Dopo la battaglia di Lepanto (1571), la Repubblica era consapevole che gli alleati della Lega Santa non avrebbero mai consentito che raccogliesse i frutti della vittoria, in particolare Filippo II di Spagna mirava a indebolire la sua supremazia nell’Adriatico. Ogni ulteriore indugio stava favorendo la riorganizzazione della forza navale turca, perciò, nel 1573, Venezia firmò una pace separata con il sultano, rinunciando a Cipro e al Castello di Sopotò, sulla costa Albanese, purché fossero ripristinati i suoi domini in Dalmazia, si impegnò, inoltre, a versare 100.000 ducati l’anno per tre anni in cambio del libero commercio e del riconoscimento della sua sovranità sull’Adriatico da parte delle navi turche che vi sarebbero entrate disarmate sotto la protezione della Serenissima. Questa operazione le meritò l’epiteto di “concubina” del Turco, in realtà la Repubblica piuttosto che mantenere i territori conquistati con alti costi umani e finanziari aveva privilegiato accordi politicico-economici che le avrebbero consentito il controllo delle rotte commerciali e la crescita economica. La sua piena ripresa mercantile era in atto quando, nel marzo e maggio 1576, si registrò una media di 14 morti al giorno. Inizialmente i decessi furono attribuiti a “febbri putride” e all’acqua dei pozzi inquinata da una eccezionale alta marea, ma, con il moltiplicarsi dei casi, il protomedico del Magistrato alla Sanità ritenne si dovesse dichiarare il contagio in città. Ciò avrebbe significato la paralisi, l’isolamento commerciale, il blocco della ripresa, la crisi economica. La Ragion di Stato indugiò e si appellò ai tecnici: in Maggior Consiglio vennero invitati cinque professori dell’Università di Padova. Il dibattito, alla presenza del Doge, dei medici veneziani, del Magistrato alla Sanità, del suo protomedico e dei maggiori politici, fu acceso. Alla fine ebbero la meglio gli autorevoli cattedratici Girolamo Mercuriale e Girolamo Capodivacca che dichiararono che non si trattava di peste.
Il loro parere venne accolto con soddisfazione, nonostante l’opposizione dei Provveditori alla Sanità e del loro protomedico. I due illustri luminari con un codazzo di gesuiti, chirurghi e barbieri visitarono le case dei malati per diagnosticare il morbo, secondo loro non contagioso, così ne alimentarono la diffusione. Gli eventi li smentirono: scoppiò la pandemia. La virulenza del male moltiplicò rapidamente il numero degli appestati che venivano portati al Lazzaretto Vecchio, ma aumentò a dismisura anche il numero di quanti avevano avuto contatto con loro. I “sospetti” di essere veicolo di infezione o di essere nella fase di incubazione, vennero isolati nel Lazzaretto Nuovo, dove trascorrevano la convalescenza anche i guariti, prima di tornare in città e dopo essere stati dimessi dal Lazzaretto Vecchio. In questa struttura, che risaliva al 1423, nel giro di qualche giorno o si moriva o, se si guariva, si passava al Nuovo. Questa seconda struttura, fondata nel 1468, registrò ben presto un afflusso insostenibile: il numero dei “sospetti” superò di molto la capacità dell’isola perciò si adottò la singolare soluzione di utilizzare gli specchi d’acqua circostanti per ancorvi numerose imbarcazioni.
A chi vi giunge, perché ha perso qualche famigliare come Francesco Sansovino, si prospetta una immagine al tempo stesso spettrale e suggestiva: centinaia di imbarcazioni grandi e piccole, alla fonda tutt’intorno all’isola, accolgono dalle otto alle diecimila persone. Sembrano “un’armata che assedia una città di mare”. Questa strana flotta, segnalata con bandiere e sorvegliata da guardie, che impediscono ogni comunicazione con l’esterno, si arricchisce giornalmente di nuove barche cariche di gente. I numerosi fuochi, in cui arde il legno di ginepro per purificare l’aria, rendono ancor più irreale l’atmosfera. Nonostante la moltitudine e la densità di quei passeggeri dal futuro incerto, ogni giorno, ordinatamente, vengono distribuiti i viveri e la sera risuona delle preghiere e del canto dei fedeli. I giorni si aprono all’insegna del terrore perché ogni mattina i “visitatori”, cioè gli ispettori del Magistrato alla Sanità, percorrono quel paese galleggiante per individuare gli ammalati e inviarli al Lazzaretto Vecchio, per un viaggio, forse, senza ritorno. Per chi resta i nuovi arrivati dalla città sono motivo di distrazione e svago. Per cacciare l’idea della morte, si organizzano visite e rinfreschi, dando l’impressione di “un paese di cuccagna…di grato e giocondo aspetto”, anche se “gli animi troppo atterriti da tanto male” sono oppressi dall’angoscia. Su una zattera, poco discosta, una forca indica la sorte di chi trasgredisce le leggi di sanità.
La specificità anfibia, intrinseca alla civiltà veneziana, aveva dilatato gli spazi del Lazzaretto Nuovo, in cui si attuava l’isolamento ai fini di una inclusione programmata nella città dei sani. Questa gestione pragmatica del morbo si ispirò alle teorie scientifiche del veronese Girolamo Fracastoro che, differenziandosi dalle ricerche tradizionali, astratte quanto vane, sull’eziologia e sul trattamento della peste, rispose alle istanze pratiche dei Veneziani incentrando la sua analisi sui meccanismi di trasmissione del contagio. Nel “De contagione et de contagiosis morbis”, pubblicato a Venezia nel 1546, egli introdusse la teoria del “contagio animato” provocato dal passaggio di piccoli corpi vivi (seminaria) che, trasferendosi da un organismo malato ad uno sano, lo infettavano. La trasmissione poteva avvenire per contatto diretto oppure attraverso oggetti o indumenti, ma anche a distanza. La capacità delle particelle infette di riprodursi, diffondersi e far ammalare il loro ospite fu spiegata con il concetto di simpatia e antipatia fra organismi, che ipotizzò la predisposizione di alcuni rispetto ad altri di ricevere e trasmettere il morbo. Fracastoro si fece interprete, a livello scientifico, dell’esigenza pratica di spezzare la catena del contagio organizzando una risposta politica alle aggressioni epidemiche che minavano la sopravvivenza dell’intera collettività.
Nel 1576 gli interessi economici, che ritardarono le misure sanitarie, produssero enormi danni a Venezia: nel luglio del 1577 la peste aveva ucciso un veneziano su quattro per un totale di circa 45.000 morti su 180.000 abitanti, mentre, invece, a Vicenza l’immediato ricorso all’isolamento aveva consentito, di contenere la mortalità.
Nello stesso periodo, durante la peste di Palermo, il medico consultore del Vicerè di Sicilia, G.F. Ingrassia, applicando le teorie di Fracastoro, riassunse in tre parole i rimedi da adottarsi contro la peste: – l’ORO per dare il pane al popolo affamato dall’isolamento economico e per sopire le rivolte – il FUOCO per mondare le cose infette – la FORCA per punire in maniera esemplare chi violava le regole dell’isolamento minacciando la salute pubblica. Si provvide la città di lazzaretti su modello veneziano per interrompere la catena del contagio, tuttavia i metodi del totalitarismo feudale si differenziavano dalla strategia sanitaria della Repubblica. Venezia. infatti, aveva elaborato una risposta collettiva gestita dall’organigramma tecnico, burocratico e operativo del suo Magistrato alla Sanità educando il popolo attraverso la predicazione dei piovani e il culto di San Rocco che forniva la descrizione sintomatologica della peste e indicava i comportamenti da adottare per non nuocere al prossimo, cercando di curarsi con l’aiuto della Serenissima.
Per approfondimenti: N. E. Vanzan Marchini, Venezia, la salute, la fede, Vittorio Veneto, De Bastiani 2011; Eadem, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura, Verona, CIERRE 2016.
Sul culto di San Rocco rinvio al mio articolo “San Rocco e l’informazione sanitaria della Serenissima” in “Timer Magazine” tratto dalla mia relazione Rocco, la peste e lo Stato in “Nell’anno di Tintoretto” giornate di studio , 8-10/11/2018, a cura di A. Basso.
Benedetto Bordone, Vinegia, 1528, sono evidenziati i due lazzaretti e la sede del Magistrato alla Sanità (in copertina)

Nelli Vanzan Marchini
Storica - Docente
Venezia e l’origine della festa del Redentore | STONEHENGE
20 Aprile 2020 at 22:49[…] VENEZIA NEL 1576 PRIVILEGIO’ GLI INTERESSI ECONOMICI ALLE MISURE SANITARIE … E FU PANDEMIA! […]
Silvana
21 Aprile 2020 at 08:40Molto interessante grazie per averlo scritto e poi un grazie a chi lo ha qui riproposto.Purtroppo i politici di questo momento non assomigliano certo ai politici di allora i quali avevano innanzitutto l’amore per la città e temevano la decadenza sull’Adriatico ed i vari commerci…bella la provenienza di “concubina ” nella quale si concentrano gli interessi in prima linea.