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Lettura a quattro mani. “Ballata per sogni e ombre”

La rima e la spada

di Mario Coglitore

 

[…] non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,

per colpa o per destino le donne le ho perdute

e quando sento il peso d’essere sempre solo

mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo […].

 

Francesco Guccini, Cirano

 

Dite la verità. Storia comune, per tanti di noi, questa delle donne amate e perdute. Molto occidentale, se volete, all’insegna di valzer ballati con passi attenti e finiti troppo presto. Cirano aveva la fortuna di una consolazione straordinaria, la scrittura. Tra i mille versi che uscivano dalla sua penna, incastonati come pietre dure più o meno luccicanti su gambi preziosi, ritroviamo tutto un mondo.

Vita spericolata, la sua. Con uno sguardo disincantato, si potrebbe dire un’esistenza vissuta intrappolato tra il volere e il potere e una buona dose di sfiga. E Cirano ci sguazza nella sfiga. Si fa portavoce di un destino avariato, eterno ghostwriter di lettere per amori strazianti. Con quel naso pervicacemente puntato contro un futuro poco compassionevole, sembra faccia il verso al Pinocchio di Collodi, con la differenza che le sue non sono mai bugie che allungano olfatti esagerati. Piuttosto incanti di un uomo perdutamente innamorato che sopporta perfino l’umiliazione di comporre versi fedele alle consegne promesse al compagno d’armi che di Cristiano, siamo sinceri, porta soltanto il nome. E Cirano la celebra quell’amicizia senza risparmiarsi, assieme un’etica della passione che prevede perfino il farsi da parte continuamente pur di servire la causa degli affetti. Non i suoi, quelli dell’altro maschio incapace che conquista cuori servendosi della stupefacente vena poetica altrui nel declamare emozioni struggenti. Il terzo incomodo, in questo caso, non partecipa all’azione sentimentale, ne è colonna sonora; immobile nell’angolo buio del suggeritore.

Se vi monta il nervoso, siete in buna compagnia. Nell’incedere delle rime, e nel luccicare di spade, cornice adattissima al nostro inguaribile spirito post-romantico in geografie della mente decisamente alla Salgari, e cioè piene di pericoli e avventure, l’incongruo gioco delle parti assume aspetti perversi, non c’è da fare. Vi muovete sulla poltroncina del teatro perché non trovate pace. Vorreste alzarvi, prendere da parte un paio di minuti Rossana proprio al centro del palcoscenico e spiegarle una volta buona che le cose non sono come sembrano; strappare i veli dell’inganno; rivelare la verità. Quanto a Cristiano, si accomodi all’uscita per un ripasso a casa di belle lettere e composizione scritta. Poi ne riparleremo.

Invece, l’orchestra delle anime sedotte e abbandonate continua con la sua invasiva milonga ad affastellare note sincopate di inarrestabili tristezze. In seconda fila John Watson dà leggermente di gomito a Holmes: fai qualcosa con la tua smania deduttiva; suggerisci alla gentile signora che almeno faccia uso dell’intuito femminile, se proprio non ci riesce in altro modo. Holmes fa spallucce: per una volta che vado a teatro vorrei godermi in pace lo spettacolo. Compostezza britannica. In assenza di prospettive sentimentali veramente serie.

In tema di prospettive, Cirano ce le ha ben chiare. Come tre secoli più tardi, nel ’68 che riprendeva una famosa dichiarazione di Ernesto Guevara: siamo realisti, esigiamo l’impossibile. Ma questa sarebbe rivoluzione del mal d’amore, rovesciamento della realtà.

D’altronde Rossana ha preso una sbandata secca per quello sbagliato. Ma dal nostro punto di vista, non dal suo. Che colpa possiamo fargliene? In tutta evidenza i versi, però, aiutano non poco a irrobustire il messaggio. Aumentano un successo che già si era consolidato con l’intreccio biochimico e il farfalleggiare dei feromoni. Pelle su pelle, Cristiano ne ha abbracciato l’essenza del corpo e viaggia con grande vantaggio. Come può impedire, il poeta, che si compia il misfatto dinnanzi alla reciprocità titanica degli amanti? È vero, potrebbe anche smetterla di favorire la sua stessa sconfitta offrendo l’aiuto di un’arte preziosa, ma non è nelle sue corde, non rientra nella deontologia degli uomini onesti che celebrano comunque unioni da cui sono estromessi in quantità statisticamente rilevanti. Perdendoci la vista, magari, al lume di candele che colano come cola la loro disperazione, eppure con la schiena dritta. Vale più l’ardimento di colui che sfida se stesso, di chi rosica nel malumore intessendo rancori e vendette.

Belle parole, d’accordo. Sintassi rassicuranti per evitare di ammettere che una débâcle è sempre una débâcle e che un po’ di sana incazzatura eviterebbe effetti collaterali spiacevoli: ansie accidiose, bruciori di stomaco, opacità dello sguardo che si perde altrove con un fuoco sull’infinito che non promette niente di buono. Quante volte ci siamo sentiti così, randagi dello spirito pronti per la Legione straniera; che non ci avrebbe nemmeno arruolati privi come siamo della tempra giusta. La robustezza dell’incarnato si trasforma in forza d’animo per Cirano. Quella non viene mai meno tra gli uragani degli affetti e il nostro guascone tira di spada nei momenti critici, colpo su colpo, dotato di un’abilità non comune. Penna e spada finiscono per sovrapporsi nella bufera degli affanni emozionali, tanto che ne uccide più la rima dell’acciaio alla fine. Meglio così. Per fermare sgangherati mestatori di approssimativi innamoramenti e incalliti bugiardi a volte basta soltanto trovare il termine giusto. Una dietro l’altra le parole indicano le cose e nel linguaggio si mescolano in significati rotondi, a volte metallici. Una biglia in testa, d’altra parte, vale quanto una punta acuminata. Il poeta ne ha a disposizione una quantità illimitata; più che nel caso dello scrittore la sequenza sintattica produce effetti mica da poco su interlocutori spavaldi e privi del minimo briciolo di “fede dei buoni costumi”, recitava mia nonna quando si scandalizzava davanti alla protervia degli esseri umani.

Sul tappeto volante, Cirano sparge attorno fiori grammaticali nel suo inguaribile tormento esistenziale. Il vento lo trascina verso nubi scure. E noi naufraghiamo con lui, atterriti, tra le formazioni vaporose, in un mare di spuma, impotenti e appesi alle frange di quel rettangolo di tessuto intrecciato. Il macchinista ha tolto l’effetto scenico e per poco non ci schiantiamo di sotto. Scendiamo cautamente da una delle cime tese che reggono i fondali e ci troviamo alle spalle degli attori. Dietro al sipario che sa di ignifugo spiamo i loro movimenti, ascoltando battuta su battuta.

Pare che Rossana abbia finalmente capito. Lentina, la ragazza. La crudeltà della vicenda le appare in contorni nitidi. Magra consolazione per i Cirano di tutti i tempi, sciamani con penne e inchiostri favolosi. Nel vostro piccolo, silenziosi testimoni in prospettiva rovesciata, state pensando di impedire a Edmond Rostand, autore della celebre commedia teatrale, di chiudere la vicenda con la morte del nostro eroe. Da anni vi battete per salutari happy ending da film americano. Ma corre l’anno 1897 nel presente di Rostand e di cinematografia si sta parlando sì e no da qualche manciata di mesi. Quindi non c’è necessità di rispettare alcun canone consolatorio per spettatori che verranno molto dopo.

Morte libera tutti. Cirano giace, il suo profilo spicca appena sotto la linea degli occhi e quel naso provoca solo tenerezza. Lei è incredula, sotto shock. Reagite, prego. Prendetevi in congruo anticipo la prossima volta e dite ciò che c’è da dire evitando di sprecare momenti preziosi. È difficile ma non impossibile. Soprattutto non prestate versi gratuitamente, con gli sforzi che avete fatto per mettere assieme rime intense pescando nel vostro piccolo beauty-case culturale.

In fondo alla sala, a luci di nuovo accese, un signore in giacca di tweed e cravatta, con pochi capelli in testa, rigira tra le mani una coppola grigia. Si guarda attorno e guadagna l’uscita. Poi si ferma, ficca il cappello in tasca e scrive frettolosamente un paio di frasi su un pezzo di carta: «…e l’ebbrezza, e il desiderio, e il lasciarsi andare, ed era questo la mia vita, era questo che l’acqua dei tuoi occhi portava…» Non l’avete riconosciuto in distanza, ma è Pablo Neruda. Che alle donne parlava direttamente.

 

 

La quiete attesa

di Saveria Chemotti

 

 

Non cadrò. Ho raggiunto il centro.

Ascolto il pulsare di chissà quale orologio divino

attraverso l’esile parete carnale della vita piena di sangue,

di trasalimenti e respiri.

Sono accanto al nocciolo misterioso delle cose come di notte,

talvolta, si è accanto a un cuore.

Non si costruisce una felicità che su fondamenta di disperazione.

Penso proprio che ora posso mettermi a costruire.

 

Marguerite Yourcenar, Fuochi

 

 

Sono partita all’alba, il cielo appena sfiorato dal chiarore del mattino e il sole nascosto oltre le mura del castello. Ho infilato di nascosto alcune effetti personali nella borsa di velluto damascato, la Bibbia della mia giovinezza, il diario dalla copertina di pelle e il pettine in avorio con le incisioni del mio nome. Indosso ancora il vestito di ieri sera, la gonna coi ricami d’oro e d’argento, la camicetta di pizzo Leavers estremamente fine con un motivo a rilievo che celebra serti di rosa e il mantello in raso col cappuccio sotto cui ho nascosto il mio viso inondato di lacrime.

Ho sciolto i capelli, strappato i nastri e i preziosi fermagli che li adornavano, appoggiato il collier di smeraldi sull’inginocchiatoio, tolto gli anelli dalle mie mani ancora insanguinate. Mi sono stesa sotto il baldacchino austero e ho atteso che il fedele servo venisse a bussare alla porta per avvertirmi che la carrozza era pronta e il cocchiere aspettava solo che io scendessi.

Le stanze erano silenziose e cupe, i miei genitori avvolti sicuramente dal sonno dei giusti e ignari della disgrazia che aveva trafitto il mio cuore e anche del dolore imbarazzante che li avrebbe colti alla notizia della mia fuga.

Perché di una fuga si tratta.

Verso «la quiete attesa», come scriverà tra qualche secolo, Ungaretti, un grande poeta.

Quanto mi piace la poesia e quanto mi hanno stregata i suoi versi! Fino a farmi perder la coscienza del vero e del falso mentre spasimavo sopra quel balcone, un luogo riservato agli amanti straziati dalla sventura, non solo in Francia.

Il cocchiere ha lanciato i cavalli al galoppo obbedendo al mio ordine di fare in fretta. Ho buttato un ultimo sguardo alle finestre monumentali e ho intravisto il lume tremolante su quella di mia madre.

Impossibile sfuggire dal suo sesto senso, dalle intuizioni che smascherano da sempre ogni mia iniziativa segreta.

La carrozza ballonzola, le ruote cigolano sui pezzi di selciato, sulla terra battuta, saltano pericolosamente sulle pietre smosse della frana che ha colpito il villaggio. Ho la schiena dolorante e non sono neppure riuscita a recitare le preghiere del mattino.

Scosto il panno che copre il finestrino e osservo il paesaggio che si stende davanti a me inebriandomi di quel senso di appagamento naturale che ho sempre ricercato. Abbraccio con lo sguardo le verdi colline con infinite ondulazioni, punteggiate di antichi borghi si distendono a perdita d’occhio tra le viti e gli ulivi. Macchie di alberi fioriti. In lontananza, si scorgono i rilievi dei monti già accarezzati dai primi raggi di luce.

Finalmente sono arrivata davanti al portone massiccio del convento, incastonato tra splendide mura medievali. Suono la campanella mentre il mio cuore pulsa a mille. Ho dimenticato tutte le parole che mi sono preparata. Un nugolo di sentimenti mi brulica nello stomaco: emozione, commozione, nostalgia. Mi sento confusa e allo stesso tempo determinata a oltrepassare quella soglia. Mi rendo conto che devo gettare il cuore oltre l’ostacolo. E che sono io l’ostacolo più grande.

Ho salutato il cocchiere, accarezzato un’ultima volta i miei amati cavalli, appoggiato la borsa sulla pietra rossa della soglia.

Mi sono coperta il capo con un velo in forma di devozione, o per mascherarmi.

Cigolando sui cardini la porta si apre lentamente. Entro in punta di piedi segnandomi il petto più volte con il segno della croce. La Madre Superiora mi fa cenno di accomodarmi. Sguardo basso e severo. Avanzo trascinando le mie scarpette di raso. Saranno, come i miei abiti, bruciate nel camino dove il fuoco farà scempio della mia vanità.

Il chiostro ha un giardino molto curato: le sue aiuole raffigurano i misteri della Passione e vi cresce un albero le cui bacche vengono utilizzate dalle monache per intrecciare corone del rosario.

Conosco a memoria tanti particolari architettonici, conosco già le celle buie, illuminate appena dal fuoco delle candele, gli orari scanditi, le sequele di preghiere, canti gregoriani, il timido frusciare di donne in nero con gli occhi bassi. Conosco le grate che recludono, separano per sempre dal mondo.

Ci sono già stata un tempo quando ero all’oscuro delle risorse dei sentimenti e delle passioni umane.

Adesso avrò tempo e spazio per maledire la mia leggerezza, la mia superficialità e il mio egoismo.

Ho ancora davanti agli occhi il suo volto trepidante quando l’ho convocato nelle mie stanze per confidargli, in nome della nostra amicizia e dell’affetto puro che ci legava, il mio amore per Cristiano de Neuvillette, un giovane cadetto molto affascinante di cui mi ero innamorata a prima vista. Ho aggiunto crudeltà a crudeltà: gli ho strappato il giuramento che avrebbe protetto e guidato questo giovanotto a cui non avevo mai rivolto parola, ma che mi sembrava, da lontano, degno del mio amore.

Galeotta la confidenza fraterna tra noi, perversa perché chiede ascolto, asilo, affidandosi alla disponibilità di chi sa confortarci a dismisura, sacrificando i propri desideri e macerandosi nella nostalgia di chi non gli apparterrà mai.

Povero Cristiano, onesto coraggioso e leale, ma incapace di stimolare i miei desideri e meschino fino al punto di farsi plagiare da Cyrano che, vittima del suo naso sproporzionato, gli insegnava tutti i rudimenti di quelle schermaglie poetiche che mi sarebbero state gradite. In guerra con la loro compagnia di cadetti, i due spadaccini finiranno addirittura per ritenersi sodali e Cyrano rischierà la vita ogni sera attraversando le linee nemiche per recapitarmi una lettera in cui, sotto mentite

spoglie, continua a dichiararmi il suo amore con la forza divina della poesia.

Sublimazione dell’amicizia virile o sublimazione dell’amore?

Rifletterò nel silenzio che mi attende.

Nel tragitto traumatico che mi ha portata fin qui mi è balenato spesso nella mente un pensiero di consolazione e ho immaginato che Cyrano volesse, in qualche modo, incarnarsi, continuare a esistere in spirito nel bell’aspetto del suo amico, mantenendo in vita quella che è diventata progressivamente una sua creatura, un ideale maschile di bellezza e geniale temerarietà in cui rifugiarsi.

Io, tra di loro, ero solo l’oggetto a cui dirigersi, non una presenza viva e pregnante, solo il punto d’incontro e la fusione di un progetto di vita a cui forse io partecipavo solo ai limiti del campo da gioco?

Certo una debole giustificazione. Forse un escamotage per non sentirmi carnefice, ma vittima.

Rifletterò.

Adesso, mentre il portone si chiude tagliando ogni ponte con la mia figura precedente, mentre indosso il vestito monacale, la divisa dei miei prossimi giorni infausti, invoco la clemenza del Signore perché dalle mie labbra sale un’invocazione a Cyrano dal lungo naso: da mihi basia mille, lanciami mille apostrofi rosa per dirmi ancora je t’aime.

Padre nostro….

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