“Giovanni telegrafista e nulla più […] aveva il cuore urgente […] battendo, battendo, su un tasto solo.”
Enzo Jannacci, Giovanni, telegrafista
Venezia, primavera 1920. Palazzo delle Poste, Rialto. Sala telegrafi.
Dario guardò di sfuggita l’orologio; le 22.30. Il turno di notte non era molto affollato, adesso che la guerra era finita e le cose cominciavano ad assumere una parvenza di normalità. Tempeste di fuoco si erano abbattute ovunque e molti dei colleghi che aveva avuto fianco a fianco riposavano in qualche dimenticato cimitero del Fronte, 650 chilometri di voragini prodotte dagli obici, di trincee che si innervavano come piaghe nella terra dissodata dalla violenza, di camminamenti in quota devastati dall’orrore. A quarant’anni appena compiuti, Dario aveva scampato la chiamata alle armi non soltanto per la maturità ormai avanzata ma anche per la sua riconosciuta abilità di telegrafista. E Dio solo sapeva per quante ore era stato appiccicato agli apparati Morse a ricevere e spedire telegrammi: ai soldati e alle famiglie, ai Comandi dell’Esercito e agli uffici che li giravano alla Posta Militare per recapitarli in prossimità del crepitare delle mitragliatrici, dove i fucili dei cecchini non sbagliavano mai un colpo.
Quando l’epidemia di polmonite, subdola e devastante, era penetrata in quello scenario di morte, aggiungendo caos al caos, e dolore al dolore, sembrava che l’Europa intera fosse destinata ad essere ricoperta dallo stesso lenzuolo bianco sotto il quale giacevano ordinate file di cadaveri con i polmoni collassati. Influenza spagnola, l’avevano chiamata, anche se gli spagnoli non c’entravano niente; esenti da censura militare, perché neutrali durante il terribile conflitto, si erano affrettati a dare tempestive notizie su quel morbo spaventoso giorno per giorno, nel silenzio colpevole degli altri Stati europei e sembrò che fossero contagiati più degli altri.
Dario si scrollò di dosso i cattivi pensieri. Lui le notizie sul morbo le aveva punzonate sul tasto del Morse; “riservato-urgente”, “riservato-urgente”, “riservato-urgente”, recitava il rosario dei bollettini sull’influenza, quelli che in pochi dovevano leggere. In tre ondate diverse, fino all’inverno del 1918, la “spagnola” si era portata via 600.000 italiani, in maggioranza giovani maschi adulti. E nei mesi successivi i decessi erano andati decrescendo senza che la marea smettesse veramente di montare. Chioggia, alle porte della laguna, piangeva ancora le sue ultime vittime, tumulata tra le tende bianche degli ospedali da campo.
Il ticchettare sommesso della linea aperta con la sua corrispondente gli fece voltare la testa verso l’apparecchio che stava a qualche decina di centimetri da lui poggiato sul ripiano del tavolo, immobile nella sua compostezza metallica, uno dei tanti di quell’ordine ortogonale fatto di cavi e bobine. Il cuore mandò due o tre battiti più veloci, e poi prese a pompare rapido. Era lei. In quel mondo fatto di sussurri elettrici e di strisce di carta che si raccoglievano chilometriche ai piedi di ogni singola postazione, il battere sommesso delle incudinette – e poteva sembrare impossibile – portava con sé l’impronta di ciascun operatore. A orecchie abituate a cogliere ogni più piccola variazione di suono, i lemmi in codice di ognuno giungevano come soffi impercettibili di persone lontane e vicine al tempo stesso.
Dopo il primo, compostissimo telegramma, la cui cifra metrica veniva impressa sulla “zona”, la linguetta di carta che scorreva lenta e misurata riportando punti e linee, secondo accordi ormai usuali Dario tolse la striscia lasciando che il punzone metallico picchiettasse in solitaria, riproducendo messaggi molto privati. Si mise in ascolto piegando leggermente il busto in avanti.
«Come va?» stava chiedendo lei.
«Bene» rispose lui «Giornata pesante laggiù?». Sorrise con gli occhi e fugacemente con le labbra. Antonio, seduto un poco più in là, avrebbe potuto facilmente ascoltare, ma non lo fece. Diede uno sguardo in giro, anzi, per controllare che quel balordo del capo servizio non venisse ad interrompere il tramestio di due cuori che correvano in quel momento su fili di rame.
«Un poco» ticchettò lei «Ma ce la caviamo, al solito. Tra dieci minuti finisco il turno e rincaso. Tira un po’di vento fresco stasera.»
«Copriti» disse lui premuroso.
Lontana nello spazio, ma non nell’anima, lei sorrise. Come si trasmette un sorriso? Pensò. Poi digitò «Lo farò, grazie».
«Ti penso spesso», compulsò lui, e poi se ne pentì, ma quel messaggio mica si poteva cancellare una volta andato con la sua cadenza ritmica.
«Buonanotte», chiuse lei.
Dario si mangiò le mani. Non si riusciva a smuoverla più di tanto. Pazienza, impose allo scorrere del suo sangue che saliva fino alle orecchie tambureggiando. Pazienza.
Venezia, primavera 2020. A casa.
Quando sarebbe finita, non era chiaro. Il Coronavirus si portava via ogni giorno qualcun altro. Molti guarivano, certo, e la speranza in una soluzione rapida piantava radici. Ma le strade deserte avevano reso la città spettrale, specie dopo il tramonto, mentre i lampioni si affannavano a illuminare un vuoto di selciati solitari che ti metteva addosso un impalpabile senso d’ansia.
Dario, che portava il nome di suo nonno quando in città se ne faceva inflazione, aprì con un colpetto lieve Whatsapp per l’ennesima volta. Aveva personalizzato anche il tono di notifica della sua compagna di conversazione per identificarla al semplice arrivo del messaggio. Piccoli vantaggi della tecnologia.
«Come va?» domandò lei. «What’s up?», Dario pensò alla traduzione inglese della domanda da cui era nato l’acronimo dell’App più famosa in circolazione, perlomeno in Italia.
«Bene. Sto cominciando il libro sulla morte di Neruda all’epoca del Golpe in Cile di cui ti dicevo.» Punto finale, come di prammatica. Li detestava i messaggi buttati là. In fin dei conti era come scrivere una lettera in frammenti. Singoli pezzi di scrittura che si scioglievano in conversazione; un colloquio, avrebbe osservato la sua sorella maggiore, che di parole se intendeva, come dimostravano i suoi romanzi.
O meglio ancora, concisi telegrammi battuti in un flusso elettronico.
Segnale acustico da fiaba di Andersen. Collegamento a YouTube: Barbra Streisand, Memory. Favolosa. Lui la ascoltò d’un fiato. Poi lasciando aperta la finestra di Whatsapp, cercò in Rete Besame mucho cantata da Cesaria Evora e la spedì, condividendola. L’appuntamento musicale era diventato irrinunciabile e non solo quello. Anche lo scambio di opinioni, tonalità affettive, letteratura, poesia, arte, politica, e, immancabile, qualche aggiornamento sull’epidemia. Le giornate erano scandite da passaggi di cortesie, scambi emotivi e spunti autobiografici che le rendevano più sopportabili in quella specie di clausura imposta dalla necessità di impedire al virus di propagarsi senza tregua. Un utilizzo appropriato della tecnologia, una volta tanto, annuiva Dario nella solitudine del divano. Ne risultavano amplificati i processi del controllo sociale e individuale, certo, ma quelli erano già compromessi da anni. Trillo.
«Lo leggerò anch’io. Ne sto finendo un altro. Adesso sono al lavoro con questa crostata alle ciliegie.» Faccetta col sorriso aperto. Foto. Per di più anche cuoca eccellente, Dario sospirò.
«Non è mica giusto… soffro in silenzio.» Faccetta con la lingua di fuori e un occhio chiuso.
«La mia preferita è quella all’arancia, però.» Rapido volar di tasti.
«Abbiamo gli stessi gusti. Perché all’arancia mi piace troppo.»
«Te ne darò un vasetto. La faccio io.»
È troppo. Sa fare anche la marmellata. Dario si mosse a disagio tra i cuscini colorati. E pensare che non l’ho nemmeno mai vista di persona. Conoscenza indiretta attraverso amici comuni. Ma sempre più diretta in quei frammenti virtuali, misurati passi di un valzer delle emozioni. Finito quel caos batteriologico c’era il progetto almeno di un incontro al volo, giusto per respirare la stessa aria una decina di minuti. Magari qualcosa in più, favoleggiò Dario con un pizzico di speranza. Riflettè su una risposta appropriata. Non c’era in quel momento. Che cosa vuoi scrivere? Verrei a prendermi la marmellata adesso, in piena notte, sfidando tutti i controlli del mondo? Condivise Tears in Heaven di Eric Clapton. Trillo dopo un paio di minuti. Love of my life, Queen. Affondato.
Venezia, primavera 1920. Palazzo delle Poste, Rialto. Sala telegrafi.
Le parole in codice rubate ai Telegrafi di Stato avevano consolidato un candido rapporto a due fatto di notizie leggere e noterelle di vita interessanti. Abitava con il padre vedovo, non era sposata, un fidanzamento finito male, aveva festeggiato il trentottesimo compleanno. Capelli scuri, occhi grigi. Alta quanto lui. A un certo punto alla casella postale di Dario, giù al pianterreno, era arrivata una fotografia chiusa in busta con un messaggio vergato in calligrafia leggera e svolazzante «Questa sono io. Un caro saluto». Dario era arrossito in silenzio. E le aveva mandato la sua, dopo ore di selezione tra quei quattro o cinque scatti che possedeva di se stesso.
Poi non si erano sentiti per un pezzo. Turni male assortiti. E i corrispondenti che non erano sempre gli stessi. Non riusciva a dire se il caposervizio aveva intuito qualcosa e sistematicamente lo assegnava altrove. Conoscendolo, non ci sarebbe stato niente di così strano. Dario salì le scale antiche fino al terzo piano, dove, portato tutto di nuovo a braccia pezzo per pezzo, avevano ricostituito la sala trasmissioni collocata in sicurezza al primo piano durante la guerra. L’edificio stava cadendo in pezzi e qualche frettolosa pantegana aveva addirittura fatto capolino nell’ampio cortile interno zampettando in un lampo verso la porta d’acqua che dava sul Canal Grande. Ci sarebbero voluti altri nove anni prima che si mettesse mano ad un restauro che avrebbe riconsegnato il Fondaco dei Tedeschi a parte del suo antico splendore. Ma questo, Dario non poteva saperlo nel corso di quelle settimane che stavano diventando sempre più miti sotto un cielo percorso ogni tanto da brividi temporaleschi.
La temperatura serale era scesa e anche al lavoro una maglia in più non guastava. Riparato nel suo cardigan di lana sopra il quale aveva messo il grembiule d’ordinanza, firmò l’entrata in turno e si scoprì nel posto giusto. Non gli sembrava vero. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi sornioni di Antonio che ammiccavano. L’orarista era un suo amico fraterno e per quel certo favore da ricambiare aveva ricomposto la tabella del destino.
Soddisfatto Dario cominciò di buona lena a trasmettere e ricevere. Se solo avesse potuto, al momento giusto, spedirle le immagini che gli affollavano i pensieri, o semplicemente alcune di quelle arie che ogni tanto riusciva a sentire a teatro, quando trovava una poltrona nell’ordine più alto con ciò che risparmiava a fatica, e che lo travolgevano di nostalgia, avrebbe aperto la porta sconosciuta di un cuore immobile. Mentre il suo indice destro si muoveva sul tasto con esperienza consumata, quasi una passione per quei segnali pulsanti impressi con vigore, componeva sinfonie ticchettanti che si propagavano in una ragnatela palpitante di informazioni analogiche. All’ora giusta aveva già concepito il piano. Un progetto ardito, esagerato, dettato dal peso che portava nel petto. Una palpitazione degna di D’Annunzio. Sospese il traffico ufficiale più o meno alla solita ora, dopo quasi tre ore di scambi con lei sulla linea. Lo digitò tutto d’un fiato.
«Come va?»
«Bene, grazie.»
«Domenica sono di riposo.»
«Anch’io.» Coincidenza incredibile. Aveva in mano l’opportunità di una vita futura. Tanto ci sarebbe andato comunque; a costo di vederla anche solo in distanza.
«La prima in cinque settimane.»
«La prima in due mesi» rispose lei con tocco brillante.
«Prendo il treno e sarò in stazione da te per le undici», travolse ogni ostacolo e attese il ticchettio familiare. Niente. Cercò con lo sguardo Antonio che strinse gli occhi e lo fissò preoccupato. Tre minuti; avrebbe dovuto riattivare la linea. Furono secondi imbevuti di panico assoluto. Era andato oltre, naturalmente. Che illuso. Nella sua testa, il convoglio lasciava già la pensilina senza di lui. Buio dell’anima. Il segnale sonoro arrivò da un punto distante nel tempo immobile della sua costernazione.
«Ti aspetto accanto alla biglietteria». Per quanto dall’altra parte del salone, Antonio emise un sospiro di sollievo che probabilmente sentirono fino a San Marco.
Il treno, quella domenica, non partì da solo.
Venezia, tarda primavera 2020. Stazione ferroviaria.
Com’era arrivata, l’epidemia se ne andò, dopo essersi frantumata contro la barriera dei vaccini e delle misure precauzionali imposte dovunque. Rumoreggiava ancora tra gli anticorpi, in realtà, e il virus non sarebbe mai realmente scomparso. Ma la vita riprendeva poco a poco. Ritornarono le strette di mano e anche gli abbracci. Dario era fermo nei pressi del binario 14. Whatsapp taceva, complice. Gli sarebbe piaciuto che i treni avessero fischiato ancora, spandendo attorno quel fumo biancastro pieno di vapori forti e soffocanti. Il Regionale veloce si scorgeva in lontananza. Trillo di fiaba. Sorpreso, lui mise una mano in tasca. Andersen dall’altra parte del marciapiede si sistemò il cache-col a pois bianchi, lo osservò per un attimo, e sparì tra la folla di turisti che sciamavano verso l’uscita.
Dario aprì l’applicazione e premette sul nome giusto. Youtube: Viaggi e miraggi, Francesco De Gregori. Indossò le cuffiette e cominciò ad ascoltare. Quando lei si affidò allo sguardo di lui la canzone era già finita. E forse ne cominciava un’altra.
Mario Coglitore
Scrittore - Docente