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In seconda fila. Comprimarie e comprimari tra letteratura, fumetto e televisione. 3) Il sergente Garcia: “A cavallo, lancieri!”

Voglio essere chiaro da subito. L’effettivo protagonista delle avventure di Zorro è il sergente Garçia, cioè io. E’ vero che sono sovrappeso da molti anni e ho una certa propensione per il vino e il capretto, specie se arrostito, ma sono pur sempre un militare di carriera che serve con onestà e dedizione il proprio Imperatore; ho combattuto su diversi fronti, spendendo i miei anni migliori, e alla fine mi hanno spedito tra queste colline sonnolente, con un abbozzo di città nella piana che ha pure grandi pretese, a sorvegliare un manipolo di peones sottomessi a proprietari terrieri spietati e senza cuore che devo proteggere, ironia della sorte. In verità ho sempre sostenuto la causa dei più deboli e mi metto al servizio della comunità per far rispettare la legge, che sotto questo cielo è quella di chi ha i soldi. E basta: tutti gli altri non hanno diritti.
Sulla legge, infatti, e sulla sua applicazione, ci sarebbe da discutere, in questa terra di confine che guarda con interesse agli Stati Uniti, con i quali avrei un paio di cosette da chiarire, se proprio devo essere sincero. Trovo che La Volpe, Zorro per voi che non conoscete la lingua del posto, sia un impiastro tutto muscoli e agilità che nella vita da civile si riposa recitando la parte del damerino di ottima famiglia. Da sempre so che Diego de la Vega di notte, o quando ne ha voglia, si mette nei panni dell’uomo nero. Pare che abbia scopiazzato la faccenda della maschera e del mantello da un pirata spagnolo che ha incontrato durante il suo soggiorno di studio nella penisola iberica, giterella pagata con i soldi di papà ovviamente, prima di tornare qui a funestare le mie pacifiche giornate nella nostra guarnigione.
Mi credono davvero un imbecille soltanto perché fatico a salire le scale con il caldo umido che arriva dal mare e spesso cado da cavallo trascinato a terra dal mio peso nel momento in cui Zorro mi affronta per ridicolizzarmi e spaventa il mio ronzino. Vorrei vivere serenamente senza disturbare nessuno; non sono in grado di reagire, come si converrebbe a un tutore dell’ordine, contro le malversazioni di questi signorotti locali in stretti rapporti con il Quartier generale dei Lancieri. E’ una battaglia persa in partenza, e dunque perché cercare di cambiare la situazione se non è assolutamente possibile farlo? Una pinta di birra alla taverna mi riconcilia con le mie sofferenze spirituali e una seconda bevuta mi rende quasi felice. Se, infine, qualcuno me ne offre un’altra ancora, beh… allora il mondo gira davvero per il verso giusto e qualche ora più tardi il caporale Reyes passa a prendermi con un commilitone per spingermi a forza verso la caserma e mettermi a letto.
Trascorro un’esistenza semplice, senza pretese. A parte l’incubo del cavaliere mascherato che mi seppellisce nella disperazione. Quello che non tollero, in aggiunta, è dover reggere anche la sceneggiata con il giovane de la Vega fingendo di non sapere che Zorro è lui. Lo prenderei a schiaffi, a due a due fino a che non diventano dispari come diceva mia nonna, se solo riuscissi a osare tanto.
Per costruire un mito ci vuole abilità, determinazione, prontezza di spirito, intelligenza e molto, moltissimo, amor proprio. Tutte caratteristiche, tranne l’ultima, che Diego ha ereditato dal vecchio Don Alejandro, suo padre, un vero galantuomo vi assicuro, generoso e dalla tempra antica. Il ragazzo si loda e si sbroda in continuazione e specie nelle ore dedicate al suo passatempo preferito, giocare con cappa e spada, correndo sui tetti, carambolando col cavallo in mezzo a stradine polverose e tirando su sbuffi di polvere molto cinematografici mentre scompare all’orizzonte con quella fastidiosa sigla che l’accompagna. Tira bene di sciabola, non c’è che dire, e usa la frusta come se fosse tutt’uno col suo braccio.
Non ho mai capito dove si allena, mannaggia a me. Perché deve passarne parecchie di ore a mantenersi in forma per promuovere il piccolo Circo equestre che mette in scena ogni volta, esibendosi in strabilianti pezzi di bravura ai danni di noi imbranati lancieri.
Il sottoscritto, al contrario, è poco incline all’azione. Sudo copiosamente solo per infilarmi gli stivali e non saprei rincorrere neanche i cani randagi che infestano Los Angeles e che stanno diventando una vera piaga. La miseria popola di spettri affamati i miei turni di guardia tra viottoli affiancati da case basse tirate su con l’argilla e qualche rara volta pezzi di mattone riciclato; povera gente che si arrabatta come può. La voce di Zorro risuona scandita dal tocco delle campane verso l’imbrunire ed è denuncia di patimenti e dolore. Per questo gli oppressi vorrebbero essere accolti sotto la protezione del suo mantello che fruscia al vento come una speranza di redenzione. La sua è anima di leggenda, un mito che vola di bocca in bocca tanto veloce quanto il suo magnifico stallone nero, uno spruzzo d’inchiostro tra gli hibiscus della generosa macchia californiana. L’ho visto una volta galoppare al chiaro di luna, ombra tra le ombre, e vi assicuro che l’effetto era straordinario; sono stato percorso da una scossa elettrica che mi ha trasmesso una sensazione a metà tra il timore reverenziale e l’ammirazione.
Non vi so dire se riuscirò mai a sconfessare pubblicamente de la Vega junior e costringerlo a rivelare chi è veramente. Io non credo, se rifletto sul fatto che abbiamo costante bisogno di eroi, soprattutto in tempi grami. Si srotola davanti ai miei occhi un’epoca di grandi rivolgimenti e dall’Europa giungono voci affievolite di fermenti rivoluzionari che faranno impallidire quelli francesi di una ventina di anni fa. A me la politica interessa poco, ma sento vibrazioni strane attorno a me, come se all’orizzonte si stesse preparando la tempesta. Diego mi dice spesso che ci vorranno ancora decenni per sistemare le cose e chissà il futuro che sorprese ci riserverà. La quieta monotonia di queste lande percorse a tratti da un vento impetuoso che arriva dall’oceano viene interrotta dalle scorribande di Zorro con il suo eterno stuzzicare i più forti, vendicando torti subìti da intere generazioni. La famosa Zeta incisa ovunque, nel retro dei miei pantaloni per esempio, episodio increscioso che ha sollazzato il nostro comandante e ha fatto sghignazzare i miei uomini, oppure sui manifesti che facciamo affiggere ovunque con l’annuncio di una taglia messa sopra la testa della Volpe, proclama desideri di libertà e sogni di rivalsa. Un arcangelo, ecco come viene percepito, con la sciabola infuocata. L’arcangelo Michele dei messicani diseredati.
Sto finendo di bere l’ennesimo boccale di vino seduto fuori ad annusare l’aria della sera. Cala il tramonto e ogni cosa mi appare irreale. Un fruscio improvviso mi provoca un sussulto perché l’alcol mi stordisce ma al tempo stesso mi rende sensibile alle foglie. Una lucertola, forse, o un coniglio selvatico in cerca di cibo. Poi, all’improvviso, lo vedo. Immobile sul tetto della casa di fronte a me. Mi sta fissando con un sorriso beffardo. Per l’amor del cielo, Diego, scendi da lì o finirai per farti male.

Il sergente Garçia
di Mario Coglitore

«A cavallo, lancieri!»

Voglio essere chiaro da subito. L’effettivo protagonista delle avventure di Zorro è il sergente Garçia, cioè io. E’ vero che sono sovrappeso da molti anni e ho una certa propensione per il vino e il capretto, specie se arrostito, ma sono pur sempre un militare di carriera che serve con onestà e dedizione il proprio Imperatore; ho combattuto su diversi fronti, spendendo i miei anni migliori, e alla fine mi hanno spedito tra queste colline sonnolente, con un abbozzo di città nella piana che ha pure grandi pretese, a sorvegliare un manipolo di peones sottomessi a proprietari terrieri spietati e senza cuore che devo proteggere, ironia della sorte. In verità ho sempre sostenuto la causa dei più deboli e mi metto al servizio della comunità per far rispettare la legge, che sotto questo cielo è quella di chi ha i soldi. E basta: tutti gli altri non hanno diritti.
Sulla legge, infatti, e sulla sua applicazione, ci sarebbe da discutere, in questa terra di confine che guarda con interesse agli Stati Uniti, con i quali avrei un paio di cosette da chiarire, se proprio devo essere sincero. Trovo che La Volpe, Zorro per voi che non conoscete la lingua del posto, sia un impiastro tutto muscoli e agilità che nella vita da civile si riposa recitando la parte del damerino di ottima famiglia. Da sempre so che Diego de la Vega di notte, o quando ne ha voglia, si mette nei panni dell’uomo nero. Pare che abbia scopiazzato la faccenda della maschera e del mantello da un pirata spagnolo che ha incontrato durante il suo soggiorno di studio nella penisola iberica, giterella pagata con i soldi di papà ovviamente, prima di tornare qui a funestare le mie pacifiche giornate nella nostra guarnigione.
Mi credono davvero un imbecille soltanto perché fatico a salire le scale con il caldo umido che arriva dal mare e spesso cado da cavallo trascinato a terra dal mio peso nel momento in cui Zorro mi affronta per ridicolizzarmi e spaventa il mio ronzino. Vorrei vivere serenamente senza disturbare nessuno; non sono in grado di reagire, come si converrebbe a un tutore dell’ordine, contro le malversazioni di questi signorotti locali in stretti rapporti con il Quartier generale dei Lancieri. E’ una battaglia persa in partenza, e dunque perché cercare di cambiare la situazione se non è assolutamente possibile farlo? Una pinta di birra alla taverna mi riconcilia con le mie sofferenze spirituali e una seconda bevuta mi rende quasi felice. Se, infine, qualcuno me ne offre un’altra ancora, beh… allora il mondo gira davvero per il verso giusto e qualche ora più tardi il caporale Reyes passa a prendermi con un commilitone per spingermi a forza verso la caserma e mettermi a letto.
Trascorro un’esistenza semplice, senza pretese. A parte l’incubo del cavaliere mascherato che mi seppellisce nella disperazione. Quello che non tollero, in aggiunta, è dover reggere anche la sceneggiata con il giovane de la Vega fingendo di non sapere che Zorro è lui. Lo prenderei a schiaffi, a due a due fino a che non diventano dispari come diceva mia nonna, se solo riuscissi a osare tanto.
Per costruire un mito ci vuole abilità, determinazione, prontezza di spirito, intelligenza e molto, moltissimo, amor proprio. Tutte caratteristiche, tranne l’ultima, che Diego ha ereditato dal vecchio Don Alejandro, suo padre, un vero galantuomo vi assicuro, generoso e dalla tempra antica. Il ragazzo si loda e si sbroda in continuazione e specie nelle ore dedicate al suo passatempo preferito, giocare con cappa e spada, correndo sui tetti, carambolando col cavallo in mezzo a stradine polverose e tirando su sbuffi di polvere molto cinematografici mentre scompare all’orizzonte con quella fastidiosa sigla che l’accompagna. Tira bene di sciabola, non c’è che dire, e usa la frusta come se fosse tutt’uno col suo braccio.
Non ho mai capito dove si allena, mannaggia a me. Perché deve passarne parecchie di ore a mantenersi in forma per promuovere il piccolo Circo equestre che mette in scena ogni volta, esibendosi in strabilianti pezzi di bravura ai danni di noi imbranati lancieri.
Il sottoscritto, al contrario, è poco incline all’azione. Sudo copiosamente solo per infilarmi gli stivali e non saprei rincorrere neanche i cani randagi che infestano Los Angeles e che stanno diventando una vera piaga. La miseria popola di spettri affamati i miei turni di guardia tra viottoli affiancati da case basse tirate su con l’argilla e qualche rara volta pezzi di mattone riciclato; povera gente che si arrabatta come può. La voce di Zorro risuona scandita dal tocco delle campane verso l’imbrunire ed è denuncia di patimenti e dolore. Per questo gli oppressi vorrebbero essere accolti sotto la protezione del suo mantello che fruscia al vento come una speranza di redenzione. La sua è anima di leggenda, un mito che vola di bocca in bocca tanto veloce quanto il suo magnifico stallone nero, uno spruzzo d’inchiostro tra gli hibiscus della generosa macchia californiana. L’ho visto una volta galoppare al chiaro di luna, ombra tra le ombre, e vi assicuro che l’effetto era straordinario; sono stato percorso da una scossa elettrica che mi ha trasmesso una sensazione a metà tra il timore reverenziale e l’ammirazione.
Non vi so dire se riuscirò mai a sconfessare pubblicamente de la Vega junior e costringerlo a rivelare chi è veramente. Io non credo, se rifletto sul fatto che abbiamo costante bisogno di eroi, soprattutto in tempi grami. Si srotola davanti ai miei occhi un’epoca di grandi rivolgimenti e dall’Europa giungono voci affievolite di fermenti rivoluzionari che faranno impallidire quelli francesi di una ventina di anni fa. A me la politica interessa poco, ma sento vibrazioni strane attorno a me, come se all’orizzonte si stesse preparando la tempesta. Diego mi dice spesso che ci vorranno ancora decenni per sistemare le cose e chissà il futuro che sorprese ci riserverà. La quieta monotonia di queste lande percorse a tratti da un vento impetuoso che arriva dall’oceano viene interrotta dalle scorribande di Zorro con il suo eterno stuzzicare i più forti, vendicando torti subìti da intere generazioni. La famosa Zeta incisa ovunque, nel retro dei miei pantaloni per esempio, episodio increscioso che ha sollazzato il nostro comandante e ha fatto sghignazzare i miei uomini, oppure sui manifesti che facciamo affiggere ovunque con l’annuncio di una taglia messa sopra la testa della Volpe, proclama desideri di libertà e sogni di rivalsa. Un arcangelo, ecco come viene percepito, con la sciabola infuocata. L’arcangelo Michele dei messicani diseredati.
Sto finendo di bere l’ennesimo boccale di vino seduto fuori ad annusare l’aria della sera. Cala il tramonto e ogni cosa mi appare irreale. Un fruscio improvviso mi provoca un sussulto perché l’alcol mi stordisce ma al tempo stesso mi rende sensibile alle foglie. Una lucertola, forse, o un coniglio selvatico in cerca di cibo. Poi, all’improvviso, lo vedo. Immobile sul tetto della casa di fronte a me. Mi sta fissando con un sorriso beffardo. Per l’amor del cielo, Diego, scendi da lì o finirai per farti male.


Mario Coglitore

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