Nuove speranze giungono dal mondo scientifico che ipotizza l’impiego di farmaci antimalarici a base di chìnino per la cura del Coronavirus. Per secoli la China China fu importata e costituì un business per la Repubblica di Venezia, essendo un valido febbrifugo.
La corteccia di Cinchona, albero che cresce alle pendici delle Ande in Perù, dove gli indigeni la utilizzavano per contrastare gli stati febbrili, fu introdotta dai Gesuiti in Europa nel 1640.
A Venezia fu impiegata per curare le febbri ricorrenti, soprattutto nelle aree paludose della laguna “morta”, come era chiamata la fascia vicina alla terraferma in cui la forza purificatrice del mare non arrivava a vivificare le acque stagnanti alle foci dei fiumi, che creavano il contesto ideale per la diffusione del “mal aere” in cui proliferavano le zanzare.
Fu un monaco di S. Michele in isola, affetto da una terribile febbre quartana, a sperimentare con successo la china speditagli dal cardinale Juan de Lugo. Da quel momento il farmaco ebbe ampia diffusione a Venezia anche con il nome di “polvere del cardinale” e contribuì a contrastare le febbri che ogni anno flagellavano le popolazioni insulari. Bernardino Zendrini, idraulico, medico e matematico, che sperimenterà nel 1738 l’uso della terra lavica di Pozzuoli per il consolidamento dei murazzi, uomo attento a tutte le innovazioni, dedicò nel 1715 un trattato alla China China.
Essendo un farmaco molto richiesto, i Provveditori alla Sanità dal 1731 in poi, con reiterate terminazioni, cercarono di contrastare l’importazione e la vendita di china avariata, contraffatta o di pessima qualità con ispezioni in case e negozi e 100 ducati di multa con immediata apertura di “processo di inquisizione” contro i rei.
Poteva essere importata solo la “China Gentile” e non la “Matalona” di qualità assai scadente, perciò nel 1732 il Magistrato alla Sanità introdusse l’obbligo di far peritare a rappresentanti degli spezieri, dei sanseri da droghe (intermediari del commercio delle droghe) e dei droghieri, tutta la corteccia di china che arrivava nelle dogane pubbliche, verificandone la qualità prima che venisse smistata nei negozi. Fuori legge, oltre alla Matalona, erano anche quelle definite “china bianca”, mercantile e mista, che venivano rispedite al mittente con lettera di segnalazione al console veneziano nel paese esportatore.
Poteva accadere che qualche partita avesse subito deterioramento in viaggio o che la corteccia tritata fosse stata adulterata con aggiunta di mandorle o altro. Il prodotto avariato, come la “scorzona imbriaga”, doveva essere immediatamente bruciato e i proprietari castigati con pene afflittive e pecuniarie.
Anche la filiera della distribuzione veniva controllata per colpire i venditori di China introdotta o manipolata illegalmente. Il proto medico del Magistrato alla Sanità eseguiva con un droghiere e uno speziale, estratti a sorte dalle rispettive arti, le ispezioni nelle spezierie per colpire abusi e contraffazioni, concedendo l’impunità agli accusatori pentiti che vi avessero partecipato. La China adulterata veniva immediatamente bruciata e allo speziere era inflitta la sanzione di 200 ducati e aperto processo contro di lui. Il prezzo di vendita era fissato dallo Stato e le province dovevamo approvvigionarsi dalla Dominante.
Ignazio Lotti, protomedico dell’Istria, nel 1791 denunciò, la consuetudine di riservare ai ricchi veneziani la china di migliore qualità, vendendo al popolo e alle province periferiche, come l’Istria, quella scadente. In risposta al suo protomedico in Istria, il Magistrato definì, con una apposita terminazione del 4 maggio dello stesso anno, la qualità della “China peruviana, gentile e perfetta” che doveva circolare in tutta la Repubblica con attestato di sanità e così ne descrisse l’aspetto: “cartocciata in canelli, pesante, aspra o lagrimata a dovere, di superficie esterna bruna, fosca e griggia, perfettamente secca, segnata di solchi circolari, internamente liscia e colorata di cannella….con odore e sapore di muffato ed aromatico, amara al gusto non spiacevolmente, che masticata non riesca mucillaginosa, che spezzata non si divida in filamenti legnosi dietro l’andamento delle fibbre, ma che presenti una materia lucida, salina, penetrata nella sua sostanza.”
Era proibito conservare la polvere di China in “carte suggellate”, perché andava posta soltanto in vasi di cristallo o maiolica ben chiusi, le casse contenenti la corteccia dovevano essere tenute in luoghi asciutti.
Nel 1820 dalla corteccia venne estratto il principio attivo in forma pura, un alcaloide che fu denominato Chinino dai farmacisti francesi Pierre Joseph Pelletier e Joseph Bienaimé Caventou

Nelli Vanzan Marchini
Storica - Docente
Selvino
28 Marzo 2020 at 18:03Ciao daniela. Interessante articolo, è proprio vero che per andare avanti bisogna tornare indietro..saluti a tutti