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Libri. “Quella voce poco fa”

di Mario Coglitore

Ha scritto Italo Calvino che rintracciare lo “scheletro invariante” della fiaba ci aiuta a incontrare anche le variabili geografiche e storiche che formano il rivestimento di quello scheletro. Vale a dire che la prospettiva della storia, delle storie, non è pregiudicata dall’indagine sulla morfologia stessa del racconto fiabesco o del mito, così ben indagata per esempio da Propp piuttosto che da Levi-Strauss, per dire di due grandi interpreti del nostro tempo che sull’argomento hanno lasciato contributi preziosi e insostituibili. Il romanzo di Saveria Chemotti si situa proprio al punto d’incrocio tra la rappresentazione fiabesca e quella narrativa in un gioco di reciproci rimandi che lo stile del suo raccontare poco a poco disvela al lettore. L’elemento naturalistico, se così posso dire, ne è in qualche modo efficace prodromo, e ne sarà sostanza ideale nel prosieguo, poiché, come nelle più tradizionali delle favole, l’avventura si apre al limitare di un bosco, tra alberi secolari e montagne ricoperte di verde. L’atmosfera bucolica del Trentino scosso dai fremiti della Grande guerra, tra lutti indicibili e sangue sparso su una terra in quel momento di confine, ci avvolge immediatamente e assistiamo, nella muta angoscia di un parto difficile e doloroso, alla nascita della protagonista, la piccola Tilde cui il destino ha riservato lo stigma della malformazione.

Nelle prime, dense pagine del libro esonda lo spirito inquieto della scrittrice che annuncia già, in qualche modo, con un periodare misurato e un attento utilizzo del linguaggio, le molte lacrime, e le piccole, rare gioie, che verranno. Se questa è davvero una fiaba, non resta altro da fare che seguire istintivamente il corso degli eventi che si accavallano alla ricerca di un qualche riscatto finale. Se invece è soltanto un romanzo, una novel, non potremo che immergerci nelle complesse psicologie dei personaggi, donne e uomini, con prevalenza del genere femminile, le cui luci e ombre dettagliano anime sconquassate, “corpi emotivi” disegnati con l’abilità di una scrittura sapiente e concreta che non raramente si abbandona alla malinconia e forse, qualche volta, all’impossibilità del dire veramente tutto, lasciando che le emozioni compiano il loro viaggio tra le righe guidate da una mano sicura ma delicata che non turba le coscienze. Semplicemente racconta con vivide immagini che sanno toccare nel profondo. D’altra parte la novel è proprio questo, saper proporre atmosfere tutt’altro che incantevoli inserendole nell’ordito narrativo a comporre un quadro d’insieme che è il romanzo stesso; per quello che dice e soprattutto per quello che è capace di tacere, lasciando all’immaginazione di chi sta leggendo la possibilità di frugare dietro alle parole sporgendosi oltre, per così dire. E nell’oltre, in questo caso, governa la fiaba appunto, un velo sottile, se volete, che una volta scostato vi proietta nell’universo simbolico di questa novella di pena e riscatto, di amore e di passione, di arie musicali stordenti nella loro evocazione letteraria mai banale, mai scontata, e vibrazioni sonore che si confondono con lo stormire delle fronde e il canto degli uccelli; o con i mille rumori di paesaggi tormentosi, declinati tra sassi e ruscelli, che sanno di foglie bagnate e erba umida.

Seguendo le tormentate vicende di Tilde, lungo un percorso biografico fatto di sofferenze, incomprensioni, muti risentimenti, difficoltà di ogni genere, cederete spesso alle lusinghe di quella voce che intesse vocalizzi straordinari ed insospettabili che escono da quel corpo martoriato; una diversità che la espone alla pubblica esacrazione, al commento perfido, alle facili ironie, alla compassione ipocrita di lingue troppo sciolte nell’indicare  la povera reietta come spaventosa e totalmente aliena. Pure, nell’accompagnare la bambina che si fa adolescente e poi donna nel corso di pagine che si sciolgono nel linguaggio colto di chi possiede qualità di scrittura disinvolta e brillante vena discorsiva, Saveria Chemotti non lascia mai che la sua piccola creatura cresca senza il conforto di figure quasi epiche, degne del miglior romance italiano, dunque non una novel con la sua densità introspettiva, piuttosto un componimento “onirico”, per dir così, molto simile al poema cavalleresco di antica tradizione. Imparerete a conoscere Bastiano, Gige e Adamo non tanto per quello che sono, alla fine, ma per quello che rappresentano, indicando la strada della pazienza e del conforto a quella creatura disarmata dalla vita ma dall’intelligenza pronta e i riflessi sicuri. Fino all’amore, puro e disinteressato, che le sa porgere il brigante Adamo, vendicatore dei soprusi di cui resta vittima la povera gente; una figura d’uomo che potrebbe essere benissimo uscita dalla penna di Emilio Salgari, se ricordate ancora qualcuno dei suoi eroi di carta.

Eppure è proprio la figura del ribelle senza tempo su cui l’autrice richiama la nostra attenzione di testimoni ormai stretti nel procedere avvincente del racconto a costituire la soglia osmotica tra un al di qua e un al di là della storia italiana che irrompe nel consumarsi di quei primi trent’anni del Novecento nei quali scorre, torrente che presto si fa fiume, l’intero asse del romanzo. Che Adamo si trasformi nel suo opposto e diventi un legionario fascista per riscattare, dopo la cattura, quelle che il regime considerava le sue malefatte è la miglior raffigurazione che Saveria Chemotti poteva dare di quegli anni nazionali così contraddittori e altrettanto violenti. La fiaba cede il posto all’eccellente ricostruzione storiografica segno di una ricerca filologicamente congrua su quel periodo tormentato del nostro Paese, e dunque la “pellicola” narrativa apre su ampie panoramiche che intrecciano eventi e finzioni in una commistione per certi versi “educativa” rispetto alle nostre confuse conoscenze su quel ventennio, a un tratto rinverdite dal cipiglio descrittivo della scrittrice che con misura ponderata verga alcune passi significativi pur restando all’interno di un canone letterario che non smentisce mai se stesso. Il romanzo, la fiaba, continuano a palpitare tra le pieghe della storia, degli eventi che, sul limitare dell’orizzonte, costituiscono i fondali di questo particolare teatro della memoria invaso da sorprendenti personaggi.

Nel frattempo il baule di Bastiano, che ha lasciato questo mondo condannato dal potere a una fine ingloriosa, ha già rivelato le sue magie libresche e in un passo memorabile, devo dire, di Quella voce poco fa abbiamo sorpreso la nostra “emarginata sapiente” a zompettare con la testa immersa nei Tre moschettieri di Dumas “sul sentiero dei marroni”.

Quando arrivano i giorni della gloria e della fama per una Tilde ormai cresciuta, che ha amato ed è stata amata, chiusa in quel corpo dai contorni incerti, il tempo sembra aver consumato ogni riscatto possibile e i successi della cantante lirica, momentaneamente osannata dal fascismo che ne sfrutta l’immagine inconsueta da dare in pasto a un pubblico di pecore per farsi scandalosa pubblicità, non bastano più a alleviare i tormenti di un’anima errabonda che non trova pace.

Per ricevere molto bisogna saper dare molto. E Tilde, che ha davvero ricevuto, restituisce a Nina, tormentata da un cielo che non le è stato per niente propizio, ciò che può, riannodando i fili mai spezzati che la riportano ai giorni di una fanciullezza vischiosa durante la quale non riusciva nemmeno a parlare correttamente e di un’adolescenza irta di pericoli e delusioni. Quella voce poco fa è, intimamente, soprattutto una storia di donne, non bisogna dimenticarlo, disseminate qua e là nel corso del romanzo con cura e attenzione scrupolose. Donne allo specchio l’una dell’altra, forse, di cui Tilde è il naturale “tratto d’unione”. Donne, come lo sono state a centinaia, che del nostro mondo hanno retto le sorti. Contro ogni avversità.

Saveria Chemotti, Quella voce poco fa, Roma, iacobellieditore, 2019, pp. 207, euro 15.

 

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