– Se mi concede qualche minuto, signor giudice, gliela spiego io la motivazione del mio gesto. Mi conceda qualche minuto, la prego. Non se ne pentirà-
La mia avvocata, la compagna di banco delle medie che aveva fatto una splendida carriera, mi stritolava le braccia con le sue mani d’acciaio, sibilando imprecazioni irripetibili.
– Sta’ zitta. Sono qui apposta per difenderti. Così ti metti nei guai. Ti prego! Morditi la lingua… se non vuoi rischiare qualche anno di galera. –
Proprio la lingua? Era stata lei la provocatrice. La mia complice!
– La lasci parlare – sanzionò il giudice e, rivolgendosi a me, torvo negli occhi. – Sia concisa!
– Grazie, signor giudice. Mano sul cuore, la ringrazio. Deve sapere che fino a quella sera io ero una che provava rimorso prima ancora del peccato. Non mi era mai successo di scardinare tutti i miei principi morali, le mie conclamate manie di purezza e riserbo.
Purtroppo ho capito di essere perduta fin dal primo sguardo che il dottor Roberti mi ha lanciato quando è entrato nel mio studio di commercialista per una consulenza sul bilancio della sua famosa società di marketing. Case, automobili, una barca d’altura, ville alle Maldive: un patrimonio enorme da ristrutturare per eludere la mannaia delle tasse che gravava sull’esborso monetario annuale.
Quel gran pezzo di figliolo, occhiali firmati su occhi sornioni, mezza barba, camicia bianca aperta su un petto glabro, un fazzoletto nel taschino della giacca scozzese, tono su tono, pantaloni di lino appena stropicciati, mocassini a piedi nudi, quel gran pezzo di figliolo, ripeto, si voleva affidare proprio a me su consiglio della mia amica avvocata. Questa qui. –
– Usi un linguaggio più consono o le tolgo la parola – intervenne il giudice, irritato.
– Mi scusi, la prego. La tensione del momento… Insomma, se posso continuare, quell’incontro mi ha letteralmente disarcionata perché quello là che adesso piagnucola, era un’apparizione erotica. Un gran pezzo di manzo, con tutti gli attributi.
Pardon! Ho capitooo. Proseguo.
Ho sfoderato subito la mia brillante competenza, proponendo alcuni espedienti al limite del lecito, della frode fiscale, intendo, per favorirlo. Una somma cospicua andava nascosta subito in un paradiso fiscale, bisognava ottenere uno sgravio per l’introduzione di nuove tecnologie, intestare appartamenti e ville a prestanome disponibili sul mercato, millantare un crollo delle commesse per la riduzione del personale. Eccetera.
Mi creda, signor giudice. Non avevo mai spinto la mia integrità professionale tanto oltre da rischiare non solo un discredito pubblico, ma perfino una sanzione penale. Gli eventi, cioè le sue moine maliziose, mi hanno sbaragliata. La carne è debole, lo sa. Stavolta debolissima.
Il mio fedele staff ha lavorato giorno e notte, senza sosta, per soddisfare le attese del cliente. Una perla rara questo cliente, ribadisco. Non solo per il lauto compenso pattuito. Metà in nero, ovviamente.
La parte più interessante, signor giudice, arriva quando lui mi propone di uscire a cena in un ristorante a cinque stelle, con tanto di chef stellato. Per consolidare il nostro rapporto di lavoro e “di non si sa mai”. Parole sue.
A dire il vero mi ero già dedicata, in anticipo, alla mia postura. Boutique, estetista, manicure, scarpe da urlo. Letteralmente, per le punte impraticabili. Insomma mi ero presentata in ufficio sempre all’altezza della situazione. Casomai si fosse affacciato alla mia porta. Sempre aperta e con profumatori diffusi nella stanza.
Sono andata a cena con lui. Tacco dodici, gambe nude, scollata. A dicembre. Un freddo polare. Brividi terribili alla schiena. Potevo inchiodarmi.
– Riassuma, per favore! – sbottò il magistrato.
– Eccomi. Sono pronta, signor giudice. Deve sapere, signor giudice, che io non posso bere vino, perché sono allergica all’alcol e rischio uno choc anafilattico. Una vera sfiga! Così quando il cameriere ha versato lo champagne nei flûte di cristallo, io mi sono sentita morire. All’apparir del vero, direbbe il poeta, ho confessato il mio handicap, con una smorfia di disappunto sul viso.
Il dottor Roberti mi ha guardata allibito, convinto che lo volessi stuzzicare. Le pare, signor giudice? Poi ha sciorinato frasi gentili, di sincera comprensione, condite con “una grande perdita” “un vero peccato” “ti perdi un’esperienza mistica”. Eccetera.
Io osservavo la sua bocca avvicinarsi al bicchiere, le sue labbra appoggiarsi al bordo del cristallo, il liquido dorato che scivolava maestoso nella sua bocca fino al momento in cui il pomo d’Adamo si alzava e si abbassava per consentire il passaggio del nettare nell’esofago, e più giù.
Fino a dove, non lo posso confessare, signor giudice. Immaginavo le sue papille gustative che vibravano vogliose rizzandosi sulla lingua carnosa e mi chiedevo perché io ero stata sabotata da un destino infame.
Sera dopo cena la confidenza tra noi è diventata affiatamento e seduzione. Da parte sua, ovviamente.
“Se volessi baciarti dovrei prima sciacquarmi la bocca con il colluttorio?” – mi chiedeva, il meschino! Sapeva che il suo sorriso mi faceva piegare le ginocchia! Fino ai suoi piedi e nei paraggi.
Signor giudice, agognavo di assaporare qualche goccia della sua saliva allo champagne. Lo desideravo quel bacio. Lo odiavo quel vino malefico.
Così ho scoperto il mitridatismo, la condizione di immunità raggiunta tramite l’assunzione costante di dosi non letali di veleno che inducono l’organismo a tollerarlo. Lo ha praticato per primo Mitridate re del Ponto. I classici servono sempre, eh, signor giudice… Per questo mi sono procurata alcune confezioni di cortisone, millantando nuovi choc, credibili, e ho provato a bere, ogni giorno, un cucchiaino di prosecco. Lontano dai pasti.
Vomitavo, ma non era una tragedia come quella volta che avevo mangiato le lasagne con il ragù al vino rosso e in ospedale mi avevano presa per i capelli, rovinandomi lo chignon.
– Le tolgo la parola se non si sbrigaaa – Il giudice aveva alzato la voce. Con le sue mani ingioiellate, anche la mia avvocata mi faceva segno di stringere. Che strazio.
– Va bene! Accelero. Dunque, mi sono allenata per settimane a ingurgitare cucchiaini, cucchiai, fondi di tazzine di quel liquido schifoso pregustando una notte folle di sesso, condito con il Bentelan. Valeva la pena per accarezzare quel corpo perfetto e farsi togliere il fiato da quella lingua per esaudire i miei desideri inconfessabili. Ho organizzato una sorpresa in ufficio. Doveva firmare le carte e chiudere la pratica. Ho finto un impegno improvviso fuori città. Esonerato tutti gli impiegati dallo straordinario, a eccezione della mia segretaria per le urgenze.”
Così ho acquistato uno spumante d’annata, millesimato, messo in una busta due bicchieri di cristallo, il cestello d’argento per il ghiaccio e ho nascosto tutto nel frigorifero.
Mi sono depilata, profumata, ho sparso creme vellutate sul mio corpo, ho indossato una lingerie sexy sotto un soprabito leggero. Un freddo cane, ma ne valeva la pena. Pensavo.
Quando sono entrata di soppiatto nel mio ufficio, i documenti firmati erano sul tavolo e lui era sopra la mia segretaria, sdraiato sul mio prezioso divano in pelle nera.
Se la stava scopando, mi perdoni la volgarità, signor giudice, ma era così.
Cosa avrebbe lei fatto al mio posto?
In quel momento la rabbia mi ha dato alla testa. Avevo speso una cifra assurda per una farsa. Allora ho afferrato la bottiglia, fredda al punto giusto e gliel’ho spaccata sulla testa. Non potevo certo sprecare uno spumante di quel livello. Io, gliel’ho spiegato, signor giudice, non potevo berlo. Avrei rischiato un altro choc anafilattico. Sono bastate poche gocce schizzate sulle dita per vomitargli addosso il pranzo.
Mi accusa di tentato omicidio? Mi sembra paradossale!
In fondo, signor giudice, si è trattato di legittima difesa. E poi lo guardi. Qualche giorno in osservazione, dieci punti sotto un colbacco di bende e oggi sprizza benessere da tutti i pori. Non solo quelli sulla lingua.
Ha colto l’ironia, vero, signor giudice? –

Saveria Chemotti
Scrittrice