Nel 1630 vennero violate le regole della prevenzione per accogliere il Marchese De Strigis, ambasciatore del ducato di Mantova, non al Lazzaretto ma nell’isola di San Clemente. Il falegname che andò a sistemare il suo alloggio portò la peste a Venezia. Le esigenze della diplomazia ebbero la meglio sulle cautele di sanità, così scoppiò una delle più gravi pandemie dell’età moderna che portò alla morte un veneziano su quattro. Il Magistrato alla Sanità della Repubblica fece tesoro di quella esperienza e irrigidì il cordone sanitario che circondava la città, per renderla impenetrabile alle minacce epidemiche che giungevano dall’esterno. Venezia non era una città fortificata, ma, contrariamente al suo aspetto aperto e accessibile, era la sua laguna a costituire le sue vere e invalicabili mura. Gli accessi da terra e dal mare erano pochi e facilmente sorvegliabili poiché le insidiose secche limitavano la navigazione; i canali, sia portuali che interni, venivano presidiati dagli ufficiali di sanità che avevano ai loro comandi anche i capitani di tutte le altre magistrature che la pattugliavano per riscuotere i dazi, controllare le vittuarie provenienti dalle isole, contrastare il contrabbando…. . Fra la conterminazione lagunare e la Terraferma vi erano dei posti di blocco a Marghera, Lizza Fusina, Corte Fossetta, Torre di Caligo (vicino a Jesolo, alla confluenza del Caligo con il Sile), sorvegliati da un custode e da guardiani di sanità armati che sbarravano il transito con rastelli (palizzate amovibili) e controllavano le fedi di sanità di ogni viaggiatore, cioè i certificati che ne attestavano: l’identità con una approssimativa descrizione somatica, la provenienza, i servitori, gli animali e i bagagli che lo accompagnavano.
Il controllo delle navi in entrata.
Gli accessi dal mare erano controllati dai caselli del Lido (casematte presidiate da guarnigioni). Sul campanile di San Marco erano appostati, giorno e notte, i novellisti, osservatori che, appena avvistavano una nave in entrata, dovevano correre nella sede del Magistrato alla Sanità vicina alla Zecca per dare la notizia (novella) del nuovo arrivo. Veniva subito inviata una barca di fanti armati con un guardiano che, raggiunta la nave, ne prendeva il comando, perché il capitano potesse recarsi nell’ufficio del Magistrato a bordo di una delle sue scialuppe, seguendo a distanza la barca dei fanti di sanità che controllavano che, durante tutto il tragitto, non avesse contatti con alcuno.
Giunto in ufficio, il capitano entrava da solo in una stanza in cui veniva interrogato dal segretario affacciato ad una finestrella che gli garantiva la distanza di sicurezza. Si redigeva così la relazione dettagliata del viaggio, sottoscritta e giurata dal capitano che esibiva la patente (certificato di viaggio) rilasciata dal porto di partenza e vidimata ad ogni scalo, attestante la salute o il grado di pericolosità dei luoghi toccati durante la navigazione. In caso di falsa dichiarazione, il capitano rischiava la pena di morte. Nonostante ciò, non era infrequente che qualcuno, dopo aver salpato l’ancora da porti appestati, distruggesse la documentazione e si facesse rilasciare una nuova patente da un porto libero dal contagio. Per questo motivo era molto utile disporre di informatori e spie in tutto il Mediterraneo.
Compiute le pratiche burocratiche con l’esame dei libri di carico delle merci e delle fedi di Sanità di tutti i viaggiatori, si procedeva al trasferimento delle merci e dei passeggeri dalle navi alle peate, grosse imbarcazioni a fondo piatto che li trasportavano nei lazzaretti, dove sarebbero rimasti per un periodo più o meno lungo di contumacia in relazione alla pericolosità della rotta percorsa e ad eventi accidentali come casi di malattia a bordo, contatti con pirati e corsari, soste in scali sospetti.
Le navi restavano in isolamento alla fonda nei canali periferici con i loro equipaggi sotto il controllo del guardiano, mentre le peate, dopo aver scaricato le merci e i passeggeri, venivano espurgate con acqua salsa e aceto.
I Lazzaretti e il business degli espurghi.
Quando non vi era l’emergenza pandemica, entrambi i lazzaretti, anche quello Vecchio, fondato per il ricovero dei casi conclamati, erano utilizzati per la prevenzione. I loro priori, ovvero i direttori responsabili della loro gestione, sovrintendevano a tutte le operazioni di carico e scarico delle merci e dei passeggeri dalle navi e controllavano fosse osservata la rigorosa divisione e impenetrabilità fra i vari settori di contumacia, separati per data di arrivo e per durata dell’isolamento, che poteva andare da 7 giorni a multipli di 7, rinnovabili in seguito al manifestarsi di nuovi casi. In situazioni gravi la contumacia arrivava a 40 giorni. Va precisato che il termine quarantena è successivo ed errato se applicato in maniera retroattiva ed esteso a tutte le pratiche di isolamento della Repubblica.
Ciascuno dei due priori era scelto dalla classe dei cittadini, non poteva essere consanguineo a nessun altro dipendente del Magistrato, nè aver interessi in alcuna attività mercantile o commerciale. Restava in carica quattro anni e aveva l’obbligo di risiedere nel lazzaretto, era stipendiato annualmente e, all’inizio del suo incarico, doveva versare una caparra di 1000 ducati a garanzia della sua onestà nel custodire le merci e nel tutelare i diritti dei contumacianti. Il suo compito era considerato di tale importanza che non era sottoposto all’autorità di nessun altro magistrato che non fosse quello alla Sanità; era coadiuvato da un sottopriore e non poteva allontanarsi dal lazzaretto, se non per recarsi all’ufficio di sanità dietro esplicito ordine superiore. Doveva sorvegliare che nulla e nessuno entrasse o uscisse dal lazzaretto e che le operazioni di rifornimento si svolgessero secondo le regole: due volte al giorno si avvicinavano al muro di cinta le barche dei vivandieri che, restando a debita distanza, vendevano alle persone in isolamento quanto, di commestibile e non, era stato loro ordinato. La merce veniva collocata in un apposito cesto appeso a una lunga canna, che permetteva di passare i prodotti ai guardiani senza alcun contatto e di ritirare il denaro che veniva subito pulito con acqua salsa o con aceto.
Servizi e tutele per i contumacianti.
I vivandieri non potevano aumentare il costo delle mercanzie più di un soldo sul prezzo stabilito dal calmiere ed effettuavano le stesse operazioni anche presso i bastimenti che restavano in contumacia alla fonda. Non potevano farsi sostituire, pena la perdita dell’incarico e l’assunzione, al loro posto, del denunciante. Portavano sulle loro barche la bandiera di San Marco ed era loro proibito vendere vino o uscire in mare facendo commercio a bordo delle imbarcazioni dei rimorchianti cioè di quanti pilotavano le navi dentro la laguna. Nel 1719 si contemplò la pena di morte per i rimorchianti, che venissero meno al loro dovere di controllare la provenienza delle navi in entrata, facendo issare a quelle sospette la bandiera gialla nell’albero di mezzana.
La rigorosa separazione delle competenze e degli ambiti di intervento dei funzionari di sanità e la moltiplicazione degli spazi dell’isolamento erano avvertite come precauzioni indispensabili per bloccare o perlomeno per limitare i rischi di diffusione del contagio. Persino i tempi e gli ambiti del culto nelle chiese dei due lazzaretti erano dettati dalla necessità di tenere i fedeli e il personale nei loro settori di contumacia, evitando tra loro ogni contatto o commistione; la Ragion di Stato e gli interessi prioritari della salute pubblica entravano persino nel suolo sacro per articolarlo in zone separate, nella ripetizione quasi ossessiva degli spazi dell’isolamento. Anche i rituali religiosi e civili connessi alla morte erano frutto del compromesso fra le esigenze cristiane e quelle economiche di tutelare la volontà del moribondo da possibili estorsioni da parte del personale, perciò il cappellano fungeva da notaio, redigendo i testamenti dei malati; il cadavere di qualsiasi persona mancata in contumacia veniva inumato nel cimitero del lazzaretto e, se appestato, coperto di calce viva.
Garanzie e costi per i mercanti.
Le merci, sotto il controllo dei guardiani, venivano espurgate da bastazzi, cioè da facchini esperti nel trattamento delle mercanzie secondo le modalità stabilite, sotto ampie e aereate tettoie che proteggevano dalle intemperie; ad esempio i tappeti venivano distesi e coperti di sabbia, le balle di lana e cotone aperte e manipolate, le cere immerse in acqua, gli animali pennuti e lanuti trattati con acqua e aceto, le lettere venivano affumicate…. Ad ogni nuovo arrivo venivano estratti a sorte i guardiani e i bastazi, che sarebbero rimasti in contumacia con quella partita di merci e passeggeri, che prendevano in custodia evitando contatti con persone e cose delle altre contumacie. Le spese di tutto il personale impiegato venivano liquidate dai mercanti all’atto della liberazione delle merci.
Non era infrequente che i mercanti tentassero di corrompere gli addetti alla sorveglianza delle loro merci, soprattutto nei periodi in cui il mercato le quotava al massimo. Per lo più i guardiani infedeli venivano intercettati dalle barche del Magistrato alla Sanità o dagli ufficiali addetti al controllo dei dazi che li coglievano in flagrante presso le navi in contumacia o i lazzaretti. Si verificavano allora dei conflitti a fuoco e degli inseguimenti in laguna che terminavano con la cattura e la condanna dei rei, se invece questi riuscivano a fuggire, si pubblicavano le sentenze di condanna che venivano inviate in tutti i dominii della Serenissima.
Il 18 aprile 1719, ad esempio, si condannarono al bando perpetuo, alla confisca dei beni e all’esecuzione capitale per fucilazione i tre guardiani di Sanità posti alla custodia del trabaccolo “Il Sol”, della tartana “La Rosa” e della marciliana “La Luna Nova”. Arrivati a Venezia dall’isola di Boiana in Montenegro, con l’aiuto di alcuni complici, avevano scaricato delle balle di tabacco che avevano fatto portare al Fondaco dei Tedeschi, forzandone la serratura. Dopo essersi recati al Lazzaretto Vecchio per riscuotere dai mercanti, “interessati in esso tabacco, la iniqua loro mercede”, uno di loro era tornato al Fondaco per rubare parte della merce. I colpevoli riuscirono a fuggire perciò il Magistrato decise che venisse esposta una lapide infamante nel suo ufficio per ricordare l’accaduto.
Esecuzione capitale per chi violava il cordone sanitario.
Il 23 marzo 1751 venne giustiziato il marangon (falegname) Francesco Lorenzoni per aver attentato alla salute pubblica violando il cordone sanitario. Il falegname era stato incaricato di eseguire dei lavori di restauro nel Lazzaretto Vecchio e in quell’occasione, con la complicità di un suo giovane aiutante, cercò di sottrarre 40 masse di seta provenienti da Costantinopoli. Colti in flagrante, i due rei confessi furono trattenuti nel lazzaretto per la contumacia, nel frattempo si celebrò il processo. Il giovane complice beneficiò delle attenuanti e si avviò a scontare dieci anni di servizio al remo nelle pubbliche galere, il falegname, invece, fu condannato a morte per fucilazione.
Le modalità della pubblica esecuzione, davanti all’Ufficio del Magistrato, sulla fondamenta di Terranova, affacciata al Bacino di S. Marco, con folto pubblico e solenne rituale, lasciano trasparire l’importanza dell’esemplarità della pena. In quell’epoca, anche se l’emergenza epidemica non si riproponeva in città da ben 120 anni, era viva la paura per le terribili pestilenze di Marsiglia (1720) e di Messina (1743); il governo era consapevole che la sicurezza e la salute dipendevano dall’impenetrabilità dei cordoni sanitari, dalla tracciabilità di tutti coloro che entravano in laguna, dal monitoraggio di tutti i paesi con cui si intrattenevano scambi commerciali. Le informazioni sulla salute dei singoli e sui focolai internazionali erano fondamentali per stabilire la durata delle contumacie o la chiusura dei confini. Un fatto era certo: non si doveva mai allentare la sorveglianza perché, in poco tempo, ci si sarebbe ritrovati l’epidemia in casa. Per questo motivo le violazioni delle misure di prevenzione e dei cordoni sanitari venivano colpiti con pene severe ed esemplari.
Le peculiarità ambientali dell’arcipelago-Venezia, racchiuso dalla sua laguna, furono utilzzate dal Magistrato alla Sanità per tenere lontane le pandemie con un’articolata rete di cordoni sanitari sulle vie di terra e di mare per moltiplicare i tempi e gli spazi che dividevano la Serenissima dai luoghi contagiati.
In tutto il Mediterraneo la peste continuò a imperversare fino alla fine del XIX secolo, ma a Venezia, dal 1630, non entrò più. La laguna continuò ad essere considerata un cordone sanitario sicuro anche durante la Dominazione Austriaca che scelse l’isola di Poveglia per farne il centro ad alto isolamento dell’intero Litorale Austriaco applicando il modello di sanità veneziano.
Per approfondimenti rinvio a:
Nelli-Elena Vanzan Marchini, Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, voll. 5, Vicenza 1995-Treviso 2012;
Ead., Venezia, la salute e la fede, Vittorio Veneto, De Bastiani 2011;
Ead., Venezia e i lazzaretti mediterranei, Catalogo della Mostra (Biblioteca Nazionale Marciana), Mariano del Friuli 2004;
Ead., La peste del 1630 a Venezia e la Madonna della Salute, “Timer Magazine”, 21/11/2019.
Immagini:
Vincenzo Coronelli, Navi alla fonda, sec. XVII.
Le barche di armati che pattugliavano la laguna, sec. XVIII.
Laguna di Venezia, Il lazzaretto Vecchio, La casa del priore con la terrazza sulla laguna dalla quale i guardiani ricevevano le merci dai vivandieri (foto Vanzan).

Nelli Vanzan Marchini
Storica - Docente
Patrizia
29 Aprile 2020 at 09:15bello interessante grazie