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C’era una volta Bevilacqua: ritratto di uno scrittore padano

Alberto Bevilacqua non è stato uno di quegli artisti “maledetti” tormentati dal destino, bistrattati dai contemporanei, prigionieri dei propri incubi, perseguitati dai vizi, dai debiti,  riconosciuti e acclamati solo post mortem come capita a molti geni. Bevilacqua (Parma 1934, Roma 2013)  ha vissuto una vita di successi: campione di incassi nelle librerie, vincitore di Strega, Campiello, Bancarella e altri premi, regista e sceneggiatore di film tratti dai propri romanzi – come La Califfa e Questa specie d’amore – firma prestigiosa su quotidiani e rotocalchi, frequentatore dei salotti buoni non solo romani, conferenziere in giro per l’Italia e anche all’estero, presenza assidua al Maurizio Costanzo Show, per anni salotto tv per eccellenza e trampolino di lancio dei “saremo famosi”.  Ma a soli sette anni dalla morte – come altri talenti italiani emersi negli anni del boom postbellico – su Bevilacqua oggi sembra calato un sipario buio.

La Rai, ad esempio, che  riscopre e rispolvera voci e volti persino di cantanti e complessini saliti alla ribalta anche per un solo motivetto, o di oscuri fenomeni anni Sessanta e Settanta, quanto spazio ha dato e dà al Bevilacqua scrittore, poeta, regista e – perché no – personaggio tv? Insomma, se è amaro, per un artista, vivere tutta un’esistenza grama ed essere baciati dalla fama solo a posteriori, in fondo lo è anche vivere nell’agio di un superattico con terrazza affacciata su Roma, raccontando magistralmente tragedie, dolori, miserie di altri, ma alla fine subire la dannazione del silenzio postumo.  E c’è poco da consolarsi al pensiero che in altre epoche storiche ricoprivano di biacca antichi affreschi ritenuti demodé. Oggi tutto si mischia e si confonde nel web, più crudele della biacca perché conserva ogni cosa, ma la rende subito obsoleta, irraggiungibile, indecifrabile.
Questi pensieri vengono in mente leggendo  “Alberto Bevilacqua, Materna parola”, un accurato saggio  biografico scritto da Alessandro Moscè – poeta e critico letterario  marchigiano – appena pubblicato dall’editrice Il Rio. Organizzando il premio letterario Città di Fabriano, Moscè conobbe Bevilacqua ormai avanti negli anni ed ebbe con lui un lungo dialogo anche telefonico, intermittente ma intenso, quasi da discepolo a maestro, se non fosse che Bevilacqua non dava lezioni ma piuttosto amichevoli consigli. E’ su questa originale base, arricchita da confidenze inedite, che poggia questo “ritratto di scrittore”: un saggio che esplora nella vita dell’autore parmigiano con accuratezza documentaria: nulla a che vedere, dunque, con le “Storie della mia storia” che Bevilacqua stesso pubblicò con Einaudi nel 2007.
Nel libro di Moscè si citano aneddoti legati agli incontri e alle amicizie di Bevilacqua con celebrità mondiali – come Charlie Chaplin, Eugene Ionesco, Garcia Marquez, Borges, Paolo VI – e con personaggi del cinema indimenticabili come Romy Schneider (la protagonista de La Califfa), Ugo Tognazzi, Helmut Berger, Totò, Manfredi, Morricone.  Emerge con forza il legame affettivo complesso con la madre Lisetta – donna di popolo, sofferente, apprensiva, tormentata – e di riflesso con la nonna, una ballerina spagnola del “Regio” di Parma: fu lei, con la madre, lo scrigno vivente di storie, personaggi  e leggende padane – come le magie, le streghe e gli “strioni” del Po  – da cui il futuro scrittore trasse grande ispirazione. Resta più sfumato il rapporto col padre aviatore in epoca fascista e donnaiolo. Buio totale sulle donne dello scrittore: Bevilacqua sembra aver voluto imporsi ed imporre il totale riserbo su questo argomento. Parlano per lui solo le invenzioni e rielaborazioni letterarie.
In definitiva la vita di Bevilacqua ha cavalcato i migliori anni dell’Italia postbellica. Cresciuto nel quartiere popolare nell’Oltretorrente di Parma, si fa notare giovanissimo pubblicando le sue prime poesie sulla pagina letteraria della Gazzetta di Parma di cui diventa presto collaboratore. E’ simpatico, intelligente, arguto, audace. Si fa strada così negli ambienti intellettuali di una città nota soprattutto per il formaggio più famoso d’Italia, il parmigiano, ma che in verità è stata una delle piccole e colte capitali dell’Italia preunitaria, la patria fra l’altro di Verdi e Toscanini.

La bozza del libro del giovane Alberto “La polvere sull’erba” che a metà degli anni ’50 squarcia il “segreto dei segreti” parmensi – il “Triangolo della morte” dove nel secondo dopoguerra  fascisti e antifascisti danno vita a truci faide clandestine –  suscita l’attenzione di Leonardo Sciascia, ma subito finisce nel cassetto perché “politicamente scorretto”. Sarà pubblicato solo nel 2000. Come prima di lui un altro grande “provinciale”, Federico Fellini, Bevilacqua arriva a Roma giovanissimo, a 23 anni, per fare il giornalista. Redattore del Messaggero, poi del Corriere, comincia nella “grande mamma” d’Italia – la Città Eterna – la sua irresistibile ascesa verso la fama. Zavattini lo introduce al mestiere del cinema, ma la sua vera vocazione rimane letteraria. Si sente soprattutto un poeta – anche se la poesia ha scarsa audience  – anzi, un poeta prestato alla letteratura. Romanzi, racconti, sceneggiature: lavora senza sosta,  spesso elogiato e di rado stroncato dalla critica, ma sempre premiato dal favore del grande pubblico. In televisione ha la dote di “sfondare lo schermo” col suo sguardo penetrante e la battuta fulminea; polemizza con ironia e vigore ma senza le sbavature e le volgarità a cui oggi siamo abituati. Al cinema fa sceneggiature per Majano, Bava, Salce, Tinto Brass: film e filmetti tra i quali spicca “Anastasia mio fratello” del 1973, di Steno. Ancor più ricca l’attività di regista e sceneggiatore di film tratti dai propri romanzi: otto in tutto, da “La Califfa” del 1970 a “Gialloparma” del 1999. E molto altro ancora.
Tutta questa ricca eredità culturale, oggi purtroppo trascurata, trova col libro di Moscè un’occasione ghiotta di rivisitazione e di rilancio.


Maurizio Cerruti

Giornalista

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