse, avvicinarsi alla storia della letteratura veneta, significa allora confrontarsi, subito, con un territorio e un paesaggio fervido che è, per la sua collocazione, terra di confine e di frontiera, abituata da secoli ad avere gente continuamente di passaggio sui valichi montani e lungo le vie d’acqua, una terra fittamente abitata, una terra impregnata di lavoro, memorie, pensieri che si muove, vive e invecchia, subisce il fluire del tempo individuale e generazionale, ma che conserva ancora un’immagine fortemente legata a un passato rurale in cui l’uomo era il vero genius loci, più che l’hostis, perché figlio di una cultura e di un ecosistema storico e sociale su cui ha impresso i suoi segni di riconoscimento (le coltivazioni, le dimore, le strade, i cimiteri) in sequenze culturali successive, fino ai giorni nostri. Così perfino l’odierna «megalopoli padana» resta contrassegnata da testimonianze paesaggistiche che sembrano indelebili; il legame tra passato e presente è sempre reperibile nei monumenta come scrive Eugenio Torri: «i campanili e le torri medioevali che dominano i centri urbani, le belle cattedrali di mattoni, antichi e pregevoli monumenti che hanno fatto la storia dell’arte, case basse di periferia, con gli orti all’ombra di vecchi alberi, magari il gelso secolare sopravvissuto, vicoli e stradine che si inoltrano nei campi. […] ci sono case unifamiliari con l’orto, il vecchio fico, il piacere veneto dell’ombra e delle buone verdure prodotte con le proprie mani; e dappertutto sopravvivenze di vecchie case contadine entro il tessuto urbano e là dove esso si dirada ecco un paesaggio plasmato da un’utilità agraria, frammentato e come miniaturizzato, che va poco d’accordo col respiro ampio che suscita l’immagine di megalopoli. È come se questa avesse calzato un territorio del passato, lasciandolo così com’era, aggiungendovi tuttavia il nuovo, rappresentato dall’alluvionamento urbanistico recente. Il quale peraltro non è riuscito a sommergere del tutto il paesaggio preesistente, che affiora ovunque, così come dopo un’inondazione rimangono visibili le case, i campanili, gli alberi più alti, che indicano i margini dei campi, e l’incancellabile disegno del territorio, come fosse l’anima profonda, basica, della megalopoli, o la duplicità della sua anima, riconducibile alle sue primissime occupazioni umane.»

Un’anima che è un habitat, una terra che vale, per molti scrittori che vi sono nati, come patrimonio depositato e stratificato di valori.

«Terra»: un sostantivo che contiene una somma di significati assai interessanti in questo ambito. Terra come parte di uno “spazio geografico”, territorio, ma anche “suolo”, superficie su cui si cammina, materiale del terreno che contiene elementi necessari per la vita naturale e valore collettivo contadino, “i campi”, dove prevale la connotazione semantica della storia originaria di questa regione: «il Veneto – osservava Goffredo Parise nel 1984- era ed è forte, barbaro e dunque produttivo […] per la forza barbarica della terra che ha prodotto lavoro nei campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche. […] La sua arte se nasce senza alcun dubbio dalla cultura (non c’è arte senza cultura), affonda anch’essa dentro la terra, nelle sue radici, nei suoi minerali, nel suo fondo di fuoco.»

La “terra” natia, non è quindi solo simulacro, non vive in sé, ma solo dentro l’uomo e la comunicazione e comunione avviene più attraverso la mano che attraverso l’occhio: «È la mano che ara, che zappa, che guida, è la mano e l’intelligenza della mano, la mano interiorizzata, divenuta forma intellettuale e cultura, la sola che sia mezzo ma anche ragione di un lavoro e di un esserci, è la mano che può condizionare lo sguardo È la mano, il tatto sensibile delle dita e del palmo, a sentire le asperità della terra, le parti più rugose, addirittura quelle taglienti, urticanti, e a distinguerle da quelle più arrotondate, morbide, ed è la mano che agisce sempre dentro l’interpretazione e la descrizione dell’artista (il pittore, il narratore, il poeta, il musicista).

È la mano che la raccoglie, la coltiva, la conserva, la cerca e la nasconde, magari solo metaforicamente, come archetipo di nascita e di morte, luogo di continuità e di appartenenza da cui si parte e a cui si ritorna.» (G. Bertone)

È la mano che la descrive, che la racconta, che la interpreta.

La terra si fa allora ricerca: empatia e comunione affettiva, immedesimazione protettiva e rigenerante, luogo di metafore e simboli in cui un’esperienza individuale riflette su se stessa e si frantuma, partecipa alla memoria culturale e al pathos degli eventi, li commenta, li contestualizza, ponendosi, allo stesso tempo, come oggetto sia di meditazione sia di contemplazione individuale, non diventa mai una “veduta”, un telone di sfondo staccato dall’azione e dagli uomini.

Anche nel momento di passaggio o di trapasso da un posto a un altro, nel viaggio (multiplo) alla ricerca di una nuova dimora, quando lo spazio interno al quadro si apre sull’esterno, è la terra ad accompagnarci, a tutelarci come nume benefico o, se diventa malefico, a provocare quella perdita d’identità che può diventare angoscia, “spaesamento”, per l’appunto.

Forse per questo lascito antropologico, (una pluralità frastagliata di scenari dentro un unico orizzonte) gli scrittori veneti rivelano, nella pur ampia gamma di voci, sorprendenti tratti comuni; nella varietà dei percorsi individuali, alcuni intrecci, alcune riprese tematiche, alcune coincidenze tipologiche o ricorrenze linguistiche non si possono considerare aspetti marginali o accessori.

Ritroviamo: un sensibilissimo senso del passato autobiografico e del suo lascito antropologico, storico sociale e politico; la cultura del lavoro; un sentimento poetico dell’interno, degli affetti e dei valori fondamentali dell’uomo (la famiglia, la casa, il paese, il paesaggio); un gusto avventuroso del vivere e del viaggiare (il desiderio del fuori); un profondo attaccamento alle tradizioni e alla religiosità pagana, nativa; un rapporto di amore-odio inestricabile con la fede e la religione; un’irrequieta predilezione per il soprannaturale, il fantastico visionario, l’allegorico, surreale e onirico; una tangibile fiducia nella scrittura come terapia, come conoscenza critica della storia, come denuncia delle ingiustizie e dei soprusi commessi contro l’uomo e la natura, della violenza della guerra o dello scontro sociale e politico.

Un incisivo, singolare e originale contributo viene offerto dagli scrittori e dalle scrittrici venete in particolare al rinnovamento delle strutture letterarie dei codici espressivi.

Basti pensare al colorismo conversevole e musicale, alla natura mnestica e non realistica  di Comisso, all’affabulazione favolistico-popolare e al gusto gotico di Buzzati, all’ambiguità elevata a cornice scenografica in Piovene, alla scansione irrelata e nevrotica del discorso associativo di Berto, alla tecnica chagalliana e all’epifania alfabetica degli elzeviri di Parise, al funambolismo narrativo tra microantropologia culturale e linguistica in Meneghello, all’autobiografia come invenzione in Neri Pozza, all’espressionismo della lassa prosastica di Camon, al realismo grottesco e antimpressionistico di Cibotto, al sentimento della storia in Rigoni Stern, al pastiche pittorico di Neri Pozza, aritmo empatico delle storie contadine di R. Pascutto, al petel caleidoscopico di A. Zanzotto, alla «lengua mia» di G. Noventa, al gusto dell’intreccio e dell’avventura di A. Ongaro. Senza dimenticare  la sintesi espressiva di lingua e dialetto nel mondo tragico e chiuso delle protagoniste di Paola Drigo alla prosa vigorosa dei romanzi della montagna, della miseria, della solidarietà femminile e delle leggi del patriarcato in Giovanna Zangrandi, (nome de plume di Alma Bevilacqua), e, più in generale, al gusto diffuso per il ritratto minuto, attento ai fatti dell’esistenza quotidiana e alle vicende di personaggi marginali, ripresi da un’angolatura malinconica, tragica o paradossale e che compongono una singolare galleria di lunatici, buffi, strambi, di semplici, di beghine e di zitelle, di donne coraggiose o umiliate, di bambini, adolescenti, scaltri, ingenui, offesi.

Estranea a ogni forma di radicalismo, al timbro della tragedia, questa narrativa “eccelle” «nell’arte delle sfumature e dei mezzi toni», dell’ironia bonaria, ma manifesta allo stesso tempo un gusto spiccato per la satira corrosiva, il sarcasmo e il grottesco, con cui contrassegna perfino il recupero memoriale, il dato cronachistico, l’indagine storica o lo scavo di coscienza

Guido Piovene definisce, argutamente, questa attitudine come la «vena di nevrastenia fantastica […] d’una famiglia […] di caratteri saturnini, strani, intricati, fegatosi, misantropi e un po’ deliranti; funghi cresciuti sottoterra e pipistrelli cavernicoli.»

Le categorie dei generi moderni risultano parimenti sfumate e oscillanti; ritroviamo miscelati insieme il pittoresco, il poetico, il romanzesco e lo stesso vale per la tipizzazione del nobile, del rustico, del piacevole, del serio, del triste, del disperato, del magnifico, del terribile o del voluttuoso.

 

Pur senza alcuna pretesa di forzare una continuità e una contiguità che non possono risultare valide e sostenibili criticamente per un lungo periodo, procedendo in questa sorta di “mappatura” di tendenze e di scelte stilistiche proprie di un “regionalismo” letterario che non si è mai identificato con una posizione di marginalità o autoreferenzialità, certe ricorrenze singolari sono rintracciabili anche nelle opere degli scrittori dell’ultimo ventennio del Novecento.

Ostentazione dell’autobiografismo anarchico, immersione vorace nella spettacolarità del mondo, rassegna dell’immaginario giovanile, fantasia visionaria e picaresca, vitalismo narcisistico e pathos straripante, evocazione dei tortuosi anfratti della coscienza, delle atmosfere angoscianti (il mistero della malattia e della morte), ma anche azzardo del punto di vista, «sguardo grandangolare», iperrealismo dei dettagli, ossessione visiva, identità di genere, segnano la rivalsa delle microstorie, la scoperta delle mille particelle che compongono e scompongono il personaggio in un mondo in cui la parola scritta accetta l’assedio e l’invadenza dei nuovi linguaggi della velocità e della pubblicità, del cinismo e della superficialità, del consumismo, ma anche si ribella alle consuetudini dei codici con deviazioni e fughe molto interessanti. Ricordiamo alcuni esordienti dell’ultimo ventennio del secolo scorso e altri apparsi più recentemente, chiedendo venia subito per qualche inevitabile dimenticanza: G. Bettin, R. Bugaro, G. Mozzi, M. Franzoso, R. Ferrucci, T. Scarpa, G. Marinelli, M. Carlotto, V. Trevisan, M. Covacich,, M. Mancassola, M. Signorini, M. Righetto, A. Garlini, M. Corona, G. Montanaro, F. Maino, M. Righetto, G. A. Villalta, M. Strukul, F. Ervas, M. Cuomo, Roberto Plevano.

Pur attingendo ognuno a esperienze diverse dentro un variegato orizzonte esistenziale, emerge un profondo interesse per la sperimentazione di nuove categorie «del mostrare e del raccontare»: ne scaturisce un originalissimo impressionismo “espressivo” che, muovendo dal desiderio di reinterpretare il reale rifacendosi anche alla sua territorialità, non trascura il confronto con il frenetico cambiamento che ha trasformato il piccolo centro, da microcosmo appartato, a periferia grondante di cultura globale e induce, alla fine, a rimeditare il profilo complessivo di un paesaggio che già si sapeva ricco di stimoli e di inventiva e che conserva questo humus ancora fertile, persino  malgré soi.

Scriveva Paolo Barbaro: «c’era un Veneto di campagna e un Veneto di città (per noi Padova e Vicenza), un Veneto di isole e di coste (Venezia, Chioggia); c’era un Veneto di artigiani che erano anche contadini, di operaie che erano anche contadine, madri di famiglia, nonne dolcissime, madri-padrone, e non so quante altre cose; […] Soprattutto c’era attorno a noi un Veneto di fiumi: quanti –Tagliamento, Livenza, Lemene, Piave, Brenta, Bacchiglione, Dese, Adige…fino al Po e al suo Delta misterioso.»

C’era e forse c’è. Ma il tracciato originario sulle mappe dei loro maestri era diverso; col passare del tempo il “territorio” ha modificato il perimetro e l’area, il paesaggio e le atmosfere, fagocitando le suggestioni di paesi lontani, accettando l’invadenza di una rete di traiettorie divergenti, trasversali e longitudinali.

Chi scrive, oggi, guarda da una “casa” che ha vetri, lenti e specchi che amplificano, oltre l’unicità, la reversibilità, l’incertezza o la precarietà delle esperienze individuali e si trasforma, così, in «luogo in cui si può ritrovare e perdere la propria identità, labirinto delle meraviglie e degli inganni in cui lo sguardo si identifica, misura, si orienta, può perdersi, ritrovarsi e godere di se stesso, smarrirsi nella meraviglia o sprofondare nel terrore.» (A. Costa, A. Brusatin)

Senza smettere mai di confrontarsi con la pagina bianca intrisa di acque e terre.

  1. Continua

    Chemotti* Scrittrice

 

 

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