Una mattina si è decisa. Finalmente.
Piangendo ha cominciato a liberare la mia casa dalle sue cianfrusaglie, ogni tanto si sedeva sul divano per asciugarsi quelle inutili lacrime mentre io temevo che forse, stesse cambiando idea. Invece poi si rialzava lentamente e un poco ingobbita – stava chiaramente recitando la parte della vittima – riprendeva a riempire borse e scatoloni.
La guardavo trafficare tranquillamente seduto al mio tavolo da lavoro, sorseggiando un caffè e ripensando all’assurdità di tutti quegli anni di convivenza.
Francamente, una donna prima o dopo se ne deve andare.
Via. Aria, pensavo.
Ecco, brava. Liberami il salotto dagli inutili monili. Quella mania per gli oggetti di antiquariato. Non ne sapeva nulla lei di antiquariato e si ostinava a comperare cianfrusaglie spacciandole per antichità.
Mi lanciava degli sguardi biechi di rimprovero che mi divertivano, perché avevo l’impressione che stesse leggendomi nel pensiero e più mi si formava questa idea, più mi intestardivo a fissarla, con cattiveria.
Guardami, sì. Lo so che sai che smanio dal desiderio di vederti uscire da quella porta, pensavo, con le tue lacrime, piena dei tuoi bagagli.
Come ho potuto sopportarti per tutto questo tempo?
Ma guardati, pensavo. Una pentita femminista quarantenne costretta a finire i suoi giorni con la scritta peace and love tatuata sul sedere. La immaginavo da vecchia, invalida e sola in qualche misero ospizio di periferia: quasi mi pareva di sentirle, le risate degli infermieri, davanti a quel suo flaccido culo tatuato.
Guardati. Con quella maglietta peruviana con gli aloni di sudore sotto le ascelle e le zeppe ai piedi.
Quanto le odio quelle tue zeppe. Venti centimetri di suola gommata. Tu lo sai che le odio: continui a metterle per farmi un dispetto, pensavo.
I movimenti, i comportamenti, il modo di parlare: tutto quello che un tempo avevo ammirato della sua persona andava perdendosi dentro le sue tristi scatole di cartone.
Durante quell’incantevole lavoro di sgombero, lei prendeva in mano un oggetto, restava un momento a soppesarlo tra le mani indecisa, poi, come in cerca di appiglio, si voltava verso di me e con una vocina fioca strozzata mi chiedeva:
« E questo?». «Mio!», le rispondevo secco. Bastava quella mia fredda risposta per farle salire nuovamente le lacrime agli occhi e senza fiatare, riporre tremante l’oggetto da dove l’aveva preso.
Quanta fragilità: sembrava sgretolarsi, corrodersi. Ma non mi faceva tenerezza, no. Ci godevo anzi. Non aveva energie per controbattere e per me era un ulteriore vantaggio: tutte le cose in comune diventavano mie automaticamente, eppure sembrava non stancarsi di chiedermi in continuazione «E questo?» e sentirsi irrevocabilmente rispondere «Mio». Nutriva forse la speranza che io mi intenerissi. Figuriamoci. Gioivo dal profondo.
Osservandola girare inquieta e avvilita per la casa, mi arrivavano alla mente i suoi gesti quotidiani, quelli che più detestavo e che ripeteva sempre allo stesso modo ormai da troppi anni.
Allora eccola che prepara il caffè, mentre il gatto le si struscia tra le gambe. È davvero brutta, come ogni mattina. Ha molte cispe. Sono le cispe peggiori che io abbia mai visto. Sono giallissime e cremose. Ha le labbra secche e ai bordi si è rappresa della saliva. I capelli sono così grassi da sembrare grigi. Indossa un pigiama felpato a salopette tempestato di tanti Winnie the Pooh. Winnie the Pooh che lecca un gelato, Winnie the Pooh che gioca con la palla, Winnie the Pooh che dorme e sogna un barattolo di miele, Winnie the Pooh che pesca, Winnie the Pooh che fa il bagno…il pensiero di incontrarla il mattino ridotta in quello stato, mi paralizzava.
Lo ingozzi di continuo quell’animale, pensavo.
Tu, ingorda patologica, che per non ingrassare elimini dalla lista della spesa pane, condimenti e dolci, sopperisci al sacrificio rimpinzando il gatto. Guarda come hai ridotto quella povera bestia. Un agile felino trasformato in una triste palla di lardo che tu, irragionevolmente, definisci gongolante.
Finalmente. Te ne vai. Abbiamo finito con i Madredeus, Enya, Loreena MCKennit, abbiamo finito con C’è posta per te, Maurizio Costanzo e La macchina del tempo.
Televisione spenta, musica classica e un buon libro.
Era ora, pensavo.
Il piacere di odiarla cresceva di minuto in minuto. Desideravo ferirla, farle del male. Immaginavo di stringere fra le dita un piccolo lembo della sua pelle. Affondare le unghie e girarle, rigirarle. Ero sconvolto, mi ripugnava.
Eccola, allora, che mi tornava in mente.
Affacciata al balcone, lei, che canticchia con quella sua voce stridente. Sento il rumore delle onde del canale che vengono ad infrangersi contro la parete. E’ un richiamo, che da sottile si fa sempre più insistente, esasperante.
«Sei tu, passerotto?» ed è già immersa. Dopo un breve urlo smorzato, è già lunga travolta dai flutti, tra le alghe limacciose e viscide del gelido canale.
E’ troppo breve il desiderio di salvarla, mentre la osservo oltrepassare il ponte, insieme alla corrente.
Così la pensavo, quella mattina, mentre ignara, con gli occhi arrossati e gonfi mi chiedeva: «E questo?».
Poi ancora, di nuovo, all’improvviso, osservandola entrare e uscire da una stanza all’altra, mi tornavano alla mente altre scene di lei, certi suoi detestabili atteggiamenti.
Quelle sue nocche, il fastidioso rumore delle sue nocche.
Sapeva bene che quando lavoro nel mio studio non voglio essere disturbato, eppure, trovava sempre, per qualsiasi sciocchezza, il coraggio di bussare alla mia porta.
Lo faceva piano, con una delicatezza forzata che mi disturbava ulteriormente.
Sentivo le nocche della sua mano ticchettare titubanti.
Il più delle volte fingevo di non aver sentito, ed era allora che mi accorgevo cosa nascondeva quel suo gesto così falsamente timido. Era capace di far salterellare quella mano sulla porta di continuo.
Riusciva ad alternare la bussata al richiamo vocale seguendo un ritmo esasperante.
« Passerottooo» sussurrava al di là della porta.
« Passerotto, hai un minutino?».
In aggiunta ad una serie raccapricciante di diminutivi che utilizzava di continuo, mi affibbiava quel nomignolo infame, che non sono mai riuscito a toglierle di bocca.
Il suo viso mi mostrava l’espressione di una bambina birichina, che ha fatto una marachella.
Sembrava non finire mai di vagare per la casa trascinando scatoloni. Era in uno stato confusionale; prendeva i maglioni, li appoggiava sul tavolo del salotto, li apriva, li ripiegava, poi li riportava in camera.
Mentre lei prendeva tempo, io continuavo a ricordare.
Stringe tra le braccia il figlio di una sua amica. Lo culla piano. Gli sfiora i piedini nudi con le dita. È visibilmente commossa.
La stanza da letto è buia. Io sono molto stanco mentre lei non riesce a prendere sonno. La sento girarsi, cambia continuamente posizione. Qualche attimo di calma e poi, all’improvviso: «Lo faresti un bambino con me?».
Me lo sarei dovuto aspettare.
«Alla tua età, con ogni probabilità, se non ti muore in pancia ti nasce menomato».
Tutta la notte con il sottofondo dei suoi fastidiosi singhiozzi.
Alle sette di mattina mi scuote brutalmente. È già in piedi, maglietta peruviana e zeppe ai piedi.
«Questa volta me ne vado», mi dice con apparente convinzione.
E così te ne vai, pensavo. La guardavo sollevare con fatica i vasi di gerani del balcone. Si porta via anche quelli, pensavo. Per un breve attimo ho provato una sensazione di vuoto che mi ha spaventato. Te ne stai andando per davvero allora, pensavo rigirandomi tra le mani il mio orologio da taschino. Eccola che mi tornava in mente.
«Sorpresa!», esclama allegramente. Mi nasconde qualcosa dietro la schiena. Cerco di girarla afferrandole le spalle.
Si divincola, indietreggia. «Avanti, che cos’è?», le chiedo. Insiste con il giochino per qualche minuto, poi, con uno sguardo accattivante mi porge l’orologio d’oro da taschino che credevo ormai perso.
Quando la conobbi rimasi affascinato dai particolari minuti del volto. Dalla delicatezza dei suoi gesti. Certo, momenti belli ne avevamo passati. Eccola di nuovo.
Soffia sopra un filo d’erba facendolo suonare. Ha un baffo di marmellata sotto il naso. Ride. Porta i capelli come piacciono a me, sciolti sulle spalle. E ancora.
È seduta nuda sopra il mio culo, che mi massaggia la schiena. E poi ancora.
Mi insegue per tutta la casa ridendo, con un barattolo a pressione di panna montata in mano. Mi afferra. Le portefinestre del balcone sono aperte, soffia una leggera brezza. Mi punta addosso la bomboletta. La schiuma si spande nell’aria, palline di panna si sollevano volteggiando. Lei mi guarda incantata.
Momenti belli ne abbiamo passati, pensavo.
Un’altra immagine.
Con il vassoio fumante della colazione tra le mani. Tiene l’accappatoio sulle spalle come fosse un mantello. Un tenue raggio di sole filtra dalle tende e le illumina la fine peluria tra le cosce. Pulviscolo nell’aria.
Perle d’acqua luccicano tra i capelli, sul collo.
Mi assale il desiderio di stringerla e dirle quanto la amo.
«Sei bellissima, vieni più vicino».
Lascia cadere a terra l’accappatoio con sensualità e si sdraia sopra di me, fruttata e dolce.
«Sono il tuo passerotto», le dico.
Mi sfarfalla le ciglia sulla fronte.
Si illumina, arrossisce.
Cominciavo a sentirmi stanco. Non la sentivo più. La casa era immersa nel silenzio.
Silenzio.
Troppo silenzio.
Se n’è già andata, ho pensato.
Se n’è già andata…
Ad un tratto, tutto è precipitato. So che cosa è successo, è bastato quell’ultimo fatale pensiero.
Se n’è già andata.
Uno. Due. Tre flash.
Me la sono immaginata con un altro.
Suona fili d’erba con un altro. Lui, l’ho visto distintamente.
Poi, scene di sesso. Incredibili, nitide.
Lei che rotola in un letto che non è il nostro, in una casa che non è la nostra, con un uomo che non sono io.
Un colpo al cuore.
È stata una questione di pochi attimi, un passaggio immediato e imprevisto ma consequenziale.
Mi sono alzato, lentamente. Ho attraversato la cucina, il salotto. Era in camera. Stava togliendo delle mutande da un cassetto. «Resta», le ho detto, «Ti prego. Non te ne andare».
Mentre già pentito ma con un inaspettato senso di colpa l’aiutavo a riporre la sua robaccia tra gli scaffali e dentro gli armadi, tra un suo sorriso riconoscente e un mio languido sguardo commosso, è stato per un brevissimo attimo, ma è stato inevitabile: ho visto con troppa chiarezza i suoi grassi capelli grigi del mattino scorrere via lontano, tra le alghe, insieme alla corrente.
Passerotto? Sei tu, Passerotto?
Passerottooo…
Sono sbalordito.
Perché mi chiamano così?
Come fanno a sapere?
Parli nel sonno, questo mi dicono.
Per molte notti, delirando.
Già. Parli nel sonno, mi dicono i detenuti.
A volte lo urli, a volte lo gridi.
Chiuso qui dentro resterò Passerotto fino alla fine dei miei giorni.
Cristo. I miei giorni, chiuso qui dentro, non passano mai.
Valeria Falso
(Scuola di scrittura creativa di Padova)