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LA LETTURA DELLA DOMENICA. “Archeologia dei sentimenti”

Ti guardiamo noi, della razza

di chi rimane a terra.

(E. MONTALE)

 

 

Lo squillo perentorio del telefono mi ha fatta sussultare mentre, per destreggiarmi nelle maglie larghe della clausura da COVID 19, mentre ero immersa nella lettura di un trattato ponderoso che mi era stato suggerito da un amico psichiatra, per stimolarmi a riflettere sulla natura complessa delle emozioni.

Io non ho mai affrontato volentieri le ricerche scientifiche per idiosincrasia e per evidente incapacità di comprendere i percorsi distanti dall’ambito umanistico filosofico e letterario in cui sguazzo con maggior disinvoltura fin dalle elementari.

Non è un caso che sul mio diploma di maturità, accanto alla media del nove nelle materie umanistiche, ci fossero due sei in matematica e scienze che mi avevano rovinato il traguardo.

Ero giustificata, quindi, se pagina dopo pagina, il malloppo mi sembrava davvero di difficile comprensione, persino ostico.

Gli studiosi di neuroscienze spiegavano che nei cervelli dei mammiferi esistono dei reali circuiti fisici, distinti per le varie emozioni: attesa, ansia, collera, desiderio sessuale, cura, panico, tristezza, gioco.

Questo suggeriva che, a un livello emotivo ed emozionale di base, tutti i mammiferi siano più simili che diversi. In poche parole esisterebbe un tesoro archeologico della mente, dalle molte sfaccettature, che incarna le nostre capacità per l’esperienza affettiva, capacità che condividiamo con i nostri cugini animali.

Certo, solo gli animali più intelligenti sono in grado di riconoscere la relazione causa-effetto mentre gli esseri umani possono attingere dagli insegnamenti passati, allo scopo di attuare comportamenti che incrementino il loro benessere e la loro sopravvivenza.

A questo si aggiunge che però che negli esseri umani le emozioni si intersecano con intenzioni e pensieri sul mondo, con il risultato che le nostre valutazioni sul mondo sono in grado di generare sentimenti.

Gli affetti, allora, sono antichi processi cerebrali per codificare dei valori, per compiere giudizi rapidi su ciò che aumenta o diminuisce le possibilità di sopravvivenza perché le capacità affettive sono antiche funzioni del cervello evolute prima delle complesse abilità cognitive che consentono di affrontare situazioni ambientali complesse.

Accidenti!

Mi ero piantata in particolare su alcune affermazioni apodittiche che sostenevano che le parole non possono descrivere gli affetti e le esperienze primarie perché sono solo etichette. Secondo questi studiosi non si può spiegare come ci si sente ed essere arrabbiati, spaventati, bramosi, soli, giocosi o eccitati, se non indirettamente attraverso metafore.

Aristotele, nella Poetica, aveva definito la metafora «trasferimento a una cosa di un nome proprio di un’altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie», evidenziando  il rapporto di somiglianza tra il termine di partenza e il termine metaforico, sottolineando che il suo  potere evocativo e comunicativo è tanto maggiore quanto più i termini di cui è composta sono lontani nel campo semantico.

L’accezione offerta dalla linguistica cognitiva, che definisce la metafora concettuale come la comprensione di un dominio nei termini di un altro, per esempio l’esperienza di vita di una persona nei confronti dell’esperienza di un’altra persona, mi consentiva forse di mettere in relazione persona e animale, i mammiferi tra loro, in particolare.

Nonostante la mia diligenza, però, l’interpretazione delle origini neuroevolutive delle emozioni umane restava un’impresa davvero ostica.

Mi dibattevo, appunto, in questi meandri complicati e ispidi dell’archeologia della mente quando il cellulare ha diffuso le note di una famosa sonata di Chopin.

La voce di mia nipote Anna, che desiderava raccontarmi, con la sua solita grande creatività e sensibilità, una scena accaduta davanti ai suoi occhi, mi ha trascinata di colpo in un mondo di tenerezza e fantasia.

In questo periodo si trova in montagna, sui monti del Cadore, isolata assieme alla mamma e ai suoi fratelli in una piccola baita in legno, molto suggestiva ed accogliente, dove trascorre le giornate tra neve e sole, impegnata in lezioni online, nei relativi compiti a casa e in giochi o letture variegate.

Ci sentiamo quotidianamente e utilizziamo la tecnologia per scambiarci le esperienze a distanza e supplire in qualche modo alla forzata separazione.

Mi appassionano i suoi racconti sempre ricchi di curiosità e di impressioni felici, che illustra con una serie di fotografie variopinte, inviate via WhatsApp.

Il suo tono era particolarmente effervescente.

– Nonna, stamattina, quando ci siamo svegliati, abbiamo scoperto che un bellissimo cervo si era sdraiato sotto il grande abete che si trova sullo spiazzo davanti a casa nostra, quello dove d’estate costruiamo le nostre casette. Ti ricordi?

Era immobile, ma aveva il collo dritto, la testa rivolta verso di noi, gli occhi aperti, in un atteggiamento perfino elegante. Lo abbiamo osservato tutto il giorno da lontano, cercando di non spaventarlo; abbiamo tenuto legato anche Pepe, il nostro cockerino che in questo periodo rincorre i pettirossi, immaginando che potesse trattarsi di una femmina che stava per dare alla luce i cuccioli.

Ti assicuro che eravamo emozionatissimi alla vista di quella cerbiatta proprio di fronte a noi. Potevamo finalmente osservarla a lungo come non è mai accaduto prima. Lo sai che i cervi in autunno normalmente ci distruggono il giardino, mangiano i gerani, calpestano i vasi dei rododendri. Papà si arrabbia sempre perché vede andare in malora tutto il suo lavoro di giardiniere, ma non riusciamo mai a guardarli bene perché, di giorno, al primo movimento scappano a zampe elevate.

Nel primo pomeriggio, il nostro vicino, quel signore burbero che ci guarda sempre facendoci gli occhiacci, ci ha detto a muso duro che la bestia era morta e bisognava interpellare l’ufficio d’igiene perché la portassero nelle immondizie e la bruciassero per evitare il contagio da possibili malattie.

Sono tutti isterici, nonna, in questo periodo.

Noi bambini non possiamo neppure giocare sul prato con i nostri amici e ci salutiamo da lontano urlando e scuotendo le mani o chattando sul computer.

Siamo rimasti fino a tardi a vegliare da lontano quell’animale sfortunato. Chissà perché era morto.

– Forse lo hanno investito sulla strada e si è trascinato sotto l’albero per avere compagnia – ci diceva la mamma per consolarci.

Dopo cena, ci siamo fatti la doccia, indossato i pigiami, lavato i denti, recitato una preghiera come al solito e poi ci siamo affacciati per dargli l’ultimo saluto prima di andare a letto.

Il nostro cervo non c’era più.

Sotto l’abete non c’era più.

Poco distante però, sul prato, abbiamo visto una decina di cervi, alti e robusti, che stavano brucando l’erbetta appena spuntata tra i cumuli di neve.

Un branco intero, nonna!

Dovevi vederli mentre si muovevano e si strofinavano il muso l’un l’altro come per riconoscersi e salutarsi. Purtroppo non si presentano mai di giorno, perché hanno paura di noi umani. Si possono vedere solo al buio, come se fossero angeli della notte che controllano le nostre case.

Ho sbirciato molto attentamente, senza fare rumore, per vedere se tra loro c’era anche quello accucciato sotto l’albero, ma non sono riuscita a riconoscerlo. Magari il vicino si era sbagliato e lui era vivo e vegeto davanti a me …

Non si sa mai, ma non l’ho riconosciuto.

I cervi, poi, li ho visti allontanarsi insieme, tutti uniti, e arrivare fino al fitto del bosco che confina con il nostro prato: sono diventati dei punti lontani e non sono riuscita a vederli più.

Allora ho immaginato che fossero venuti qui questa sera perché erano venuti a cercarlo, come si fa quando un amico si perde nel bosco, e che forse le avevano portato via con loro perché non avesse più paura di restare solo.

Si fa così quando ci si vuole bene. Vero?

Magari c’è un paradiso dei cervi e gli angeli della notte lo hanno accompagnato perché loro conoscono dove si trova.

Quando l’ho detto alla mamma ci sono venuti improvvisamente gli occhi lucidi perché tutte due ci siamo ricordate di quando quest’estate è mancata la nonna. Un male terribile l’ha portata via.

Un dolore insopportabile per tutti noi, ti ricordi, settimane dopo settimane, fino a quando papà un giorno ci ha spiegato che lei se n’era andata sorridendo perché accanto al suo letto aveva visto il viso della sua mamma che era venuta a prenderla.

Noi ci siamo sentiti sollevati, perché allora abbiamo capito che chi ci vuole bene resta per sempre accanto a noi anche se non lo vediamo.

Forse non si possono paragonare i sentimenti degli animali e quelli delle persone, ma a me è venuto questo pensiero e mi sono consolata.

Non credo di aver mancato di rispetto alla nonna, vero? Ti ho scandalizzata? –

– No, tesoro. No. Si possono paragonare i sentimenti tra diverse specie viventi. Lo afferma anche la neuroscienza. E io grazie a te, anima candida, credo di aver finalmente intuito la sua argomentazione.

 

 

 

 

 


Saveria Chemotti

Scrittrice

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