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La lettura della domenica. “Parlami di lei”

5a settimana
«Alex sei libera il 7 gennaio? Devi andare a Parigi a intervistare Vincent Cassel.»
Sto scrivendo una mail a mio marito Andrea, quando Toni si avvicina trafelato alla scrivania. Si mette le mani sui fianchi. Pronuncia il mio nome per intero.
«Non sei in ferie, vero Alexandra?»
«No. Mi pare di no. Il 3 gennaio sono già in redazione.»
«Perfetto.»
Toni prende fiato. «Allora, Cassel è il nuovo testimonial del profumo di Yves Saint Laurent. Due battute su questa strabiliante essenza e poi gli chiedi tutto il resto, okay?»
«Quindi Monica Bellucci?»
«Ovvio. L’addetta stampa ha blindato le domande private. E il marchio è un nostro inserzionista. Dovrai fare un po’ di numeri per arrivare alla ciccia.»
«Noi vogliamo sapere quanto si amano, no?» aggiungo cercando di sembrare smart. Toni è pur sempre il mio vicedirettore.
«Insomma Alex volemo sapé se tromb-e-n-o» interviene con la sua parlata romanesca Simone Fazio, il caporedattore delle pagine di costume. Adora reggere il gioco cameratesco
di Toni. Simpatici, come no: gentili con i forti, forti con i deboli. Ridono, scherzano, si rimpallano battute maschiliste h 24. E per fortuna siamo in un settimanale femminile.
Simone ha la scrivania accanto alla mia. Lavoriamo in otto in un open space, i nostri confini sono solo piante comprate all’Ikea e schedari pieni di libri e vecchi numeri del magazine.
Io sono uno dei tre redattori della rivista. Sono al desk. Si direbbe back office negli ambienti non giornalistici. Mi occupo di star system, titolo e scrivo le didascalie dei servizi
fotografici di gossip & celebrity. Appena il caporedattore mi passa un servizio fotografico, per dire, di Kate Middleton, procedo subito con titolo e sommario.
“La commoner con stile che piace agli inglesi. Kate con abito da sera Jenny Packham, uno dei suoi designer preferiti.”
Ne sono ossessionata. Il guaio è che ormai inquadro come una didascalia anche le persone: prima noto il look, poi il viso, quindi il resto. Correggo anche le interviste dei collaboratori. E cerco di ridurle senza snaturare i loro testi, di solito sempre più lunghi rispetto alle righe previste. C’è spazio per tremila battute e ne arrivano ottomila. Sempre. Insomma: una delicata operazione chirurgica.
Simone trascorre le giornate a maltrattare al telefono le addette stampa, che poi sono giovani stagiste costrette a fare recall.
Lo scambiano sempre per Fabio Fazio. Lui, puntuale, ripete lo stesso copione. «Nun so’ Fabio, so’ Simone. Come ti chiami? Cinzia. Ecco. Allora Cinzia bella-de-zio, hai letto il nostro giornale? Secondo te facciamo recensioni teatrali? Me devi da di’: Jennifer Lopez fa un musical a sorpresa a Milano co’ Lady Gaga, allora sì che t’ascolto. Senti c’ho da fa’. Cià-a-a-o.» Poi sbatte il telefono. «E mo’ basta! Qualcuno dica a ’ste ragazzette de legge er nostro magazine.»
«Allora, Alex, l’incontro è fissato nel pomeriggio all’Hotel Costes in rue Saint Honoré. Quindi resterai una notte a Parigi. Ora ti giro la mail con i dettagli.»
Fantastico. Penso subito alla fuga da Colette, che si trova proprio a due passi dal Costes. È un concept store del lusso.
Piace ai fashionisti. Ecco, ci sono caduta ancora: un’altra didascalia.
Incontrerò Cassel e poi mi godrò quel che resta del pomeriggio. Andrò prima al Pompidou a gustarmi una mostra fotografica. Poi camminerò lungo la Senna al tramonto. E
assaporerò un bicchiere di vino rosso tra i colori serali di Parigi.
Tanto gli uffici stampa non concedono mai più di 20 minuti per testata. Del resto le risposte degli attori sono sempre le stesse e le domande di noi giornalisti pure. A volte mi piacerebbe sapere cosa pensino le star di noi cronisti costretti a chiedere: «Cos’è per lei l’amore?», «Cosa l’ha attratta di più nel ruolo del film», «Ha ancora sogni nel cassetto?» Hugh
Grant che intervista Julia Roberts per Cavalli & Segugi in Notting Hill non è una situazione lontana dalla realtà: è proprio così.
«Vado a pranzo che è tardi. C’ho ’na fame. Chi si aggiunge? Toni?» domanda Simone infilandosi la giacca nera da biker.
«Okay, arrivo, vado a prendere il cappotto.»
Sono le 13.50. Indosso una maglia beige oversize di cachemire di Brunello Cucinelli (comprata miracolosamente a una vendita per giornalisti a un quinto del prezzo), jeans a
zampa di elefante H&M e stivali Gucci vintage di pelle nera con tacco killer, recuperati da Laura Dols, un second hand di Amsterdam. Porto i capelli biondo miele legati in uno
chignon. Mascara sugli occhi e un filo di rosso opaco sulle labbra.
Faccio due calcoli veloci. Manca un mese all’intervista con Cassel. Da tre mesi ho cambiato colleghi e rivista e loro tutto sommato mi divertono. Ho 42 anni, ho un lavoro che mi piace, e un uomo che amo. Nessuno lo sa: sono alla 5a settimana.
••••••••••
Sono sdraiata sul divano. Mi hanno dimessa dall’ospedale.
Non so che giorno sia. Dall’angolo di cielo azzurro che vedo
potrebbe essere una giornata asciutta di settembre. Anche Milano le regala ogni tanto. Sono in un tunnel fatto di ovatta. Da cui non riesco a uscire, da cui non so come uscire.
Ogni giorno mi torna in mente un dettaglio. Non riesco a mettere ordine tra i miei pensieri. Mi sveglio continuamente di soprassalto e vedo il verde dei camici che mi abbaglia, gli occhi dell’anestesista che mi scrutano. Mi riaddormento e poi mi risveglio e vedo il cappellino rosa di Martina.
Sono come un pugile ko. Che ha perso e nel suo dolore sordo e martellante alla faccia percepisce tutto al rallentatore.
Con Andrea non riusciamo a parlarne. Se inizia a ricordare, urlo. Ho un rigetto, come nei trapianti di cuore. Il mio sistema immunitario è a zero.
«Alex, voglio far causa all’ospedale.»
«Dobbiamo parlarne adesso?»
«E quando se no?»
«Non lo so. Non ora. Lasciami perdere, ti prego. Sto male, capisci? M-a-l-e. E non mi guardare così.»
Andrea resta fisso a osservarmi. Con un’espressione incredula e spaesata, da animale braccato. Il suo corpo è un pezzo di marmo. Il dolore è rinchiuso nella sua schiena, pesante e dura, come segnata da un continuo lavoro dei reni, tesi nel trasportare enormi, inutili massi.
Io trascino le mie giornate tra la camera da letto e il divano. Porto addosso ancora i chili della gravidanza, la pancia è tonda. Il taglio cesareo è visibile e netto, ma le infermiere mi
hanno detto che si è chiuso bene. Ogni giorno Andrea deve farmi una siringa di Fluxum nella pancia per fluidificare il sangue, ogni mattina devo ingerire una compressa di 50 microgrammi di Eutirox per aiutare la tiroide che non funziona più e poi una compressa di 250 milligrammi di Aldomet per tenere sotto controllo la pressione.
Dopo il parto l’équipe di chirurghi e ginecologi mi aveva dato 6 ore di vita. Ciò nonostante hanno provato a salvarmi e mi hanno portata in sala operatoria. Mi sono risvegliata
dopo 20 ore di coma. In Terapia Intensiva.
Da quando sono a casa non rispondo al telefono. Parlo solo con la mia famiglia. Le amiche, preoccupate, mi mandano sms tutti i giorni, ma non ho la forza di richiamarle. Dovrei spiegare, raccontare. Non sono chiacchiere tra amiche stavolta. «Alex anche se non rispondi, ti voglio bene.»
Leggo i loro messaggi, so che mi sono vicine, ma sono io che non ci sono. Non riesco a pensare a nulla, non riesco a fare nulla. Sono schiacciata, sono ferma, sono come qualcosa di inanimato, come un tappeto fatto con la pelle di un animale selvatico.
Tutti i pomeriggi, alle tre, viene Jean, la signora filippina che ci aiuta nelle pulizie una volta a settimana. Andrea le ha chiesto di passare da noi un’ora al giorno per “darmi una
mano”. È silenziosa, discreta. Mi chiede se voglio un tè, poi va in cucina, carica la lavastoviglie e canta una nenia melodica nella sua lingua, sayang na sayang…
Jean ha quattro figlie nelle Filippine, le ha dovute lasciare ai suoi genitori quando la più piccola aveva 3 anni. Una volta, un anno fa, è sparita per un mese e mezzo, era clandestina
all’epoca e non sapevo come rintracciarla. Al cellulare era irraggiungibile. È strano come dipendiamo da un telefonino.
Non rispondi: non esisti più.
Era ricomparsa una mattina a casa. «Ho abortito, signora» mi aveva rivelato a bruciapelo entrando in cucina mentre stavo bevendo un tè. Avrei voluto abbracciarla, dirle che io il figlio l’avrei tenuto ma poi ognuno di noi ha una storia diversa, avrei voluto confessarle che noi provavamo da tempo a concepire un figlio e non ci riuscivamo, ma non ero riuscita a formulare una frase adatta. Due donne forse si capiscono e basta.
«Non ti preoccupare, Jean» mi era venuto finalmente. «Andrà tutto bene.»
Jean sta passando l’aspirapolvere adesso. Provo un vago senso di colpa. Non faccio niente in casa, mentre lei lavora. Sono accovacciata sotto una copertina leggera di pile beige. Sul
divano mi sento protetta, una zona franca in cui non può succedermi nulla. Trascorro le ore così. Sono un elefante in stato di quiescenza. E tutto è buio.
Il living room è luminoso, viviamo all’ultimo piano di uno stabile anni Trenta ristrutturato. Le due porte finestre danno sulla piccola terrazza-giardino che ho curato con passione negli anni. Insieme a Valentina, un’amica green, l’ho allestita con vasi di rododendro, dalie e gelsomini rampicanti. Abbiamo portato su i vasi uno a uno, per quattro piani senza ascensore.

È lei che mi ha insegnato tutto sulla cura delle piante: il gelsomino, per esempio, è simbolo di purezza e femminilità ed è resistente come noi donne. Cresce vigoroso se viene esposto
alla luce del sole, ma deve essere protetto da spifferi e vento.
Si adatta a qualunque terriccio, ma troppa acqua può farne marcire le radici. La dalia, invece, è sempre molto assetata, ma bisogna potarla almeno una volta a settimana durante la fioritura, altrimenti perde parte delle energie per nuovi fiori.
C’è pure la sdraio arancione che Andrea mi aveva regalato per gli ultimi mesi. Voleva che mi godessi le giornate estive all’aperto. Aveva letto su uno dei tanti libri della gravidanza che il sole aiuta a sintetizzare meglio la vitamina D. «A favorire la crescita e lo sviluppo del feto, a diminuire il rischio di asma e, secondo gli ultimi studi, a ridurre le possibilità che il nascituro possa soffrire in età scolare di disturbi del linguaggio.» Ci sentivamo invincibili in quel momento.
Non l’abbiamo più chiusa. È rimasta così dalla mattina in cui ci siamo precipitati al Pronto Soccorso.
«Allora, Alexandra, come va?»
Continuo a singhiozzare e ad asciugarmi gli occhi. Sono nello studio della psicologa dell’ospedale. Mi guarda interrogativa. Spera che io dica qualcosa, credo. Non riesco a parlare: ho un blocco in gola. È bastata la sua semplice domanda.
Fuori, nel corridoio, ci sono mamme con carrozzine in attesa del pediatra. Parlano delle prime giornate di umidità, del fatto che anche se prenoti c’è sempre coda. «Ti dicono, venga
alle otto. Poi aspetti fino alle dieci» si lamenta una ragazza in salopette di jeans. È accompagnata dal compagno taciturno.
Che a un certo punto sparisce al bar. «Vado a bere un cappuccino» bofonchia ancora addormentato mentre lei dondola la carrozzina. Un bambino piange. La mamma scopre velocemente il seno per allattarlo. Il suo viso ha ancora quella grazia che solo gli ormoni della gravidanza riescono a dare.
Io, invece, sono dalla psicologa. Faccio parte del gruppo mamme mancate. E non ce ne sono molte oggi fuori dalla porta. Ci sono solo io. Cerco un altro pacchetto di fazzoletti
nervosamente nella borsa, senza riuscirci. La dottoressa, con fare gentile, mi porge una scatola di Kleenex.
È il nostro primo incontro da quando sono tornata a casa. Prima di uscire dall’ospedale ci aveva assistiti per prepararci al ritorno nella vita di tutti i giorni. Un’assistenza ovvia
per casi come il nostro. «Elaborerete il lutto in maniera diversa» ci aveva avvisati. «Forse capiterà anche che vi allontaniate, perché avete vissuto la stessa tragedia in maniera
differente.»
Andrea non ne aveva voluto più sapere. Me lo aveva confessato subito. Desiderava solo stringersi a me e parlare di nostra figlia. Io volevo capire, invece. Volevo scandagliarlo
questo maledetto dolore, volevo dargli una cornice, una giustificazione razionale. Ma non con lui. Di cosa avrei dovuto parlare proprio con Andrea? Al suo bisogno di esorcizzare i ricordi con la parola reagivo in tono sempre più aggressivo.
Ero imbottigliata nell’ossessione, nelle domande. Avevo sete di risposte, ma le cercavo fuori di me. E fuori dalla nostra coppia.
«Alex così non possiamo andare avanti, però.»
«Perché c’è un modo per andare avanti? Che cazzo dici, cosa cazzo dici.»
«Non lo so, però parlarne potrebbe aiutare. Lo dice anche la psicologa.»

«Non me ne frega niente. Vattene adesso. Esci. Fatti un giro. Devo respirare.»
Ho un buco nella memoria, da quando ho partorito a quando mi sono risvegliata due giorni dopo. Non ho visto nascere nostra figlia.
Lui sì. «Dalla finestra della sala operatoria ho visto tutto» ripete. «Nella saletta d’attesa rimandavano Visions of Paradise di Mick Jagger. Avevo cominciato a canticchiarla, ero felice,
poi mi sono messo a gridare.»
Io di quel momento ricordo solo lui al di là del vetro che gridava con le mani nei capelli tipo Urlo di Munch mentre l’anestesista mi addormentava.
Visions of Paradise era stata la nostra canzone quando ci siamo messi insieme l’11 settembre 2001 davanti alle Torri Gemelle che implodevano e si afflosciavano come panetti di burro, con il loro carico di morte.
And don’t ask me where
All of the pain goes…
You say that you want me forever.
So tell me the names of the children
We’ll have at the end of the line.
Quella mattina Andrea mi aveva scritto una mail per invitarmi fuori a cena. Ci eravamo conosciuti qualche settimana prima, con una birra in mano, alla Belle Aurore. Un locale storico in
Città Studi tra il bistrot parigino e un bar anni Settanta senza musica. Il nome si richiamava al caffè del film Casablanca: un background romantico per la nostra storia d’amore.
Allora lavoravo in una radio con un contratto a tempo determinato. Ogni ora leggevo un notiziario di tre minuti.

Sull’Ansa era appena uscita la news sull’attacco alle Torri Gemelle, ma non s’era ancora capita la gravità della situazione.
Da: Rossi.Alexandra
Data invio: martedì 11 settembre 2001 15:01
A: andrea.roberti
Oggetto: Re: cenetta?
Ehi ciao! Breaking news. Un aereo si è appena schiantato contro
una delle Twin Towers a NY. Temo che passerò la serata in redazione. Cenetta rimandata, my dear!
baci
Da: andrea.roberti
Data invio: martedì 11 settembre 2001 15:10
A: Rossi.Alexandra
Oggetto: Re: Re cenetta
Quindi mi resisti, occhioni azzurri? L’aereo. Mmm, adesso verifico.
Baci (e anche altro).
Andrea aveva pensato a una scusa. Con il passare delle ore mi aveva inviato continue mail per chiedere aggiornamenti.
Nell’ultima mi proponeva di raggiungerlo a casa sua a qualunque ora per vedere le dirette tv. Il mondo era in lutto. Le strade di Milano erano deserte quella sera. Andrea abitava in
zona Bocconi in un bilocale di ringhiera. Avrebbe cucinato lui. Salmone gratinato al forno. Non dovevo portare niente.
Aveva anche l’Aglianico, che mi piace tanto.
Just tell me the names of
The stars in the sky
What’s your favourite song

Tell me the names of the
Lovers you had
Before I came along
Ci siamo baciati sul divano all’una di notte, dopo essere rimasti abbracciati per un po’ come due scout timidi. Intimoriti davanti alla tragedia in corso. Poi, subito, avviluppati nel
letto tatami, selvaggi e bramosi di vita. Risvegliati al mattino con queste note. Andrea aveva acceso il computer e mi aveva invitato a ballare.
«Mademoiselle permette? È tutta la notte che la osservo.»
«Lei ha proprio buon gusto.»
«Insieme faremo grandi cose.»
Il parquet scricchiolava sotto i nostri passi in tondo. Dalla strada arrivava, stridulo, il rumore dei tram. La tv, muta, rimandava le immagini dei grattacieli che si sgretolavano.
Nell’inferno noi eravamo in paradiso.
So don’t put your arms around me.
And don’t hold me tight
’Cause I could get used to
Your vision of paradise.
Andrea era pazzo dei Rolling Stones, e di Mick Jagger. E io di
lui dopo la prima notte insieme. Così alto, magro, asciutto. E poi glabro, con la pelle morbida, delicata, quasi bianco porcellana. I capelli biondi spettinati alla Owen Wilson, gli occhi
color caffè e quel modo di vestire effortlessly casual, jeans, Tshirt color tortora, All Star rosse, braccialetti tibetani al polso.
Vedevo stelline ovunque mentre tornavo in redazione sul mio Scarabeo scassato. Tra le macerie del mondo.

 

 

Tratto da “Parlami di lei” di Michaela K. Bellisario – Cairo Editore

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