“[…] Perciò prendile e amale. Amale vestite, che a spogliarsi son brave tutte. Amale indifese e senza trucco, perché non sai quanto gli occhi di una donna possono trovare scudo dietro un velo di mascara […].”
Alda Merini, Le donne
All’inizio c’era unicamente Adamo. O così almeno raccontano. Poi, per dargli un po’ di compagnia, l’Onnipotente ha pensato di dar carne anche ad Eva, benedetta lei, che è cresciuta con lo stigma della dannata. Estratta dal corpo di Adamo, da una sua costola come ricorderete, nel racconto cristiano la poveretta discende da lui in tutto e per tutto. Porta impresso con sé, dunque, sin dall’inizio della storia dell’umanità il marchio della subordinazione. É il semplice prodotto di una esclusione originaria, estroflessione del corpo dell’uomo che in qualche modo la genera. Dopodiché accadrà sempre il contrario: le donne daranno vita agli uomini, per quanto “con dolore” una volta estromesse dall’Eden, assicurando la riproduzione della specie.
Colpevole per antonomasia, Eva dilettandosi nel meraviglioso giardino a cogliere succosi frutti qua e là, non riesce a resistere alla tentazione di assaggiare anche quelli proibiti, appesi all’albero della conoscenza del Bene e del Male. Destino infausto: si apre la voragine del mondo reale, in cui lei e il malcapitato “primo essere umano”, padre della sua stessa compagna, precipitano incontrando le tragedie della vita cui non erano in origine destinati.
Nel mito delle religioni del Libro – ricordo brevemente che i nostri due antenati primevi sono tali anche secondo l’ebraismo e l’islam oltre che il cristianesimo – insomma la coppia più conosciuta del nostro immaginario di bambini, adolescenti e infine adulti ha presentato da subito non poche lacerazioni emotive, gravosi sensi di colpa (Eva, ne converrete, ne avrà avuto certo più di qualcuno), angoscianti interrogativi sul senso stesso di una relazione così contrastata, patimenti di vario genere, ansie esistenziali e, soprattutto, enormi problemi con i figli: non vi intratterrò su Caino e Abele, faccenda piuttosto spinosa.
In una parola, la tradizione ci rammenta quanto il rapporto tra uomini e donne sia stato dagli albori dell’umanità parecchio complesso. Per non dire machiavellico. Ora, la partizione di genere che presento rimanda esclusivamente alle coppie etero-sessuali, ma non dimentichiamo che non ci sono solo quelle. Nel caso di specie, mi viene più facile proporre una riflessione intorno a una sin troppo ovvia, e tradizionale, dinamica tra rappresentanti di due sessi differenti, quella in cui, d’altro canto, sono nato e cresciuto con tutti i limiti del caso. Ognuno fa quello che può.
Torniamo ai nostri due poveretti divorati dal peccato originale e assillati dal maligno serpente che ne ha forgiato il futuro. Eva ha avuto la sorte peggiore, non ci sono dubbi. Con le buone o con le cattive si è vista costretta ad abbassare troppe volte la testa, frantumata nel corpo e nello spirito. La subordinazione è stata, ed è ancora, la cifra del suo cammino. Tant’è che in questo contesto antropologico, quello occidentale intendo (non va meglio altrove, forse va addirittura peggio), ancora si fatica ad attribuire alle donne lo spazio di riconoscibilità e di rispetto che meriterebbero. Il rispetto, poi, viene meno molto più spesso di quanto non si ammetta pubblicamente. Così, nel palcoscenico a volte un po’ affollato dell’esistenza a noi contemporanea l’oscurità cala di frequente, magari sfumando con esasperante lentezza dal chiaro allo scuro.
Non è, dunque, che le luci si spengono di colpo. Nelle mezze tinte di ombre che scivolano sui muri e trovano rifugio in angoli remoti, si incuneano mormorii segreti e spiacevoli grammatiche della sottomissione. É l’atmosfera ideale per voci basse e suadenti, che divengono grida concitate quando la violenza fa esplodere tutto, non di rado in un bagno di sangue. Quando ormai non c’è più nulla da perdere e non resta che affidarsi a gesti estremi nel caos di anime che hanno perso qualsiasi parvenza di umano.
Alcuni passi più indietro, nel lento procedere di giorni uguali a se stessi dei quali a un certo punto non si comprende più il senso, cova immobile e aderente come la colla per tappezzeria un malessere del quale molte e molti di noi sono stati protagoniste/i. Nel migliore dei casi spettatrici e spettatori.
L’Adamo di oggi ha elaborato stratagemmi virtuosi e terribilmente infidi per costringere Eva in eterna punizione dietro la famosa lavagna. L’arte del sussurro non è diletto da principianti, ci vuole l’esperienza che segue ad un lungo apprendimento, seguendo scrupolosamente i protocolli di un apparato culturale di cui questa società, la nostra, è impregnata fin nelle radici più profonde. Pensate che il disturbo, perché di questo si tratta, non si scandalizzi la maschia italianità pettovillosa poco disponibile al dialogo, è entrato perfino nella nosologia psichiatrica. Ne ha parlato per la prima volta Patrick Hamilton in un dramma teatrale del 1938 intitolato Gas Light. A seguire nel 1944, sulla falsariga della sceneggiatura per il palcoscenico, una splendida Ingrid Bergman si lascia sedurre e quasi uccidere dall’ambiguo Charles Boyer per essere salvata infine dal malinconico e provvidenziale Joseph Cotten nel film, intitolato appunto Gaslight, diretto da George Cukor. Nella pellicola, rigorosamente in bianco e nero, il personaggio di Boyer è maestro nel sussurro: approfittando dell’affievolirsi dell’intensità delle luci a gas nella dimora avita della Bergman, mentre frammenti di angoscia obliqua conquistano antiche stanze e danno i brividi, lui cerca disperatamente in soffitta i gioielli della defunta zia della moglie, sottraendo, appunto, per vederci meglio, gas dall’impianto dei piani inferiori. Killer di anime candide, spinge verso una lenta e inesorabile pazzia la giovane sposa nella vecchia casa dove era cresciuta e dove la compianta zia, nota cantante lirica, era stata assassinata proprio da questo regista di chiaroscuri, pianista di poco talento con il vizio del furto e dell’omicidio.
Di questo si occupa il gaslighter: di abusi psicologici, raffinati a volte e subdolamente mascherati, con i quali convince la vittima a sentirsi inadeguata, inadatta, colpevole, inutile, impaurita quando non terrorizzata, inarrestabilmente ansiosa; buona soltanto a dire e fare cose sbagliate. L’oggettivo, finisce per diventare il soggettivo; il soggettivo del persecutore, naturalmente, che ama solo se stesso e il proprio desiderio di comando, di potere e controllo assoluti. Il Paradiso perduto si trasforma nell’Inferno inverato, e per Eva poche le alternative: fuggire o subire. Sappiamo come perlopiù finiscono questi cortometraggi della vita, a volte veri e propri incunaboli dell’orrore, secondo quanto apprendiamo dai giornali e dalla televisione.
I “sussurranti”, il termine rimanda ad atmosfere tra il gotico e il surreale ma rende bene l’idea, provocano danni irreparabili e il più delle volte irreversibili. Capaci di scandire il loro personale delirio facendolo passare per amore, attrazione irresistibile, emozione palpitante, sono vittime a loro volta di un’attrazione animalesca nei confronti di se stessi, ego ipertrofici che non trovano pace se non nell’abuso dei sentimenti degli altri. Delle altre, nel nostro caso, che sono travolte da istinti di compassione e di comprensione. Delle altre che patiscono dal profondo del cuore, incapaci di liberarsi dalla tela del ragno, vischiosa e a volte patetica. Una morsa che non di rado dilania.
Di “sussurranti” in giro ce ne sono più di quanti non si possa credere, disposti lungo una scala di pericolosità che va dall’artigiano al professionista, per così dire, seduttori imperterriti di fanciulle di età differenti e di differente ceto sociale. Fosse stato anche amore all’inizio, presto si trasforma in dramma e d’appresso in tragedia. Nel giro di tre fasi successive, dicono gli esperti, scandite dal ritmo della malversazione psicologica, l’uomo che sussurra mormora melodie che sono incanti alla partenza e che via via si incupiscono diventando litanie da messa per i defunti. Giù verso l’abisso della negazione: un primo momento di distorsione comunicativa, quando lei comincia a non comprendere i messaggi del partner e incredula attende rassicurazioni che non arrivano; un secondo momento in cui tenta di difendersi da falsità pronunciate che le risultano insopportabili; un terzo momento, la sconfitta definitiva, quando la depressione convince l’abusata che quello che l’abusante sostiene è la verità. La dipendenza è totale, e gli ultimi sprazzi di una volontà oramai ridotta a pezzetti si perdono nel rimestamento di una coscienza che si addormenta. Non potendo allontanare il suo carnefice, lei tenta di possederlo abbandonandosi nella sua stretta fatale.
Il “sussurrante” non molla mai. D’altra parte, appartiene ad una tradizione socio-culturale, perlomeno nel nostro Paese, che mette assieme consolidati folclori nazionali e paternalismi patriarcali che hanno trasversalmente indotto buona parte della popolazione maschile, prescindendo perfino dalla provenienza politico-ideologica, a pensarsi come elemento costitutivo e irrinunciabile di una realtà tutta declinata a favore del genere dominante composto di soli uomini.
E se il lupo perde il pelo, come dice il proverbio, ben difficilmente il vizio. Si tratta di una morbosità compulsiva ed erotizzante che acchiappa presto e bene nel cosmo femminile, indipendentemente dall’età. In un gioco raffinato di maschere, tipo quelle che in Mission Impossible permettono a Tom Cruise di assumere svariare identità – ma neanche Diabolik scherza se ci pensate bene –, il “sussurrante” si presenta come bravo ragazzo che veste i panni dell’adulatore per poi liberare l’intimidatore che è in lui, non raramente un feroce Mister Hyde.
Eva boccheggia lungo il doloroso viatico dell’annullamento fisico e mentale. Qualche volta ha un ultimo, disperato gesto di insubordinazione e davanti allo specchio ritrova se stessa pallida e vigile, ma è appena un attimo, un richiamo morganatico nel deserto. Dietro al velo di mascara spesso scorrono lacrime di dolore.
Mario Coglitore
Scrittore