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La lettura. “Canto a due voci per mulini a vento”

Elogio delle cause perse

di Mario Coglitore

 

Il cavaliere dell’eterna gioventù

seguì, verso la cinquantina,

la legge che batteva nel suo cuore.

Partì un bel mattino di luglio

per conquistare, il bello, il vero, il giusto.

Davanti a lui c’era il mondo

con i suoi giganti assurdi e abbietti

sotto di lui Ronzinante

triste ed eroico.

 

Lo so quando si è presi da questa passione

e il cuore ha un peso rispettabile

non c’è niente da fare, Don Chisciotte,

niente da fare

è necessario battersi

contro i mulini a vento.

[…]

 

Nazim Hikmet, Don Chisciottte

 

 

Dolente. Ecco, questo è l’aggettivo appropriato. L’eroe delle cause perse si trascina con quell’andatura flemmatica e ben poco sportiva – quest’ultima al contrario sarebbe rappresentazione plastica di uno stato fisico pieno di muscoli che guizzano e scatti felini da predatore –, affrontando un lungo viaggio tormentoso e si duole un po’ di tutto: dello stato del mondo, degli amori mancati o perduti per sempre, delle minacce di cui è costellato il cammino. Non è esattamente un viandante, piuttosto un uomo magro e segnato da un destino bislacco che scruta l’orizzonte alla ricerca di mostri spaventosi da sconfiggere, di prudenze da calpestare, di torti da raddrizzare, di sentimenti melanconici da tracannare tutto d’un fiato, come si fa con la coca-cola d’estate; forse, davvero, l’unica invenzione sensata, e perfettamente riuscita, del “sogno americano”. Non trovate?

Che siano mulini a vento, nella realtà del suo universo perforato in qua e in là da buchi neri vorticanti, non ha nessuna importanza. L’interessante è che si staglino scuri mentre il sole ne proietta da dietro l’ombra geometrica e fatale. Schiantarcisi contro è l’esito necessario di una vita trascorsa all’insegna della lotta senza quartiere. Fino alla vittoria, naturalmente.

Ma è tenzone, si diceva così un tempo, che lascia in bocca l’amaro della consapevolezza, quando arriva, che di quattro pale male in arnese si tratta; oggigiorno, come in Olanda, musei di pietra e legno di un’altra epoca e di un’altra economia debitrice ancora alla forma del baratto o, se va bene, proto-industriale.

Le cause perse, però, abbondano nel nostro bagaglio simbolico, e non soltanto simbolico. Quanti di noi, e quante di noi, non ne hanno affrontata almeno una nel corso della loro esistenza? Diceva Brecht: “Mi sedetti dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano già occupati.” Appunto. Se è quella l’unica sedia disponibile, Don Chisciotte, perennemente in affanno, ci si siede sopra e neanche capisce, all’inizio, che non si tratta di una sedia molto comoda. Era meglio aspettare che si liberasse una di quelle di fronte. L’agio di essere dalla parte della ragione non ha prezzo.

Ma la causa persa ha un fascino irresistibile, specie per noi maschi tirati su a latte, Nesquik e buoni propositi. Una marea di buoni propositi, nel mentre ci facevano l’occhiolino comunicandoci che predicare andava benissimo, ma razzolare no. Razzolare, si doveva farlo accettando ben diversi orizzonti morali. Dopodiché, alla sera, in poltrona, si poteva anche celebrare il mito delle grandi rivoluzioni, se borghesi meglio, più consono alle virtù del cittadino tutto d’un pezzo, di saldi principi. Il torto non era cosa a cui affezionarsi, alla quale propendere con cieca fiducia.

Noi, invece, avanti dritti fino al prossimo mulino. I numerosi Sancho Panza che abbiamo stordito con chiacchiere da bar e futuri radiosi, libertà obbligatorie da melodramma verdiano, si sono affannati a tirarci per la giacchetta nel tentativo, estremo, di sciogliere il nostro cervello dal ghiaccio di quella che è stata soltanto una sgradevole e pervicacie solitudine. Niente da fare.

Corri di qua e corri di là, si finisce abbandonati anche dalla sorte. D’altronde, quel leggero “friccico” al cuore, cantava Manfredi in romanesco, espressione colorata per dire di quel pizzicare insistente che fa vibrare le corde della passione, persuade a tentare l’avventura, per sentirsi importanti, veri, attaccabrighe di quartiere lanciati contro le ingiustizie. Che prestissimo riconoscete come mulini; ma della specie che vi mena tra il collo e le orecchie. E sono ecchimosi mica da poco, a lungo andare.

Qualcuno lo deve pur fare, del resto. No? Altrimenti sai che noia; eternamente spianati sul pensiero unico in colpevole sudditanza psicologica. In mezzo ad arcobaleni ridotti a una tinta unica che vira dal grigio al nero, si azzera la vibrazione ribelle. E così si parte verso nuove avventure, fin lì dove nessun uomo è mai giunto prima, come insegna l’epopea di Star Trek, serie originale s’intende. Un ciclo di incontri, meglio sarebbe dire scontri, destinato a ruotare eternamente su se stesso per riproporre infinite partenze e viatici perigliosi, sospinti in mare aperto da un vento che non si può trattenere. Questo itinerario tortuoso del lutto che il cavaliere emaciato porta con sé da tempo immemorabile scorre in pensierose ore e ribolle in coscienze appesantite da mille, e luminosi, pensieri di affrancamento dalla maledizione della mediocrità. Non è stato così per tutti, naturalmente. Ma il nostro particolare Don Chisciotte agita bandiere che non gli sono mai veramente appartenute; le crede sue, le vuole sue, eppure le ha raccolte in fretta e furia nel corso dei suoi spostamenti virtuosi, o almeno così gli appaiono, a combattere le invisibili forze del male.

E più il tempo passa, più “il nemico si fa d’ombra e si ingarbuglia la matassa”, canta con la erre moscia Guccini nel suo Don Chisciotte. La vocazione di chi assume su di sé la responsabilità di riscattare i torti subiti dai dannati della terra è cosmica, non conosce limiti, è grido di battaglia. Il mulino lo fissa con le sue quattro braccia poderose e lo attende al limite tra la veglia e il sonno, sulla impalpabile linea di passaggio tra la luce e il buio. Ai confini della realtà. È proprio la percezione dell’irrealtà, al contrario, che investe prepotente il guardiano di un faro dai bagliori stanchi, proiettati malamente sull’oscurità implacabile. La causa persa strizza l’occhio al reduce di mille combattimenti e lo invita a buttarsi ancora nella mischia, si trattasse anche di affrontare un’intera batteria di cannoni, come a Balaclava quando in seicento caricarono le artiglierie russe armati soltanto di sciabola.

Nelle spire raggomitolate di sensazioni e emozioni lancinanti è difficile districarsi. Impossibile, a tratti. Se non fosse che il ricordo di una controversa Dulcinea insiste talmente forte da convincere i paladini dell’impossibile a realizzarsi che ne vale comunque la pena, una volta assunto l’obbligo di mantenere le promesse. La nobiltà un po’ decadente del giuramento, fissando due belle pupille, comporta sforzi sovraumani. Non ha importanza alcuna che quell’impegno sia stato preso accovacciati su un ginocchio solo davanti ad una donna immaginata e non reale.

La telecamera gira attorno cogliendo un’immobilità quasi sacra e allarga la scena a inquadrare sia lei che lui mentre il sole cala. Scegliete voi la colonna sonora che arieggia in sottofondo; forse un Cat Stevens prima della conversione ad altra religione del Libro. Mosso da turbamenti che confessa uno dopo l’altro, l’Errante per antonomasia reca con sé un messaggio di speranza, alla fine.

Dopotutto la causa persa è pur sempre una causa. Sapere in anticipo come andrà a finire è semplicemente il segno della compulsività ingovernabile di alcuni protagonisti di un’epica confezionata per evadere dal quotidiano piatto e soffocante. E via a scalare montagne inaccessibili con un paio di scarpe da ginnastica, scivolando di frequente incuranti del pericolo.

Le pale girano e girano. Un Don Chisciotte dovrà pur passare scambiandoli per eterni, e malevoli, avversari. Ronzinante è stanco, si ferma poco lontano e non ne vuole sapere di andare avanti. Il suo solitario padrone prosegue a piedi. Persa o no, la causa promette comunque liberazione. Ironia della sorte è liberazione dalle proprie ansie, più che altro. Ma non diciamolo ad alta voce. Un po’ di rispetto per le anime ancora candide.

 

 

Dulcinea. Ogni giorno più bella.

di Saveria Chemotti

 

[…]

Hai ragione tu, Dulcinea

è la donna più bella del mondo

certo

bisognava gridarlo in faccia

ai bottegai

certo

dovevano buttartisi addosso

e coprirti di botte

ma tu sei il cavaliere invincibile degli assetati

tu continuerai a vivere come una fiamma

nel tuo pesante guscio di ferro

e Dulcinea

sarà ogni giorno più bella.

 

Nazim Hikmet, Don Chisciotte

 

 

 

È morto mormorando il mio nome.

Evitatemi quelle smorfie saccenti, per favore.

Confessiamolo, invece, tra noi, ragazze, che abbiamo desiderato tutte, fin dalla prima stagione della nostra giovinezza, di incontrare un uomo capace di amarci follemente, di travolgerci di passione, di trasfigurarci.

Lo abbiamo chiamato principe azzurro ed eravamo perfino gelose di quello straccetto di Cenerentola, e di altre cosiddette principesse dalla bionda chioma sfortunate e infelici fino a quando l’eroe strizzato dentro un tubino da figo non le ha salvate inginocchiandosi e impalmandole a suon di diademi.

Poi abbiamo spasimato sulle pagine di Liala, di Caterina Invernizio e di molte altre “galline” della letteratura, prototipi del rosa che avvelena la mente, illudendoci che tanto più eravamo sfigate (vuol dire orfane, misere, violentate) tanto più facilmente saremmo convolate a meravigliosi accoppiamenti, certificato di verginità garantendo.

I libri, si sa, possono guastare l’anima: per questo una volta ci impedivano di frequentare le biblioteche e gli studi.

Adesso che si sentiamo emancipate, in verità, storciamo il naso quando qualche nostra amica ci descrive il suo stato d’animo di innamorata felice o delusa e la indirizziamo verso lidi più impegnati, parole d’ordine rivoluzionarie, giudizi tranchant contro questa poesia dell’amore che fin qui ci ha fregate, costringendoci a vedere fischi per fiaschi (questi in quantità) in nome dei vincoli patriarcali, sanciti dalla trinità di moglie madre serva esemplare.

 

Sgamate anche per il soccorso della psicoanalisi e sazie dei viatici plasticati dei maestri dello spirito, siamo pur sempre capaci di salvarci con un piatto di malinconia con le cifre di una frase a effetto: l’amore è l’esperienza della mancanza.

Bene, pur sempre di una voragine si tratta.

Adesso però prendete in considerazione Alonso Quijano, un signore di campagna appartenente alla bassa nobiltà della Mancia che, da un grande sognatore traviato dai romanzi cavallereschi, lascia la sicurezza della sua vita agiata e del suo paese, si trasforma in uno squattrinato hidalgo di nome Don Quijote. In sella al suo ronzino Ronzinante, in compagnia di uno scudiero ineffabile come Sancho Panza, decide di intraprendere una serie di avventure ingloriose che culminano in una famosissima

battaglia contro i mulini a vento, quando una pala lo disarcionerà scaraventandolo a terra.

Picchiato, ammaccato, ridicolizzato, sconfitto più e più volte, come dicevo poc’anzi, muore invocando il mio nome.

Evitatemi le facezie.

So perfettamente che l’hidalgo errante non vuole distinguere la realtà dall’immaginazione, e per questo si crede un paladino della giustizia, difensore della pace e degli oppressi, si batte per proclamare gli ideali della cavalleria, ma soprattutto so che si batte per esaltare l’inarrivabile incanto di Dulcinea del Toboso, per lui la dolcezza incarnata, la nobildonna più bella che si sia mai vista sulla faccia della terra.

Adesso, ragazze, potete schiattare perché in realtà io sono una povera contadina, belloccia, ma ignorante e mi chiamo Aldonza Lorenzo ed esisto solo per coloro che sono capaci di guardare oltre ciò che la realtà gli impone, e per questo Don Quijote è il mio eroe.

Sancho Panza, geloso, mi vive come un ostacolo perché entro in conflitto con i suoi interessi.

Inutilmente racconta fandonie per sminuirmi ai suoi occhi innamorati facendogli credere che io sia una campagnola che ha cambiato sembianze per colpa di un incantesimo. Così millanta di conoscermi bene e mi descrive come un robusto bifolco del paese, niente di femminile, una donna grande e grossa, alta fuori misura, con una voce roboante e la pelle esposta al sole e all’aria senza riguardi, ma di modi molto sciolti, perché «scherza con tutti e di tutto sogghigna e burla».

Una sventatella traccagnotta, rude e volgare, puzzolente per il sudore della fatica, a dirla tutta «con un certo odore di maschio.» Per mia fortuna, Quijote pronto sempre per nuovi orizzonti, lui non demorde, segue fedelmente i dettami del codice cavalleresco e sostiene che odoro di rosa fra le spine, di giglio del campo e di ambra, insomma che diffondo una deliziosa fragranza aromatica.

Cos’è allora la pazzia?

«Non v’è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo» – afferma. «Il sublime è impazzare senza un perché al mondo e far conoscere alla mia signora che io mi conduco a tal passo senza causa e senza motivo; e poi non ne avrei io un’ampia causa nella mia lunga lontananza dalla mia sempre signora Dulcinea del Toboso?»

Come potrei resistere alle lusinghe di un uomo che si strugge per la mia lontananza invocandomi «O Dulcinea del Toboso, giorno della mia notte, gloria della mia pena, tramontana dei miei viaggi, stella della mia ventura, adorata nemica mia, bella ingrata?»

E poi chi può dire con certezza qual è il confine tra sogno e realtà?

«Credi tu che le Amarilli, le Fillidi, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Alicidie delle quali sono zeppi i libri, i romanzi, le botteghe dei barbieri e i teatri delle commedie, fossero veramente in carne ed ossa, dame di coloro che le celebrano?» Allora, di che cosa sono fatti i desideri? Di prospettive: dei diversi punti di vista da cui si osservano i sogni.

No, no, non è pazzo come lo si descrive, non è neppure il cavaliere dalla Trista figura, tramandato da quel buzzurro del suo servitore che lo vuole costringere a regredire verso una concezione più mediocre dell’esistenza. Sia pure quella più realistica.

Io lo odio Sancho, soprattutto da quando ho scoperto che si è perso la lettera autografa che il cavaliere gli aveva consegnato perché me la consegnasse a suo nome, l’ha addirittura riscritta sollecitato da alcuni amici meschini come lui e poi stracciata, fingendo di avermi vista troppo impegnata, alle prese con due staia di grano restone, biondiccio, nel cortile di casa mia.

Non come sognava Don Quijote mentre infilavo perle.

Villano.

Che ne sa quel servo dell’amore? Di Omero, di Enea, di Dante, di Ariosto?

A dire il vero poco anch’io perché sono analfabeta, ma sto imparando a leggere e a scrivere e mi sto documentando sulle storie degli eroi e delle eroine. La troverò la lettera di quell’uomo meraviglioso che mi ha nominata regina, sollevata tra le stelle e che muore esalando queste parole sublimi: «Per lei io vivo in perpetuo pianto fin quando non la rivedrò nel suo pristino stato.»

La nostalgia pervade ancora il suo cuore e il mio.

Adesso, amiche mie, potete tranquillamente mormorare alle mie spalle che sono un’inguaribile romantica che si scopre ogni giorno più bella.

Senza dimenticare che so lavorare bene anche con un palo di ferro.

Parola di Cervantes.

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