Quando brilla la luna
di Mario Coglitore
“Là sulla duna quando brilla la luna, spunta il nostro eroe, Zorro…”
Zorro, Sigla originale italiana
Il tema della maschera è affascinante. Dal Carnevale ai fumetti, di gente mascherata ne trovate parecchia. E tutti lì a affannarsi per mostrare chi porta la più evocativa, la più bella, la più colorata. Poi, ci sono maschere del volto, maschere della personalità, personaggi che interpretiamo senza niente sul viso, semplicemente assumendo mimiche facciali particolari. Insomma, un intero universo di possibili articolazioni espressive.
La maggioranza di noi ne fa uso ogni giorno, a prescindere dall’età e dalla collocazione sociale. Forse, chissà, è una questione generazionale e, di sicuro, socio-culturale. Chi è nato al principio degli anni Sessanta del secolo scorso, di occasioni per tuffarsi in autentiche acrobazie spericolate e scalmanate, veri balli dello spirito, non potrà che essere d’accordo. In questo senso, e facciamola breve, altrimenti smettete di leggere il resto e chi non lo farebbe, la macchina dei sogni hollywoodiana si è letteralmente sprecata.
Dopo lampi e tuoni, un vento forte spazza il cielo, e si sente odore di erba e polvere. Brilla la luna nella notte. Sul contorno in ombra delle colline davanti a voi, specie di dune sempreverdi a guardia di una Los Angeles di altri tempi, insediamento urbano che niente ha a che vedere con l’attuale, si staglia un cavallo nero. In sella c’è Zorro. La maschera delle maschere, indomito difensore dei deboli, spadaccino invincibile. Un mantello favoloso schiaffeggia l’aria intorno e tutti i cattivi del mondo. Non parliamo del cappello, che sembra incollato in testa al nostro eroe e non si sposta di un centimetro. Ci sarà anche il cordino che sotto la gola lo tiene ben calcato, ma che non si muova mai è ben strano, lo ammetterete.
Ipnotizzati davanti a quell’ingombrante televisore con le valvole che stazionava sul famoso carrello di vetro del soggiorno, guardavamo, bambini, le sue mirabolanti avventure. Così abbiamo ingoiato simboli ed effetti sonori, per quel che si poteva all’epoca del canale audio rigorosamente “mono”. E in bianco e nero prima che ci colorassero i sogni.
Fu in quei giorni che la sottile linea di confine tra il giusto e l’ingiusto, tra il bello e il brutto, tra il coraggio e la vigliaccheria venne disegnata nei nostri cuori. A firma Walt Disney; quindi, in tutta onestà, direttamente dalla fabbrica del consenso a stelle e strisce. Zorro, esule della libertà e castigamatti, difendeva i deboli e si fingeva un bellimbusto imbellettato e privo di qualsiasi nerbo dismessi i panni del giustiziere. Deve essere stato in quei frangenti che il mantello l’abbiamo indossato per sempre.
Qualche anno più tardi, dopo essere stato sepolto in un angolo dimenticato del nostro inconscio, incrollabilmente latente, il vendicatore color pece era riapparso, non richiesto, dirigendo le nostre azioni. Posto che abbiamo mai avuto una vita veramente da adulti, una cospicua parte di noi tirava fuori la spada a ogni piè sospinto, senza rendersene nemmeno conto. Sarà per questo forse che le abbiamo prese parecchie volte di santa ragione, metaforicamente per carità, incapaci di accettare il fatto che la realtà con la fantasia non c’entrava niente.
Purtroppo, in seguito, alla faccenda della maschera si è aggiunta anche una elaborazione, un pochino esagerata, del concetto di “cavalleria”. Disastro atomico; e in decenni durante i quali la Guerra fredda ci penetrava nelle ossa in un clima generale le cui incertezze ci sfuggivano, tutto sommato, rintronati dalla società dei consumi, ma che pure condizionava le nostre azioni, indirettamente perlopiù e con insistenza. Senza macchia e senza paura, fantasticavamo su come correggere i torti subiti, da noi stessi e, quel che è peggio, dagli altri. Come nelle puntate del telefilm che con Carosello costellava le nostre vite di bravi ragazzi. Quando in mezzo gli altri si infilarono anche le “altre”, allora sì che cominciarono i guai. Cominciarono e non finirono mai, possiamo dircelo qui fra pochi intimi, senza remore.
Con in tasca l’idea piuttosto ossessiva del duello permanente, ci siamo lanciati in sfide all’insegna di un sentimento melodrammatico, e valeva anche coloro che più sobriamente affrontavano il trascorrere dei giorni. Nel brillare della luna, spesso assente ma ben presente nei paesaggi del desiderio, questo benedetto uomo così atletico faceva la sua comparsa lanciato al galoppo contro l’ingiustizia, qualunque fosse. E non di rado si trattava solo del frutto di fantasticherie pericolose.
Soffocati nel mantello che si incastrava dappertutto, zompettavamo malamente in mezzo agli affanni dell’esistenza rivendicando obblighi morali che lasciavano attoniti quelli che erano attorno a noi. Le “altre” ridacchiavano sornione, per non dire infastidite, allorché davamo, e ahimè diamo ancora, fiato a una serie di decaloghi, malinconici visti retrospettivamente, sui principi inderogabili della nostra particolare voglia di fare ordine forzando il destino. Zorro non molla mai, traccia le sue famose zeta ovunque, punisce gli arroganti, sfida i mascalzoni.
Sdraiato sul lettino, si è tolto il cappello e lo ha posato per terra accanto alla spada. Il dottore gli chiede se da piccolo i genitori lo mettevano in punizione al buio nello sgabuzzino. Per capire dove sia cominciato il problema, le origini del trauma. Fuori dalla stanza, Tornado, un morello andaluso con ogni probabilità, bruca in attesa. Sotto la maschera, Don Diego suda senza remore e vorrebbe che il fedele servitore gli portasse un cambio d’abiti. E pensare che le donne, nella versione televisiva, neanche c’entravano più di tanto, fuggevoli comparse sullo sfondo della pellicola. Sfortuna vuole che con Catherine Zeta Jones, nei film di ultima generazione, siano ricomparse nel loro splendore, abili schermitrici addirittura, in omaggio a una parità tra i sessi di stampo prettamente maschile, e ballerine di un tango dei sensi che, non fate finta di niente, avrete rivisto un numero imprecisato di volte, proposto su YouTube in tutte le salse possibili.
Zorro è diventato una sindrome, ormai. Sindrome: complesso di sintomi che possono essere provocati dalle cause più varie. Non solo una, capite? Pensate che secondo illustri esperti esiste perfino una “sindrome di Zorro”, vale a dire il disturbo associato alla paura di non poter “lasciare il segno” che comporta, nel caso del maschio eterosessuale adulto, il disinteresse nei confronti dell’accoppiamento per timore del giudizio negativo della partner. Don Diego si agita sul cuoio scivoloso. Vorrebbe scappare, lesto, per una scorrazzata liberatoria tra ibiscus e ginestre. Altro che punire i balordi e i tracotanti; il dottore gli ha smosso profondità recondite e l’acqua si è fatta opaca, limacciosa.
Mentre vi districate col mantello, dandovi un tono e aggiustando la casacca, suona il telefonino.
È lei. Aggiustate la maschera e infilate i guanti.
Si riparte.
Sigla.
Quando brillava… la luna
di Saveria Chemotti
Mi querida hermana,
sobbalzerai leggendo questa mia lettera perché, dopo i nostri trascorsi, tu non ti aspetteresti certo che io mi facessi viva con te.
Sono in un periodo molto difficile e non ho accanto molte persone a cui confidare il mio disagio e la mia preoccupazione. Così ho ripensato a te, alle nostre scorribande a cavallo, alle risate e ai sogni condivisi.
So di averti delusa sparendo dalla circolazione dopo il mio matrimonio, ma le circostanze mi hanno impedito di conservare molti rapporti intessuti nella mia adolescenza.
Ti ricordi?
Io mi ero innamorata follemente di Zorro, il bandito giustiziere che agiva a favore dei diseredati contro la violenza dei potenti con le sue imprese, e mi ero opposta con forza ai disegni della mia famiglia che mi avevano scelto un loro gradito coniuge. Ero perfino scappata di casa e tu mi avevi generosamente nascosta in una stanza del tuo palazzo.
Fino a quando proprio il bandito mi aveva rapita e condotta con sé.
Ti ricordi?
Io ero pazza di lui.
Si presentava sempre a cavallo del suo fidato destriero Tornado, indossando un costume nero che esaltava il suo fisico atletico, i suoi muscoli da macho nascosti sotto il mantello che lo avvolgeva, e completava il suo travestimento con un ampio cappello e soprattutto, la sua nota caratteristica, con una maschera anch’essa nera che copriva il suo viso all’altezza degli occhi. Estremamente agile, vigoroso e resistente, era in grado di atterrare da grandi altezze e di cadere con una piroetta senza subire danni. Si dileguava togliendosi il cappello in segno di saluto, con un gesto ampio del braccio destro, come se stesse recitando su un palcoscenico.
Certo la sua fama era sproporzionata rispetto all’entità delle sue imprese delittuose, ma nelle piccole comunità, sottomesse e silenziose, l’idea di un ribelle capace di osteggiare il regime arrogante, gonfiava a dismisura la sua statura di eroe invincibile, istrionico e inafferrabile. Il cavaliere mascherato poi, era borioso e si vantava dei suoi successi con rapide apparizioni plateali che seminavano il terrore tra i benestanti, paralizzati dalla sua risata beffarda.
Il suo fascino, ma anche la sua nomea, si erano diffusi a macchia d’olio tra le popolazioni indigene della California suscitando sgomento e rabbia nelle forze dell’ordine che non riuscivano a catturarlo. Era sempre un passo davanti a loro, si diceva.
Ti ricordi?
È apparso la prima volta nel grande salone delle feste del governatore brandendo la spada e schioccando la frusta, con precisione e stile impareggiabile, muovendosi davvero con l’astuzia della volpe, con passi veloci, colpi precisi, incidendo la sua Z sugli abiti dei soldati annichiliti, senza ferirli, usando la sua feroce ironia per irritarli per fargli perdere la mente fredda necessaria per contrastarlo.
Io festeggiavo il mio compleanno, diciotto anni sognanti, indossavo un vestito da sera con una casta scollatura e sfoggiavo una collana di brillanti, dono della mia abuela materna. Ero circondata da una piccola folla di corteggiatori che mi chiedevano un ballo e io segnavo i loro nomi sul carnet, in attesa che si aprissero le danze. Ero raggiante.
I miei genitori si erano accordati di buon grado con Don Alejandro de la Vega, un nobile proprietario terriero, vedovo, che mi aveva chiesta in sposa in nome di suo figlio, il giovane Diego che era appena tornato dalla Spagna dove aveva frequentato la prestigiosa Università Complutense di Madrid. Un curriculum di tutto rispetto. Se aggiungiamo poi che era ricchissimo e viveva in un palazzo che era anche un’enorme azienda, io non avevo certo la possibilità di rifiutare un simile partito.
Proprio quella festa avrebbe dovuto sancire il patto tra le due famiglie e io avrei finalmente conosciuto il mio promesso sposo.
Con l’entrata spavalda del bandito ovviamente la ricorrenza si è trasformata in una rissa e io mi sono rifugiata accanto alle mie amiche in una stanza attigua, convinta di scampare al pericolo rappresentato da quella spada affilata.
Non fu sufficiente: lui entrò, si avvicinò, strappò la collana dal mio collo, mi fissò per qualche secondo, lanciandomi un bacio dalla punta delle dita prima di saltare dalla finestra.
Sono sicura che aveva gettato il suo sguardo malandrino anche sulla scollatura.
Occhi accesi, febbrili, i suoi. Indimenticabili. E poi quel sorriso di sfida con cui aveva accompagnato il gesto del cappello.
Sono rimasta seduta, imbambolata, fino a quando, a tarda ora, Don Diego si è presentato: ormai la sala era deserta e io mi tenevo le mani al collo bruciando di vergogna per essermi fatta umiliare da quel fuorilegge. Elegante, baciamano, poche parole di circostanza, ha riempito un flûte di cristallo e lo ha bevuto dopo avermi reso omaggio da lontano.
Potrei dirti, fascino zero. Zero. Un fantoccio che sarebbe stato infilzato facilmente da quello spadaccino acrobata che mi aveva stregata.
Ti ricordi?
Ci siamo frequentati per parecchi pomeriggi.
Io sbadigliavo dinanzi ai suoi riassunti sui paesaggi spagnoli, sulle corse dei cavalli a cui aveva partecipato con scarso successo, sui suoi progetti di coltivazioni di alberi da frutto. Un damerino pigro, colto e incapace con le armi, avverso a qualsiasi rischio, cresciuto nella bambagia, uno a cui non importava nulla se non i propri affari.
Una noia mortale. Di tanto in tanto lui mi sfiorava la mano e io la ritraevo perché mi sembrava molliccia, senza nerbo. Viscida.
Quando cavalcavo al suo fianco avevo l’impressione che perfino Tornado fosse imbarazzato dinanzi al suo modo di montarlo.
Io pensavo solo agli occhi di Zorro, decantavo le sue imprese, mi esaltavo quando ascoltavo delle sue incursioni vittoriose, delle sue punizioni esemplari. Si diceva che fosse anche un seduttore e io provavo un fastidio misto di gelosia quando tu ne parlavi con le bave alla bocca, riferendo i pettegolezzi delle tue conoscenti.
Per questo mi sono opposta con veemenza al mio matrimonio con quella pappamolla.
Ti ricordi?
Ero sulla terrazza del tuo piano nobile quando Zorro l’ha scavalcata rizzandosi in piedi sulla sella, mi ha presa tra le sue braccia ardenti e a cavallo mi ha portata in una casupola di campagna. Bella come una reggia, per me.
Una notte d’amore travolgente, la sua bocca si avvicinava alle mie parole d’amore. Mi respirava. Io vaneggiavo dentro i suoi “te quiero”. Ero fuori di testa. Io ascoltavo il battito del suo cuore all’unisono col mio. Corpo a corpo. La pelle madida di emozioni.
In quel momento non mi sono neppure accorta che non si era tolto la mascherina.
Al mattino dopo si è presentato col suo nome vero, col suo vestito da nobiluomo e mi ha rivelato la sua vera identità, la sua storia. Tutti i particolari della sua trasformazione facendomi giurare che avrei conservato il suo segreto.
Aveva acquisito la sua abilità di spadaccino in grado di difendersi e di sconfiggere i suoi nemici, anche più d’uno alla volta, proprio in Spagna dove si era allenato in ginnastica acrobatica e specializzato in piani di combattimento, infiltrazione in strutture sorvegliate, in spionaggio e fabbricazione di esplosivi improvvisati. Aveva creato il suo alter ego mascherato appena il padre lo aveva richiamato in patria quando la California e Los Angeles sono cadute nelle mani di Don Rodrigo Malapensa e dei suoi funzionari corrotti e tirannici. Un eroe.
Nella sua hacienda aveva costruito una grotta segreta che funge da quartier generale per le operazioni mirate a punire i politici crudeli e aiutare il popolo oppresso e taglieggiato.
Così ho sposato Don Diego de la Vega tra gli applausi della mia famiglia e i miei sogghigni, fingendo di essermi arresa al loro volere e mi sono trasferita nel palazzo di famiglia dorato di marmi, stucchi e tappeti preziosi.
Ero convinta che avrei vissuto una vita da favola. Meschina!
In verità ogni notte quando brilla la luna lui va ad affrontare i suoi nemici, sfidando spavaldo la sorte, lasciandomi in grandi ambasce per i pericoli che affronta, fedele ai suoi ideali.
Al mattino ritorna: sporco di polvere, getta gli stivali in entrata, butta i vestiti nel cesto della biancheria sporca, si sciacqua dal sudore e si getta tra le lenzuola stravolto di stanchezza.
Io sono già sveglia da tempo, gli ho preparato una ricca colazione, indosso una lingerie che mi ha portato Donna Maria come regalo di nozze di nascosto dai miei. Mi eccita guardare la sua schiena nuda, le spalle vigorose, i suoi glutei marmorei. A volte lo sfioro con le labbra ma lui mi scaccia come se fossi una zanzara che lo infastidisce.
Russa. Esco in punta di piedi dalla stanza muovendomi lentamente per non svegliarlo perché, da un po’ di tempo, a ogni leggero rumore, si alza di scatto, indossa la maschera, lancia un urlo sguainando la spada e traccia spaventosi zig zag in aria e su tutto quello che si trova davanti.
Ho dovuto togliere le tende alle finestre, nascondere le tovaglie ricamate, i tappeti, i quadri. Tutto è stato stracciato a suon di Zeta. Gli imbianchini passano ogni due mesi a rinfrescare le pareti e a tappare le fessure.
Dorme fino al pomeriggio. Ingurgita un pranzo frettoloso. Carne rossa. Cotta alla brace, generalmente e molte patate. Poi scende nel suo covo e non si accorge neppure della mia presenza.
Pensa, Ines, per sedurlo mi sono fatta tatuare perfino una zeta nera sulla spalla. Infatti quando gliela sbatto, letteralmente, sotto il naso, mi bacia freneticamente, divora il mio seno, e io prego che il nostro cane non abbai perché altrimenti io resto così a gambe all’aria mentre lui si mette la maschera e corre nella stalla a svegliare Tornado.
Ormai, io mi limito a fare in modo che tutto il travestimento sia sempre pronto sulla panca intarsiata che conserva il mio corredo, lucido gli stivali, stiro la mantella, spolvero la maschera. E dormo notti senza sogni e senza amore.
La settimana scorsa, però, ho perso la pazienza. Per questo ti scrivo.
Un nostro domestico nella cucina a piano terra si è messo a cantare una canzone molto diffusa tra i nostri braccianti che si intitola “El pueblo unido jamás será vencido”.
Si è scatenato un putiferio.
Don Diego si è precipitato per le scale, ha convocato i domestici, li ha abbracciati chiedendo loro perdono per lo scarso salario con cui li paga, e si è unito a loro, ripetendo il ritornello di quella filastrocca con i boccali tracimanti di vino pregiato.
Io ho paura che sia impazzito perché trascorre le sue giornate nel sotterraneo dove recita continui proclami a una folla invisibile, circondato da una serie di pupazzi mascherati come lui.
Farnetica in continuazione mandandomi qualche bacio da lontano, confidandomi che lui si sta allenando a far insorgere il paese contro il dittatore assassino che si è impossessato della California e minaccia tutti i paesi a stelle e strisce: lo descrive come una faccia di maiale, coi capelli biondi posticci che fanno vomitare. Ha progettato una macchina che stampa volantini con le sue parole d’ordine. Li distribuiscono alcuni caballeros, suoi compagni d’avventura.
Qualcuno lo tradirà: sono davvero spaventata.
Senti, querida, io ho letto (di nascosto: lui non sa che io ho imparato a leggere e scrivere mentre lui si baloccava con la spada), ho letto che tra il Messico e la California si sta costruendo un muro invalicabile per impedire ai campesinos di entrare nel nostro paese.
Mi è parsa un’ottima occasione per spedirlo a combattere su quella frontiera e gli ho propinato l’idea che potrebbe aiutare il pueblo a ribellarsi e a instaurare la democrazia popolare di cui lui blatera anche nel sonno.
Ti sarei molto grata se tu lo accogliessi nella tua bella fazenda, lo ospitassi nel sottotetto dove lui si possa continuare a esercitare, così io finalmente riesco a riprendere la vita di una donna normale.
Desiderante.
In questi anni di solitudine, mi sono avvicinata a un gruppo di donne molto impegnate nel sociale che stanno costruendo, in segreto, un movimento per ribellarsi ai loro mariti e ai loro padroni, tutti maschi con la maschera, che pretendono di chiuderle in casa senza diritti e con una schiera di bambini.
Stiamo progettando di scendere in piazza tutte insieme.
Abbiamo già uno slogan: «non siamo la costola di nessuno». Che te ne pare?
Ti ho detto tutto. Acqua in bocca, mi raccomando.
Affida la tua risposta alla prossima carrozza postale, così posso preparare la spedizione.
Ti prego, hermana. Aiutami. Ho bisogno di te.
Donatella
11 Aprile 2020 at 19:30Due partiture veramente deliziose, in modo diverso, ma che ho entrambi assaporato come un cibo agrodolce che mischia promesse di miele con note di aceto. Bravissimi Mario e Saveria, profondi e leggeri, nostalgici e modernamente ironici. Unico rischio: potreste provocare dipendenza nei lettori!