Se la forza di gravità,
la verticale, è la memoria
della terra che chiama
a sé le cose per ricordarle, l’ansia è la mia memoria,
forza che non è amore, ma vocazione d’assedio.
AMELIA ROSSELLI
Era l’ottobre del 1966, una domenica mattina.
Piera mi aspettava alla stazione di Padova. Lavorava da qualche anno in una famiglia molto benestante come puericoltrice. Non una banale babysitter, ma proprio una puericoltrice con un regolare diploma che le attribuiva una competenza specifica per la cura e l’allevamento dei bambini, dal punto di vista dello sviluppo fisico e psichico, nel periodo immediatamente successivo alla nascita e nella prima infanzia. Veniva dalla storica scuola di Trento dove, seguendo i principi dell’antica e severa disciplina austroungarica, si formavano le bravissime e ricercatissime tate con il camice bianco e la spilla.
Eravamo compagne di scuola e amiche affezionate, qualche anno in più o in meno tra noi non faceva testo. Figlie di famiglie contadine che abitavano sulla strada che portava alla chiesa parrocchiale, facevamo entrambe parte del coro che accompagnava le funzioni religiose: lei soprano, io contralto.
Il nostro paese, poche centinaia di abitanti, era situato a metà costa del Bondone, il versante che guarda verso il lago di Garda. Case ordinate, la stalla per la mucca al piano terra, un piccolo cortile con un orto e il pollaio per le galline, la vasca con lo stallatico. La corona dei colli e dei monti coi pini, le querce, i cespugli di nocciole, lo dipingeva ai nostri occhi come il posto più bello del mondo.
Freddissimo d’inverno, quando la neve alta ostruiva i portoni di legno massiccio che proteggevano la zona in pietre rosse che fungeva anche da aia, costringendoci a uscire dalle finestre con pale di ferro per fare la rotta, un sentiero che consentisse di iniziare la giornata rispettando gli impegni della nostra età e quelli dei nostri genitori. La scuola, il lavoro, la messa.
Caldo moderato d’estate, quando i lavori nei campi promettevano un raccolto bastante per vivere con decoro e l’Ora del Garda spazzolava le fronde degli alberi di mele, i pampini delle vigne di nosiola, le spighe del frumento, il fogliame del zaldo quasi maturo e scompigliava i capelli di noi ragazze che dormivamo coi bigodini in testa per avere una specie di permanente riccioluta da esibire.
Cielo sempre azzurro, salvo quando si annunciavano i temporali e le nubi avanzavano con dita simili a quelle ossute delle streghe che rumoreggiavano, scatenando lampi o minacciando la temutissima grandine. Allora si bruciavano i rami d’olivo della domenica delle Palme, recitando paternoster e avemarie per scongiurare una drammatica devastazione. Poi il cielo tornava azzurro e le nubi si infilavano dietro i crinali inseguite dal vento, tingendosi di mille colori, accompagnate dalla scansione dei proverbi che prevedevano il tempo del giorno dopo, seguendo la loro direzione. «Quando le nuvole le va en vers Trent, ciapa la zapa e va ʼn convent; quando le nuvole le va ʼn vers Riva, ciapa la zapa e va ʼn coltiva». Per tacere delle ipotesi ulteriori sancite dalla loro collocazione su questo o quel monte. Spesso questi proverbi secolari indovinavano il futuro. In fondo, eravamo tutti meteorologi provetti.
I saluti tra noi due, in attesa dell’autobus che doveva portarmi all’albergo prenotato da giorni, non furono frettolosi. Le notizie si accavallavano agli abbracci e il nostro intercalare in dialetto incuriosì più di una persona in piedi accanto a noi sul marciapiede del numero 3.
Parlavo, parlavo, raccontavo gli ultimi avvenimenti familiari, dei miei e dei suoi, ma mi guardavo intorno con curiosità. Seduta sul seggiolino di plastica dura, dal finestrino, osservavo i palazzi signorili che sfilavano davanti ai miei occhi con sospiri di meraviglia. La città mi sembrava enorme, ordinata, elegante, ricca. Quando l’autobus arrivò in Prato della valle, l’isola con le statue e gli alberi, non riuscii a trattenere un «guardaaa» di meraviglia, ad alta voce, che irritò Piera facendola arrossire: «Ti prego, non farmi fare brutta figura. Resta in silenzio. Ti prego.» Aveva già assunto un portamento elegante, non dovevo esporla al pubblico spregio con le mie uscite da paesana greve.
Passai in silenzio davanti a Santa Giustina e al Santo, ricacciando le parole in gola, ma fremendo per l’emozione e approdai nella hall dell’albergo Casa del Pellegrino, situato proprio accanto alla Basilica. Il nome era tutto un programma e mi si attagliava perfettamente.
Piera lavorava nel lussuoso palazzo di fronte, così mi consegnò alla reception dopo aver sciorinato tutte le raccomandazioni e gli inboccallupo di circostanza.
Ero scesa a Padova per sostenere l’esame di ammissione all’università che si sarebbe svolto il giorno dopo. «Lunedì alle otto e trenta, Facoltà di Magistero, Piazza Capitaniato», recitava la comunicazione ufficiale.
Dovevo imparare la strada. Piera mi aveva disegnato una specie di mappa elementare che seguii passo passo divorando una delle mele che la mamma mi aveva messo in valigia, assieme a una scatola di biscotti Oswego e a due fette di pane col formaggio del caseificio. «Così risparmi per la cena» aveva detto guardandomi pensierosa. Non approvava la mia scelta di continuare gli studi, tantomeno papà che aveva già profetizzato il mio avvenire da brava moglie e mamma. E poi, la città lontana e i pericoli connessi … ai territori oltre Adige, abitati dai ʼtaliani.
Avevo un pomeriggio a disposizione. Mi fermai subito in Basilica a pregare, appoggiando la mano sulla tomba del Santo, mi soffermai in Prato della valle percorrendo più volte il circuito delle statue severe, ripetendo ad alta voce i nomi dei personaggi per lo più sconosciuti. Sullo sfondo la chiesa di Santa Giustina restava un luogo da visitare un’altra volta. Se…
Poi, via veloce verso le Riviere, il Bo, le piazze, l’Orologio monumentale: i mammamia di meraviglia avevano libero sfogo tra la gente che passeggiava, famiglie coi bambini in prevalenza. Una decina di ragazzi sostavano davanti al portone della Facoltà, pellegrini come me, alla ricerca del luogo stabilito.
Al ritorno, la cena frugale in stanza, una cameretta pulita, arredo spartano, bagno in corridoio. Un lusso per chi, come me, doveva condividere coi fratelli ogni spazio vitale.
Al mattino dopo, di buonora, qualche biscotto e la solita mela in cartella, una tappa in bagno e «vediamo che tempo fa» aprendo le persiane cigolanti.
Una stretta al cuore, o meglio una sberla in pieno muso. Dov’ero finita?
Una fittissima nebbia occupava il posto delle case, della Basilica, delle automobili parcheggiate, dell’edicola. Avvolgeva tutto dentro una coltre grigia e impenetrabile. Ero perduta.
Come avrei potuto raggiungere la Facoltà se non riuscivo a distinguere la direzione delle strade?
Avevano ragione i paesani a mettermi sull’avviso. E i miei che mi sconsigliavano ogni avventura lontana dal campanile massiccio e rassicurante che si stagliava tra i castagni.
«Angelo di Dio, aiutami!» mormoravo. E l’angelo si manifestò nella figura preoccupata di Piera che aveva ottenuto dalla padrona il permesso di farmi da guida.
Il suo «andiamo prima che si sveglino i bambini» mi rassicurò rapidamente.
Camminavamo in un’atmosfera magica: le case si manifestavano a breve distanza e poi sparivano improvvisamente. Un mondo a parte, mi dicevo. Affascinante e spaventoso insieme. Facevo fatica a respirare, ma era solo un corredo dell’ansia che palpitava assieme alle luci diffuse che presentavano una strana aureola.
Arrivammo a destinazione. Sostenni l’esame, un tema sul rapporto lingua dialetto, e ripresi il primo treno per rientrare in patria.
I miei racconti sulla nebbia divertirono i vicini che con qualche pacca sulle spalle mi consigliavano in coro di restare a casa. «Sotto la protezione delle vecchie abitudini», scrive Camus.
Il concorso l’ho superato brillantemente. Il 6 gennaio 1967 sono approdata nel collegio in Prato della valle, proprio di fronte alle statue e alle panchine che sarebbero diventate, nel tempo, le mie confidenti segrete.
Da allora vivo a Padova. Mi ritrovo spesso con Piera a parlare della nostra infanzia. Siamo invecchiate insieme.
Ho perfino imparato a convivere con la nebbia. Ad accettare quella coltre fina che assomiglia a un abbraccio rassicurante in cui mi rifugio per nascondermi e riconoscermi. Talvolta canto passando sotto i portici e la mia voce si perde tra le goccioline rapprese nell’aria. Riesco anche a respirare senza tossire.
La nostalgia dei miei monti mi perseguita di tanto in tanto. Casa, però, adesso è anche qui.
Quando mi sembra di non farcela più, parlo alla nebbia. Come si parla a un’amica.
Sono convinta che prima o poi, quando si dissolverà coi raggi del sole, farà apparire le montagne. Non i colli. Proprio le montagne coi pini, le querce, i cespugli di nocciole. Le mie.
Succederà davvero. Me lo ha promesso.
E io le credo.

Saveria Chemotti
Scrittrice