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Le misure della Serenissima per convivere con le pandemie. il controllo dell’immigrazione e della mendicità

Sul fronte interno, per contrastare la peste era necessario individuare i focolai  al loro iniziale manifestarsi, il presupposto indispensabile era il controllo rapido e capillare di tutti i malati e morti in città. La rilevazione dei decessi era affidata ai Signori di Notte che in caso si reati  intervenivano per finalità di ordine pubblico. Il Magistrato alla Sanità si avvalse invece dei piovani delle numerose chiese veneziane. Costoro costituivano il capillare riferimento territoriale della popolazione nei momenti chiave della vita biologica: la nascita, l’unione sessuale, la malattia, la morte. Questi momenti trovavano la loro legittimazione sociale nella celebrazione liturgica dei battesimi, dei funerali, dei matrimoni e delle festività, che garantivano la coesione e la perpetuazione della comunità. Nessun altro meglio del piovano, che a Venezia veniva eletto dai cittadini, poteva, dunque, essere utilizzato, come un operatore sanitario, trovandosi nella condizione ottimale per raccogliere e registrare i dati epidemiologici e anagrafici dei propri parrocchiani.  In una sorta di fisiologica assimilazione dell’etica religiosa alla strategia politico-sanitaria della Repubblica, le numerose sagrestie delle chiese, che scandivano il territorio urbano, divennero i punti di raccolta dei dati sulla morbilità e mortalità della popolazione. Del resto chi altri avrebbe potuto espletare meglio questo compito se non chi assolveva la missione cristiana di assistere gli infermi e confortare i moribondi?

 

Il controllo del territorio attraverso i piovani

 

Nel 1489 si ordinò ai piovani di segnalare la peste al suo primo manifestarsi nella propria contrada, nel 1504 vennero incaricati di visitare giornalmente gli infermi redigendone una lista da presentare all’Ufficio di Sanità. Non potevano far seppellire i morti senza aver prima ottenuto la licenza sanitaria e  nelle chiese dovevano affiggere in grande evidenza l’ordine ai fedeli di comunicare tempestivamente i nomi degli  ammalati e dei deceduti. E’grazie a questa organizzazione che all’Archivio di Stato di Venezia si trovano i registri dei “Necrologi” che tramandano (con poche lacune) le registrazioni giornaliere dei nomi dei morti, con  la loro professione, contrada, l’età effettiva o apparente, la malattia o le altre cause del decesso. Tali dati consentirono  il computo mensile e annuale della mortalità e la sua distribuzione nel territorio urbano. I piovani, o qualcuno dei loro preti, dovevano anche soprintendere alla redazione degli inventari dei beni che i loro parrocchiani portavano con sé nei lazzaretti.  Dopo averli sottoscritti, li consegnavano allo scrivano dell’Ufficio di Sanità, a garanzia che nel periodo di isolamento nessuno se ne potesse appropriare e in caso di morte passassero ai legittimi eredi.

I luoghi sacri furono utilizzati, inoltre, per l’educazione sanitaria impartita soprattutto attraverso la figura e le vicende di San Rocco pellegrino. Nell’ecumenismo cristiano la figura del pellegrino era rispettata ma costituiva anche un potenziale veicolo di diffusione del contagio. Poiché il pellegrino si spogliava degli abiti mondani e della sua identità per intraprendere il suo cammino devozionale,  sfuggiva alla tracciabilità cui erano sottoposti convogli, mercanti, viaggiatori. Il patrizio veneziano Francesco Diedo, diplomatico della Serenissima e rettore di importanti città della Terraferma flagellate dalla peste, scrisse “La Vita de Sancto Rocco”, pubblicata in volgare e in latino da Simon Magniacus (Milano 1479).  Il neonato Magistrato alla Sanità fece di San Rocco l’icona del suo programma di lotta alla peste perché con il suo esempio invitava gli appestati ad accettare l’isolamento nei lazzaretti. Il Santo, infatti, nel racconto agiografico del Diedo, aveva scelto di  vivere la sua malattia  in solitudine nel bosco presso Piacenza  per non nuocere al prossimo.  Le spoglie di San Rocco furono trasportate a Venezia dove gli vennero dedicate una Scuola Grande e una Chiesa.

 

Povertà patogena e affittaletti

 

Nell’Occidente del tardo Medioevo guerre e carestie favorirono epidemie e emigrazioni alimentando una povertà congiunturale che mise a dura prova il sistema assistenziale basato sulla indiscriminata carità cristiana. Era difficile controllare le masse di poveri che periodicamete giungevano a Venezia in cerca di sostentamento, vivendo di espedienti e di attività come la mendicità e la prostituzione.  Per non trascorrere la notte sulle vie cittadine questi marginali forestieri, con poca spesa, prendevano in affitto un letto in case private. Il Magistrato alla Sanità nel 1490 impose agli “affittaletti” di non  superare il numero massimo di 4 persone per casa. A differenza degli alberghi e delle locande che ospitavano mercanti e viaggiatori, gli affitaletti cercavano di guadagnare il massimo da una clientela molto povera che spesso divideva il letto  con qualche altro vagabondo in situazione di promiscuità e di rischio sanitario. Il neoistituito Magistrato alla Sanità si preoccupò di porre un tetto al numero di ospiti: 4 per casa e 2 per letto; il 23 settembre 1490 cercò di affrontare il problema degli sbarchi degli immigrati a Venezia, proibendo ai barcaioli di Mestre, Fusina e degli altri traghetti attivi sulla conterminazione lagunare di traghettare poveri e birbanti. Per colpire i trasgressori ordinò ai “palattieri”, cioè agli ormeggiatori, di rendere edotti i barcaioli di tale divieto e di denunciare all’Ufficio di Sanità quelli che lo violassero. La discesa di Carlo VIII in Italia per rivendicare il Regno di Napoli (1494) portò al seguito della sua armata molti mercenari e “birbanti oltramontani”, pronti a riversarsi sulla ricca Venezia per vivere di espedienti, perciò i Provveditori alla Sanità reiterarono l’ordinanza ai barcaioli della terraferma contemplando  la pena di 100 lire di multa e l’incendio della barca.

La fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 furono segnati da drammatici eventi bellici: la battaglia di Fornovo (1495), la disfatta di Agnadello (1509), la battaglia di Pavia (1525) e il sacco di Roma (1527). Il binomio guerra-carestia sospinse a Venezia una marea di profughi in cerca di pane. Sporcizia, miseria, prostituzione e assembramento costituirono il terreno fertile per il diffondersi prima della sifilide, poi del tifo esantematico, portato dai pidocchi con una mortalità dal 20 al 40 per cento, e infine della peste. Tutte e tre le patologie erano di facile identificazione, contraddistinte la prima dal sifiloma cioè un nodulo ai genitali che nella fase primaria degenerava in un’ulcera, il secondo dagli esantemi che comparivano sulla pelle e la terza dalla comparsa di bubboni alle linfoghandole ascellari o inguinali.  Non si tardò a collegare la diffusione di tali patologie alle situazioni di crisi in cui l’aumento della mendicità e delle immigrazioni dei diseredati vennero percepite come causa di focolai epidemici. Il divieto di questuare e di dormire sul Ponte di Rialto (1497), l’ordine ai mendicanti stranieri  di lasciare la città entro 8 giorni (1498), la proibizione di chiedere l’elemosina a faccia coperta senza licenza del Magistrato alla Sanità (1505), il divieto di mendicare nelle chiese (1523), il bando perpetuo dei poveri forestieri (1525) sono tutti provvedimenti emessi per contrastare una mendicità ritenuta, non solo indecorosa e pericolosa in una città mercantile, ma soprattutto infetta e patogena.  Nel 1523 i piovani furono obbligati a segnalare chi ospitava forestieri e ad esporre nelle chiese il divieto di dar alloggio a stranieri senza licenza. Nello stesso anno venne introdotto l’obbligo per i barcaioli di trasportare, sia in arrivo che in partenza da Venezia, solo passeggeri muniti di fede di sanità.  Fra il 1523 e il 1525 si intensificarono i divieti per affittaletti, osti e privati di alloggiare forestieri senza permesso e si stabilì  la  pena della frusta da Rialto a San Marco e il  bando per chi alloggiasse furfanti e mendicanti.

 

 Distinguere fra i bisognosi per soccorrere i propri “fratelli”  

 

I Lanzichenecchi, scesi in Italia al servizio di Carlo V, lasciarono dietro di loro terra bruciata e misero a sacco Roma il 6 maggio 1527. Folle di miserabili si riversarono su Venezia.  Alla povertà strutturale, che la Repubblica assisteva attraverso la rete delle sue opere pie, si aggiunse una povertà congiunturale alimentata esponenzialmente da una immigrazione che, con continui sbarchi, nonostante i controlli dei traghetti e dei barcaioli, raggiunse dimensioni insostenibili.

 

Nei giorni precedenti il Natale il quadro è  desolante: di sera Piazza San Marco e Rialto brulicano di miserabili fra cui molti bambini  che “cridano: pan et muoro de fame et de fredo”. Alla mattina si raccolgono dei cadaveri per le strade. La situazione assume le dimensioni di un flagello biblico quando, nella sporcizia e promiscuità dei corpi infestati dai pidocchi, si diffonde il tifo esantematico che diventa virulento negli organismi debilitati dalla fame e dai rigori invernali.

Il 13 marzo 1528 i tre Provveditori alla Sanità compaiono in Senato e relazionano con il consigliere  ducale, Alvise Mocenigo, e con uno dei capi della Quarantia, Giovanni Francesco Emiliani.  La situazione interna è allarmante: crisi economica e carestia invitano ad assumere con urgenza delle misure  per soccorrere la marea di poveri e immigrati che attanaglia la città e per limitare l’epidemia. Il Senato approva la costruzione di tre ospedali provvisori ai Santi Giovanni e Paolo, a S. Giovani in  Bragora e alla Giudecca.  Per sostenere la spesa si istituisce  la tassa di 3 soldi per ogni ducato di affitto di casa o bottega superiore a 10 ducati.  La raccolta del contributo viene  affidata al piovano di ciascuna contrada e a un nobile e a un cittadino eletti dai parrocchiani. Il computo delle entrate spetterà al Magistrato alla Sanità che le impiegherà per le misure di emergenza. Per i poveri sorpresi a mendicare fuori dai tre ospedali provvisori si contempla il carcere, la fustigazione da San Marco a Rialto e la cacciata dai territori della Repubblica.  Nonostante queste misure, ad aprile si registrano 1041 morti e a maggio 1439.  Con l’arrivo della stagione calda i pidocchi lasciano  il campo alle pulci e al tifo si sostituisce la peste. Nell’inverno del 1528 si riacutizza il tifo esantematico, ma in maniera meno virulenta dell’anno precedente.

 

Durante tutta l’emergenza i piovani furono  sollecitati a infiammare con le loro prediche l’animo dei fedeli spingendoli a fare offerte, vennero anche invitati  a denunciare durante le omelie coloro che, pur potendolo fare,  non lasciavano elemosine per i poveri. D’altro canto si garantiva  che le offerte sarebbero state impiegate per gli indigenti meritevoli della parrocchia e non per mendicanti o birbanti forestieri. Fu in quel momento di profonda crisi congiunturale che si istituzionalizzò con il nome di Fraterna dei poveri,  il comitato laico a latere di ogni  piovano istituito per soccorrere i “fratelli” più sfortunati. Si deliberò anche la distribuzione della grande massa dei poveri veneziani in modo tale che le contrade più opulente ne avessero un numero maggiore da soccorrere. Il piovano non aveva diritto di voto, pur avendo il compito di coordinare la raccolta delle elemosine e la loro distribuzione  secondo una graduatoria di merito: sopra tutti dovevano essere posti i poveri “vergognosi” di origine veneziana, cioè quanti da una condizione di agiatezza erano precipitati nell’indigenza e dunque avevano il diritto di ricevere assistenza a casa o di mendicare a volto coperto  nel rispetto della loro “vergogna”. Ai poveri anziani e disabili era concesso il pemesso di mendicare a volto scoperto esibendo il “bollettone con il simbolo di S.Marco” rilasciato dal Magistrato alla Sanità. La Fraterna doveva trovare un lavoro  nelle arti ai disoccupati, mentre i giovani sfaccendati di famiglie molto povere vennero sottratti al vagabondaggio e alla delinquenza con l’imbarco coatto sulle navi come mozzi, con la prospettiva di diventare marinai.  Infine per i mendicanti forestieri si scelse la strada dell’espulsione, rimandandoli al paese d’origine e ricorrendo alla  fustigazione se rifiutavano il rimpatrio, cacciandoli poi comunque.

 

Medicine gratis per i poveri veneziani

 

Il 3 aprile del 1529 il Senato riconobbe  al Magistrato alla Sanità la piena ed esclusiva competenza in materia di poveri “e la stessa autorità che nelle cose del morbo”. Ne derivò il rafforzamento dell’organizzazione delle Fraterne per il controllo sanitario delle fasce marginali del territorio con l’obbligo  dei  piovani di segnalare la presenza e gli spostamenti degli indigenti da una parrocchia all’altra, da una Fraterna all’altra. Questa organizzazione durò con piccole modifiche per tutta la durata della Repubblica. Fu istituita anche la Fraterna di Sant’Antonin con il compito di distribuire  i medicinali gratis ai  veneziani infermi dietro  presentazione della “fede medica” con la prescrizione del farmaco e della “fede di povertà”, attestante il loro stato di effettiva indigenza, sottoscritta dal piovano della loro fraterna.

 

In conclusione, lo Stato Veneziano mise  in atto  fin dalla fine del XV secolo misure originali per contrastare l’immigrazioni, la mendicità  e la furfanteria come possibili focolai di contagio, preoccupandosi di adottare una scala di valori che consentisse di discernere nella massa dei diseredati  quelli meritevoli di assistenza, adottando il modello della grande famiglia che ha il dovere di assistere  i suoi figli più sfortunati.  La cristianissima Repubblica  nei momenti di crisi adottò  la responsabile opzione di cacciare i mendicanti provenienti dagli altri Stati perché alle loro patrie riteneva spettasse  il dovere di soccorrerli. In applicazione delle leggi del 1528, cacciò 4000 poveri  stranieri.  Con essi i Provveditori alla Sanità intesero allontanare oltre ad una fonte di tensioni sociali, un pericoloso focolaio di contagi.  I poveri forestieri, definiti anche pitocchi, birbanti, mendicanti, si sottraevano, infatti, alla tracciabilità e, restando nella clandestinità, non erano individuabili come tutti gli altri forestieri che giungevano legalmente a Venezia soggiornandovi con licenza del Magistrato alla Sanità, né come i poveri terrieri che erano distribuiti nelle contrade e registrati dalle fraterne da cui erano assistiti.

 

 

  1. Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, voll. 2, Roma 1982.

N.E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995; Eadem, Venezia la salute e la fede, Vittorio Veneto 2011; Eadem, Venezia e Trieste sulle rotte della ricchezza e della paura, Sommacampagna VR 2016.

Le Leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, a cura di N.E. Vanzan Marchini, Voll. 5, Vicenza 1995- Treviso 2012.

 

Immagini:

Due tipologie di poveri legittimati dal Magistrato alla Sanità: l’invalido e il povero vergognoso che poteva mendicare a volto coperto, tratti da Museo Correr, G. Grevembroch, Gli abiti de’ veneziani antichi e moderni, sec.XVIII.

 

 

 

Seconda parte – Fine

 

 

 


Nelli Vanzan Marchini

Storica - Docente

  • Ettore Vittiman
    27 Agosto 2020 at 21:03

    Preziosissimi scritti
    Li salvo tutti e ogni tanto me li rileggo
    Magari oggi se ne facesse tesoro in questi particolari tempi

  • Giampietro Feltrin
    22 Settembre 2020 at 12:11

    Straordinari la conferenza di Nelly Vanzan egli altri scritti segnalati con l ‘illumimazione della civiltà veneziana. Le proteste e le lamentele collettive degli ultimi tempi richiederebbero quell’obbligo di lettura.

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