“Bobo, svegliati, vieni a mangiare”. Bobo allora si alzava da letto con la massima lentezza possibile. Nessuno glielo aveva mai spiegato, ma sentiva che non faceva bene alla salute levarsi di scatto. Prima di fare colazione praticava sempre un po’ di ginnastica. Quei cinque minuti di stretching mattutini gli avevano consentito di tenersi in forma nel corso degli anni. Ma il tempo era passato e, nonostante le salutari abitudini, non disponeva più dell’agilità e dell’energia di prima. Portava comunque bene la sua età. Da circa dodici anni la sua occupazione prevalente era qualcosa di simile alla guardia giurata. In cambio di vitto, alloggio e qualche extra. Soprattutto in cambio del sentirsi parte, quasi a tutti gli effetti, di una famiglia.
Così, anche quella mattina, come sempre, s’alzò piuttosto tardi. Attraversò il cortile e andò a fare colazione con il pane e il latte preparatogli dal Signor Roberto, il suo datore di lavoro. Gli era particolarmente legato. Bobo provava affetto per tutti i membri della famiglia Zaffalon di Piovene Rocchette. Ma tra tutti aveva scelto il Signor Roberto come punto di riferimento. Per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Dopo la colazione cominciò l’usuale giro di perlustrazione della proprietà degli Zaffalon. Una modesta fattoria pedemontana con qualche vigneto, un giardino e una bella villetta costruita con i risparmi di due generazioni. Bobo non faceva molta distinzione tra chi era il legittimo proprietario di terreni e immobili, e chi invece, come lui, era solo un lavoratore dipendente. Quei terreni e quegli immobili li sentiva propri. Se ne considerava parte per averli curati e difesi per ormai tanti anni. Ci aveva passeggiato con il Signor Roberto molte volte. Nell’osservare lo stato del patrimonio avevano spesso assunto un atteggiamento preoccupato se qual cosa non andava. Altre volte si fermavano a contemplare con soddisfazione i frutti del lavoro di anni. Con sguardi compiaciuti dimostravano inevitabilmente ai passanti un moderato orgoglio. Altre volte palesavano invece la propria diffidenza nei confronti dei curiosi e della gente di passaggio.
Se non c’era altro da fare alla fattoria, Bobo andava a trovare il collega Helmut che abitava a qualche centinaia di metri. Insieme facevano una passeggiata. “Di controllo”, lasciavano intendere. Per sottolineare il proprio senso del dovere. In effetti si incontravano per potere stare insieme. Non parlavano molto tra loro, ma si capivano alla perfezione. Si conoscevano da molti anni. Da giovani avevano la cattiva, ma tollerabile, abitudine di disturbare i passanti. Era un gioco molto divertente, e legittimo nella loro posizione di responsabili della sicurezza delle proprietà. Certo non era una cosa molto intelligente, né particolarmente educata. Infatti, piaceva loro spaventare i passanti uscendo all’improvviso da dietro un cespuglio gridando. Oppure inseguivano le biciclette facendo talora cadere i malcapitati ciclisti. Adesso erano invecchiati e preferivano limitarsi a passeggiare tranquilli.
Bobo e Helmut non si sentivano vecchi. Non si erano mai posti il problema. Senza rimpianti, rimorsi, ricordi. Non avevano mai compiuto gesti eccezionali di coraggio. Una volta Bobo aveva sventato un furto degli zingari. Sebbene appassionato del proprio lavoro, non sognava l’occasione per coprirsi di gloria. Non aspettava i tartari come il tenente Drogo. L’episodio degli zingari svanì in un attimo nella sua memoria.
Una sera, Bobo rientrò più presto del solito. Era stanco. Si stese a dormire per un tempo indefinito. Si svegliò quando il Signor Roberto lo chiamò per la cena. Stentò ad alzarsi, ma volle comunque affrettarsi per dimostrare affetto a chi sentiva essergli stato sempre vicino. Aveva mal di testa. Il cortile gli sembrò più ampio, il percorso più lungo del consueto. Mangiò assieme agli altri membri della famiglia. Non prese parte attiva alle conversazioni. Non lo faceva mai. Tuttavia, con il suo comportamento sapeva dimostrare efficacemente approvazione o biasimo. Quella sera era ripiegato su se stesso. Sul quel mal di testa.
Uscì per andare a letto. Istintivamente, chissà perché, decise di dissotterrare qual cosa che da anni aveva riposto presso la capanna senza che nessuno se ne accorgesse. Se lo portò presso il giaciglio e si addormentò. Sebbene il mal di testa aumentasse, non si spaventò più di tanto. Non fece bilanci della propria vita. Gli dava sollievo quell’oggetto che aveva voluto conservare senza mai chiedersi perché. Non ricordò nulla. In quel momento viveva. Poi spirò.
Il Signor Roberto rimase stupito quando la mattina dopo lo chiamò e Bobo non corse da lui. Dopo lo stretching. Lo cercò nella cuccia e capì subito che era morto. Con il suo ultimo osso in bocca. Se ne dispiacque profondamente. Si ricordò quand’era cucciolo. Quando aveva scavato decine di buche alla ricerca di qual cosa che aveva dimenticato. Quando aveva scacciato con successo gli zingari. Rammentò l’affetto di Bobo per i bambini. La gioia incontenibile quando lo chiamavano a vedere la televisione con loro se fuori faceva troppo freddo. Si rattristò quindi per la morte di Bobo, ma tutto questo l’aveva già conosciuto e forse l’avrebbe provato ancora. I bambini, invece, piansero più di una lacrima. Sembrò loro che una parte della vita se ne fosse andata per sempre. Che Bobo fosse insostituibile.
Helmut quel giorno andò a passeggiare da solo. Non fu nemmeno sorpreso dell’assenza dell’amico. Abbaiò ai passanti, scodinzolò al padrone, fece le solite cose. Come sempre.

Corrado Poli
Docente / Scrittore