Avrò avuto forse otto anni. Mi ricordo come fosse adesso mia sorella Valeria, all’epoca già ventenne, che mi passava con infinita pazienza i pezzi colorati del Lego aiutandomi ad interpretare il foglietto illustrato con le istruzioni per il montaggio. In quel mondo dolce, fatto di fantasia e di primavere odorose, di sentimenti morbidi e vacanze al mare piene di sabbia e salso durante interminabili bagni dai quali mia madre mi strappava a forza, la sorella maggiore era per me un punto di riferimento irrinunciabile. Possedeva il brio della gioventù e al tempo stesso l’autorevolezza della persona saggia che dava l’indirizzo giusto alle mie scelte, accompagnava i miei sogni segreti e mi accarezzava fino a che non mi addormentavo sul divano con la testa di Clementina, che era nata due anni dopo di me, reclinata sulla mia spalla, alla ricerca anche lei della compiacenza di Valeria.
E la “sorella grande”, come la chiamavo io, sapeva dividersi esattamente in due senza lesinare il suo amore, a volte un po’ ruvido nelle intemperanze del suo camminare nella realtà con una certa irruenza, a questi fratelli più piccoli la cui così tardiva entrata in scena non era mai stata ben chiarita in famiglia. Molti anni dopo mio padre, la cui esistenza troppo breve aveva lasciato comunque un segno in noi tre per la sua ferma determinazione e il suo affetto robusto senza se e senza ma che sapeva di MS International, mi aveva accennato ad una nuvola scura che aveva proiettato ombre malevoli, per un fuggevole tratto, su un matrimonio decisamente solido. Così ero arrivato io, alla fine della bufera probabilmente e quasi per caso. Si vede che ci avevano preso gusto e, quarantaduenne, la mamma era rimasta incinta anche di Clementina.
Siamo cresciuti in una costanza di affetti che ancora ci portiamo dentro, reminiscenze intramontabili, nonostante le nostre vite sentimentali siano state molto, ma molto diverse da quelle dei nostri genitori. Aver condiviso una comunità familiare praticamente perfetta, assistendo giorno per giorno alle mescolanze emotive di una coppia di adulti capace dopo tanto tempo di scambiarsi ancora sorrisi complici e sguardi avvolgenti pieni di desiderio, ci assuefaceva ad un eterno spirito del Natale che aleggiava tra le mura domestiche, rinnovando costantemente promesse appena mormorate di gioia e di candore lumeggiante, come il riverbero delle candele mangiafumo che mia madre distribuiva nel soggiorno con copiosa generosità e che restavo a fissare, ipnotizzato, per minuti interi durante le feste di Dicembre. Spesso la domenica, l’odore del brasato accompagnava i miei risvegli mattutini che proseguivano con soste prolungate sul tappeto del soggiorno, l’onnipresente scatola di Lego accanto a comporre geometrie incastrate tra di loro. Clementina, con la pervicacia irritante delle disturbatrici, non mancava mai di venire a rovinarmi il gioco ed erano liti furibonde che Valeria, quando c’era, sedava separandoci a forza e subito dopo pretendendo che ci abbracciassimo tutti e tre stretti. Conservo una foto di quel periodo, in bianco e nero, nella quale sorridiamo davanti all’obiettivo della Agfa di mio padre con Valeria al centro e noi uno per parte davanti alla porta-finestra della piccola terrazza alla quale si accedeva dal salotto. Sullo spicchio di tavolo che fa capolino tra la filigrana ormai consunta i pezzi del Lego fanno bella mostra di sé, monumento inossidabile di una generazione che li avrebbe presto dimenticati nel correre disordinato del tempo verso l’era digitale.
Nei nostri sorrisi si riverbera l’atmosfera ovattata delle sembianze liquide, e malinconiche viste dall’oggi, di un’età che non sarebbe mai più tornata. Quando Valeria incontrò il suo primo marito avevo appena compiuto quattordici anni, credevo di esser un ranger, e mi onoravo di annoverare tra i miei pards Tex Willer e Kit Carson. Quell’idiota non mi piaceva affatto e neanch’io piacevo a lui. La sera in cui, a cena da noi, annunciarono la loro decisione di sposarsi, l’imbecille fu particolarmente sgradevole con me e, incauto come sono sempre stato, lo provocai apertamente, ma solo perché avevo mio padre vicino. In realtà, il fisico asciutto e atletico di quello che per un periodo sarebbe stato mio cognato mi incuteva una paura irrazionale: facevo il gradasso ma non avrei mai avuto il coraggio di affrontarlo sul serio. Nei fumetti era un’altra cosa e soltanto tra le tavole di Bonelli e Galeppini ero davvero un cavaliere senza macchia e senza paura. Clementina aveva ancora la testa tra le Barbie e non colse il disagio a tavola cui seguì un imbarazzato silenzio dopo le mie esternazioni ormonali. Papà aveva colto al volo i miei turbamenti ma era uomo elegante che preferiva non guardare dentro al bellimbusto e vederci quello che qualche anno dopo sarebbe uscito fuori, tracimando come un torrente impazzito. Così si limitò a proteggermi con un sorriso bonario e un pacato rimbrotto che mi assegnò per compiacenza verso l’ospite.
Valeria lasciò la sua presenza appesa dappertutto in quell’appartamento confortevole ma di botto incredibilmente vuoto. Niente più pisolini sulle sue gambe mentre preparava l’ultimo esame di Lettere e io leggevo Asimov; niente più corse in corridoio per arrivare primi in bagno con Clementina che entrava in un’adolescenza scocciata e fastidiosa e pretendeva di stare delle ore a truccarsi o a fare la doccia. Normali faccende quotidiane che un’assenza inaspettata aveva trasformato in un peso leggero ma costante nel mio petto. Quando sorpresi mia sorella piccola a piangere di nascosto nel letto con addosso una maglietta di Valeria, di cui occupava ormai stabilmente la camera, compresi definitivamente il significato del perdere qualcuno, una sensazione che avrebbe segnato spesso le mie relazioni con gli altri e soprattutto con le altre, a dirla tutta. Ci consolammo a vicenda irrobustendo il nostro rapporto di fratellanza e legandoci assieme in un vincolo strettissimo. Tra sopravvissuti, in qualche modo.
Quando nacque mia nipote, Valeria me la affidò in braccio un paio di minuti continuando a toccarmi una guancia con la punta delle dita. Fu lì che ritrovai il mio cuore e lo riassemblai per lei, esattamente come facevo con i Lego, ricostruendo spazialità a tinte forti con il blu cobalto dei mattoncini della stazione di Polizia.
Dietro al vetro dell’Unità di terapia intensiva la guardo attonito. I tubicini che le escono dalla bocca l’hanno improvvisamente proiettata nel film con Dustin Hoffman e Renè Russo, “Virus letale”. Ho praticamente imposto la mia presenza almeno qualche minuto. Siamo rimasti solo noi tre a sorvegliarci l’un l’altro, a telefonarci ogni volta che è possibile, a passare qualche festa comandata assieme. Papà e mamma ci hanno lasciati alla cura reciproca e adesso riposano assieme tra gli stessi marmi in due urne separate, una accanto all’altra. A settant’anni suonati, Valeria sconta una brutta malattia ampiamente superata e un principio di vecchiaia, “tarda maturità” direbbe lei scocciata, che l’ha resa più debole. La osservo lì a qualche metro di distanza, distesa immobile, ma mi sono accorto che mi ha visto. Debolmente accenna un sorriso di sghembo mentre io sudo a più non posso, bardato che sembro uno spettro di carta bianca. Qualche lacrima mi si confonde tra il sudore e la congestione di quel poco di pelle che camice, cuffia e mascherina lasciano libera. Fa un caldo infernale. Ritrovo tracce di memoria: sono al parco con le ginocchia sbucciate. Valeria che mi disinfetta con l’alcol. Sto mangiando una frittata con le patate. Valeria che mi sorride. Sono disteso a letto con il primo, desertificante, mal d’amore. Valeria che mi racconta di Goffredo Parise e dei suoi viaggi straordinari. Le mie prime scritture, pallida imitazione delle sue. Valeria che mi suggerisce un paio di locuzioni ficcanti, più adatte al contesto.
Fuori dell’ospedale il sole fatica a insinuarsi tra gli sfilacci della nebbia padana. Luigi sta arrivando con la sua camminata lenta. Ha sposato mia sorella dieci anni fa, più o meno, sia benedetto. Il deficiente è uscito di scena già da un bel pezzo, lasciandosi dietro strascichi di livore, di debiti e di tradimenti seriali con ragazze molto giovani. Ci salutiamo rapidamente con la stessa gioia di sempre. Lui attraversa le porte scorrevoli nel momento in cui alle mie spalle Clementina si affanna sul selciato in eterno ritardo. Vive da anni in Trentino con un uomo che si è stabilito saldamente negli interstizi delle sue giornate convulse e speriamo che ci resti a lungo. É corsa qui appena ha potuto. Stanno per chiudere le provincie e probabilmente metteranno in quarantena anche qualche regione. Il Coronavirus corre verso la pandemia e sembra quasi impossibile che stia succedendo veramente. Clementina vuole vedere a tutti i costi sua sorella ma non sarà possibile; ci sono dei limiti precisi alle visite e li abbiamo superati ampiamente.
Si siede su un muretto in cemento armato e mi chiede in che condizioni si trova Valeria. La rincuoro dando fondo a tutte le mie riserve di ottimismo; la situazione è stabile ma respira ancora artificialmente. Le metto una mano sulla spalla e colgo, sospesa, una domanda che non trova il coraggio di fare. Mi ritorna, come un’onda di marea che non posso trattenere, il peso sul petto. Dopo una brillante carriera universitaria, Valeria scrive romanzi. Clementina estrae dalla borsa la sua ultima fatica letteraria e la sfoglia con misurata lentezza. Piangiamo tutti e due lì, impalati davanti all’edificio principale dell’ospedale.
Sono rientrato nei miei cinquanta metri quadrati, dopo l’ennesimo ritorno a giorni da single, e sono salito in soffitta. Sono sicuro di aver messo la valigetta da qualche parte dopo che avevamo tentato di consegnarla a mia nipote e subito dopo a mia figlia, ma senza molto successo. Un’idea della Lego per conservare quei regali preziosi. La trovo nascosta in un angolo. All’interno, uno scomparto estraibile nasconde i pezzi più grandi che stanno sotto.
Metto insieme in cucina una splendida villetta a elle su due piani. Poi la disfo perché non mi piace abbastanza e tento di riprodurre le stanze della nostra infanzia e della nostra prima gioventù. Non sono ancora soddisfatto. Riassemblo tutto come se stessi infondendo un soffio vitale alle cose, ricostruendo ore e minuti, reimpastando ricordi, rincorrendo emozioni. Alla fine mi perdo nella realizzazione di una possibilità, un’opportunità, una variazione positiva in un multiverso a dimensioni variabili. Come i pezzi del Lego, creatori di mondi.
Alle sette di sera Luigi mi chiama con la voce incrinata; una piccola crepa benefica nel muro del destino. A Valeria hanno tolto i tubi e la crisi è passata. Ne avrà per alcune settimane ma la rivedremo salda sulle gambe a dispensare consigli sulle nostre vite in eterna burrasca. Penso subito, con l’ingenuità del bambino che non ho mai smesso di essere, che i Lego hanno funzionato. Sono riuscito a trovare la combinazione giusta.
Paola, che è passata per un attimo nella mia vita come un lampo di flash spento subito nel buio, portandosi dietro quel vago sentore di tempesta da cui ero stato travolto, mi ha rinfacciato che devo smettere di comporre e scomporre la realtà a mio piacimento, come si fa con i mattoncini del Lego, falsandola sino a rendermi ridicolo. Non ho avuto nemmeno l’opportunità di replicare. In realtà, io volevo soltanto costruire emozioni.

Mario Coglitore
donatella
16 Marzo 2020 at 14:57La penna agile e di forte impatto visivo di Mario Coglitore fa pensare più alla matita di un illustratore (da qui forse la sua passione per il mondo dei fumetti) che alterna tratti leggeri ad altri più marcati, tuffandosi dritto in un’attualità che colpisce pesantemente il mondo adulto e per il quale cerca una cura con quello naturalmente giocoso e fantastico dell’infanzia.
“Costruire” emozioni tramite i mattoncini della Lego è un finale che commuove, perché impotente di fronte alla malattia della sorella maggiore, il bambino diventato adulto compie un rito quasi magico, una preghiera laica attraverso la materia, dei pezzetti colorati che trovano perfettamente il loro incastro in una realtà che meno perfetta non potrebbe essere.
Antonella Bontae
17 Marzo 2020 at 19:27È un racconto meraviglioso!