di Mario Coglitore*
“La società è organizzata non tanto dalla legge, quanto dalla tendenza all’imitazione.”
Carl Gustav Jung
“We are all born originals – why is it so many of us die copies? (Nasciamo tutti originali – perchè così tanti di noi muoiono copie?)”
Edward Young
Il molto discusso professor Jung, psichiatra e psicanalista notissimo, fuggitivo della “chiesa” freudiana e ribelle famoso, aveva ragione. All’inizio tutto procede che è una bellezza; un attimo prima dell’imprinting che i nostri genitori, e per estensione la cosiddetta società, si ingegnano a fornirci per spingere a imitarli, con incontrovertibili suggerimenti su come pensare questo piuttosto che quello, assumere un atteggiamento piuttosto che un altro, reagire così piuttosto che colà, assuefacendosi all’insieme delle regole che presiederanno ogni nostro comportamento futuro, un attimo prima, dicevo, la Pecora nera caracolla, un po’ incerta, tra i “connettomi”, citando Sebastian Seung, neuroscienziato di un certo peso in ambito internazionale. Ora, non starò qui a ragionare troppo sulla “rete connettomica”, tentando di spiegarvi cos’è, perché ho fatto fatica a capirlo anch’io. Lo so, dovrei tralasciare le letture complicate e buttarmi sui fumetti: molte figure e poco testo, l’ideale per una vita serena. Comunque sia, il “connettoma” sarebbe la totalità delle connessioni tra i neuroni di un sistema nervoso, vale a dire la trama che mette assieme tutti gli intrecci possibili tra le aree del cervello, che sono più d’una, come sapete, e ciascuna con la sua funzione specifica. «L’identità», dice Seung, «non sta nei nostri geni, ma nelle connessioni fra le nostre cellule cerebrali», i “connettomi” appunto.
Pelosa com’è, la Pecora corvina avvolge alcun* (l’asterisco sta per alcune e alcuni) di noi nel morbido abbraccio del procedere in direzione contraria, comunque sia, qualunque cosa accada. Anzi proprio ci spinge perentoria, e meno male che non ha le corna robuste e attorcigliate dell’Ariete, sennò sai che allegria… Salta di sinapsi in sinapsi, tanto per non smettere con le citazioni scientifiche che comprendo a metà, e lancia messaggi di ribellione scavalcando da buona ultima le staccionate che popolano le nostre notti insonni non appena abbiamo finito di computare le sue colleghe “in bianco” per addormentarci. Diciamoci la verità: avete mai contato pecore nere per prendere sonno? Certo che no. Vedete soltanto consolanti, amorevoli, miti e zompettanti candide pecorelle. Ecco, le pecore bianche sono come i geni, trasmettono i caratteri ereditari, colore degli occhi, altezza, forma del naso e via dicendo.
Ma è quella nera, quella “connettomica”, che gioca con ciò che sarete davvero, con la vostra identità in una parola. Il cappellano e teologo Young, in assonanza con Jung e chissà se è un caso avrebbe chiosato Carl Gustav, bene fa ad attirare la nostra attenzione specificamente su questo: l’originale è sempre meglio della copia, anche se nel tempo assomigliarsi tutti è molto più consolante che restare uno dei pochi punti neri immediatamente visibili in un mare di fulgida purezza.
Per ottenere il nero si possono mescolare colori diversi tra loro, molti dei quali assolutamente brillanti nella tonalità, per esempio rosso, giallo e blu in parti uguali, o ancora colori complementari come blu e arancione. La Pecora nera, dunque, porta in sé un’anima sgargiante che semplicemente non si vede, così di primo acchito. Ma c’è. Deve essere questo che la rende così speciale, vale a dire l’essere il risultato di una mescolanza di tinte forti.
Lo sapete già da voi, d’altra parte, che il nero è tonalità associata al lutto, all’oscuro, a ciò che provoca brividi di paura, al non comprensibile, all’angosciante. E chi più ne ha, più ne metta. Immersi nel nero non si vede nulla, gli occhi sono esclusi dalla vista del mondo, restano l’udito e il tatto come sensi disponibili a fornire sollecitazioni. La pecora è nera, dunque, perché lascia sospesi interrogativi non dico inquietanti ma di sicuro pruriginosi, con quel suo risaltare schietto nel mucchio, rasserenante massa bianca che sembra rimandare benefici effetti a chi osserva. Eppure sarebbe facile, quasi banale, ricordare che il bianco esteso e uniforme diventa accecante sotto una luce forte e che si smarrisce l’orientamento in tanta luminescenza lattea, mentre il nero semplicemente vi sottrae qualcosa alla vista ma non ve la distrugge con bagliori impossibili da reggere allo sguardo.
Quindi, tra le tante informazioni volte a fare del nostro Sé una splendida macchina vivente omologata, copia di tante altre macchine, quelle sul nero fanno incubare in noi il germe della diversità intesa come alienazione, distanza assoluta dalla normalità, impossibilità di redenzione. La Pecora nera proprio non riesce ad essere accettata dalla comunità. Al massimo fa un tantino di simpatia, per carità in casi rarissimi, eccezioni che confermano la regola, ma resta altro dal consueto, da ciò che è ovvio sia così e non diversamente da così.
E’ la nozione di “non conforme” che dobbiamo introdurre, a questo punto. Si è neri perché non ci si adegua al regime del gruppo, sia esso famiglia, congrega di amici, insieme di colleghi, squadra di calcio, pallavolo, sci, ping-pong, non ha molta importanza. Gli allevatori di pecore, per fare un esempio, trovano molto più comodo utilizzare la lana bianca poiché ovviamente è facile da colorare al bisogno; la lana nera no, come si capisce ad intuito, e diventa un bel problema considerare la Pecora nera un elemento gradito del gregge perché non soltanto non si integra, ma anche dà dei problemi di gestione. Non è, per essere chiari, nemmeno economicamente profittevole. Che imbarazzante faccenda.
L’espressione “pecora nera”, a voler cercare il pelo nell’uovo, è “polirematica”. Lo segnala perfino Wikipedia, la più inattendibile tra le enciclopedie on-line, posto che di enciclopedia si tratti. Vale a dire, cito il Nuovo De Mauro disponibile in rete a tutti i naviganti, che è definibile come «… gruppo di parole che ha un significato unitario, non desumibile da quello delle parole che lo compongono, sia nell’uso corrente sia in linguaggi tecnico-specialistici».
Perbacco. Ha un significato unitario, addirittura; insomma diventa una cosa unica e bruttissima, quasi il fluido e inarrestabile nero di seppia che il mollusco in questione molla per disorientare l’avversario e tagliare rapidamente la corda in caso di pericolo. Secondo il De Mauro, in un’altra mirabile sintesi, la Pecora nera «spicca per le sue qualità negative o è malvista», povera stella. Il cerchio magico del desco familiare, si dice spesso “la pecora nera della famiglia”, primo fra tutti, cova al suo interno il suo contrappunto impresentabile che poi si affaccia in società a fare ancora più danno. Non è un caso che all’origine del fastidioso intoppo che mette in discussione la catena del comando, perché di questo si tratta, ci sia questa impresentabile deviazione dalla norma che sbeffeggia l’educazione di mamma e papà, e più di una volta anche di nonna e nonno. La Pecora nera incrina il composto ordine del buono e del bello che, si sa, presiede al nostro vivere collettivo. Ecco il motivo per il quale va individuata, classificata, studiata, corretta per quel che è possibile, ricondizionata e reinserita nel circuito di una tradizione consolidata.
Lo stampo originale va distrutto, nel frattempo, e sostituito con qualcosa di decisamente più sobrio, maggiormente confacente ad accettabili costumi. Anche per “la gente che vede”, avrebbe detto mia zia che intendeva la vita come adeguamento totale, senza se e senza ma, alle regole del buon cristiano. Insegnamento, quest’ultimo, che spero vorremo tenere nel giusto conto.
D’altronde, per gli occidentali, che della luce hanno fatto un riferimento simbolico positivo irrinunciabile, il nero vale per listare a lutto il mondo quando il male si impossessa delle cose terrene. Qualunque cosa sia il male, beninteso, concetto che varia di epoca in epoca, a seconda del bisogno. Figuratevi trovarsi in casa, o avere vicino, una Pecora nera: Dio ce ne scampi, suona la sirena dell’allarme con quelle frequenze fastidiose e insopportabili. Partono gli spruzzi dell’antincendio e la pecora bagnata non ha un odore gradevole con tutta quella pelliccia gocciolante.
Ultimamente, in aggiunta, il nero è colore che viene da un altrove sconosciuto e male inteso, passando per acque altrettanto buie e tempestose. Se invece c’è il sole e il mare è piatto e di un azzurro sconcertante le Pecore nere galleggiano su improbabili, dolorose imbarcazioni tra rifiuti biologici e disperazione, contando i morti nel patimento di ore segnate dal niente. Noi Pecore nere in radice cubica, al contrario, abbiamo almeno il decoro di cibo e acqua e ci ingegniamo a crear problemi in un ordine sociale che non ne vuole sapere di considerare il nostro modesto apporto al deviare dal protocollo con insistenza ossessiva come un’opportunità di crescita, un gesto consapevole di rimessa in discussione dei parametri dell’ovvio per saltare oltre. Oltre la staccionata del sonno delle coscienze per dare ai sogni, anche piccoli, un’opportunità di realizzazione. Proviamo, sul morire del tempo della giustizia, a salvare la Pecora nera e recuperare il nostro spartito originale; da qualche parte, di sicuro, si conserva ancora perché è fatto della sostanza della vita.
“Nero è il colore dei capelli del mio vero amore”, cantavano i Gaelic Storm nella loro Black is the colour. Mica bianco.
*veneziano, ha insegnato Relazioni internazionali e Storia contemporanea a Venezia presso l’Università Ca’ Foscari, Dipartimento di Studi linguistici e culturali comparati. Ha scritto numerosi saggi e articoli di argomento storico e storico-culturale. Nel 2016 ha pubblicato Tris. Per una teoria dei sussurranti (pamphlet semi-serio), la sua prima incursione nel mondo della narrativa.